Sarà il lockdown, sarà che il palinsesto delle conferenze di Conte in prima serata ha stufato, saranno le minacce di crisi (una poltrona per due con Renzi?); sarà che il Natale porta con sé immancabilmente la nostalgia. Però attaccati al teleschermo viene in mente la televisione anni Settanta tutta uguale, a prevalenza Rai, in bianco e nero. Certo c’è il colore delle zone gialle che a volte diventano arancioni, ma questo Natale è un grigio foglio di autocertificazione. Ecco dunque una gran voglia di libertà, di colore, d’anarchia: e anche, pensandoci, di quello che fu l’epoca e l’epica delle tv private di quarant’anni fa. E, tra i tanti anniversari minori, forse sarebbe ora di una celebrazione apartitica e apolitica, tralasciando la figura del Cav. politico, ma in chiave prettamente pop, di cos’è stata la rivoluzione del 1980, la nascita di Canale 5 e del suo antenato TeleMilano 58. Una mostra di Vezzoli, un qualcosa al museo del Novecento di Milano, almeno in Bicocca: comunque servirebbe qualcosa, a celebrare la più grande impresa immaginifica del secondo Novecento italiano: che non può passare così, inosservata e trista come un dpcm.
AM: Canale 5 come un grande incubatore degli anni Ottanta, faro e apripista di un decennio portentoso, il pezzo di boom economico che ci mancava, l’ultimo miglio: avevamo la tv in casa, ma non avevamo i canali. Ecco, quindi, dopo le automobili prese a rate, la lavastoviglie, il frigorifero, la villeggiatura, le seconde case, una tv finalmente moderna, americana, colorata, spregiudicata, non paternalistica e senza canone, che ci catapultava fuori dagli anni Settanta (e solo per questo non si ringrazierà mai abbastanza il Cav.).
MM: Tutto nasce dall’immobiliare, grande ossessione psicologica in Italia. TeleMilano nasce citofonica, nasce cioè – e siamo al materialismo storico, la struttura che crea la sovrastruttura – come esigenza di riempire di contenuti (ma all’epoca non si diceva ancora così) quel canale in più libero per gli appartamenti e le villette di Milano 2, gated community creata dal Cav. che all’epoca era solo e soltanto immobiliarista. Dal suo odio per le antenne – averne troppe avrebbe sfigurato quei tetti tutti uguali, quel borgo di borghesia come lui doveva immaginare l’Italia. E dunque sistemi integrati, Rai e videocitofono tutto insieme nello stesso cavo, ma a quel punto dei sei canali che il cavo porta ne rimane uno libero: e perché non riempirlo, quel vuoto? Vanno in onda così i primi programmi, che, incredibilmente, funzionano. Dopo qualche mese Berlusconi capisce che quello sarà il business del futuro e molla l’immobiliare al fratello e si butta sulle tv.
AM: Perché l’immobiliare era un incunabolo di vincoli e permessi, un martirologio di licenze, sovrintendenze, bolli, tangenti, cantieri coi picchetti e Tar del Lazio. La televisione privata, invece, una splendida e incontaminata “no man’s land” italiana. Una falla del sistema, uno spazio non ancora presidiato dalla burocrazia e, si sa, le grandi rivoluzioni si fanno solo nell’incertezza legislativa. Fu così per Hollywood, fu così per Internet e i Social. Insomma, possiamo dirlo: TeleMilano è stata la nostra Silicon Valley; un grande laboratorio di creatività e modernità e spericolate sperimentazioni tecnologiche. Proprio come laggiù in California anche qui tutto inizia nei garage e negli scantinati, e c’è la stessa impudenza, la stessa euforia libertaria dei pionieri della digital revolution, solo con Mike Bongiorno e il Cav. al posto di Bill Gates e Steve Jobs.
MM: E’ una saga americana, e c’è un americanismo di Berlusconi, la visionarietà, il fottersene delle regole, molto siliconvallico, tutto ciò che non è vietato è permesso, l’idea di ammassare frequenze su e giù per l’Italia e fare una finta diretta spedendo le videocassette in aereo da Trento a Palermo. Ma c’è un altro tocco americano: quello di Mike Bongiorno, sintesi di milanesità yankee: già in carcere col partigiano-presidente Sandro Pertini, Bongiorno nel 1978 accetta di condurre i primi programmi di quella tv sconosciuta e diventarne “direttore artistico”. Era sicuramente l’unico che avrebbe potuto cogliere quella sfida, e certo, l’avranno pagato bene, però è incredibile come quello che è uno dei due anchor più famosi d’Italia accetta di andare a lavorare per una sconosciuta azienda milanese ancora citofonica. E lì c’è tutta la temerarietà e di nuovo la visionarietà americana, l’idea del sogno, del dream big.
AM: “I sogni nel cassetto”, si chiama appunto il primo format di Telemilano con Mike Bongiorno. Qui siamo davvero nell’epica omerica. Un format molto avanti sui tempi: Un uomo qualunque scelto in studio a caso tra il pubblico doveva aprire nel minor tempo possibile una serie di cassetti. Dentro i cassetti potevano esserci dei “sogni”, cioè dei buoni acquisto in grandi magazzini. Insomma, il cashback di Conte.
MM: “Vi ho già spiegato tante volte che nelle emittenti private ci vogliono gli sponsor”, annuncia Mike durante una puntata. “Quindi questa sera di tanto in tanto faremo qualche menzione pubblicitaria”. La pubblicità irrompe nella placida vita statale e monocanale degli italiani anni Settanta: non garage di Palo Alto ma sotterraneo del Jolly Hotel di Milano 2: lì viene consegnata una busta piena di gettoni, per i telefoni pubblici da cui dovranno chiamare tutti i possibili inserzionisti, i nuovi assunti del Biscione. “Ecco, comincia a fare le telefonate” ha raccontato di essersi sentito dire Pier Carlo Pospi, responsabile pubblicità di TeleMilano 58, nel documentario “Telemilano 58” fatto dalla rivista Link.
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