Foto LaPresse/Matteo Rasero

Sanremo dei miracoli

Simonetta Sciandivasci

Per il sogno di una settimana libera dal Covid. Per ripensare a chi “ci fa tanto divertire”

Ci aspettiamo un Sanremo dei miracoli. Vogliamo che ci alleggerisca, ci diverta, ci liberi. Come e più di sempre, abbiamo tutti dato mandato ad Amadeus di regalarci una settimana di svago, libera dal Covid, dai problemi, dai cattivi pensieri, e lui, povero cuore, s’è messo tutto in spalla, e alla Repubblica ha detto: “Se la gente si sintonizza, si distrae, mette la testa da un’altra parte”. Vorremmo una settimana in cui non ci sia che il Festival e non succeda altro e tutto il resto si fermi, taccia, s’oscuri. Ed è comprensibile, accipicchia. Siamo certi, però, che sia anche legittimo? L’anno scorso, a maggio, quando Giuseppe Conte disse che il governo avrebbe avuto un’attenzione particolare per gli artisti “che ci fanno tanto divertire”, in molti evidenziarono che l’ex premier tradiva un’idea sciatta, dilettantistica e anche piuttosto servile degli artisti (non lavoratori ma juke box viventi al nostro servizio), un’idea che si è poi riverberata nelle non scelte fatte a supporto del loro settore.

 

E noi che idea abbiamo? Noi che siamo il pubblico e vogliamo essere cullati, coccolati, leniti da questo anno difficile proprio da quelli che lo hanno subìto molto più di altri, che idea abbiamo degli artisti? Quando arriverà il momento del nostro ripensamento, ora che a chiunque si chiede di ripensarsi e correggersi e mondarsi e ricostruirsi? Sabato sera, alle nove, molte migliaia di persone si sono connesse al sito “Ultimo concerto”, sperando di assistere a una specie di Live Aid italiano in streaming, con 130 performance, e invece niente, non ha suonato nessuno. Erano annunciati, da giorni, Diodato, Subsonica, Ministri, Ghemon, Brunori Sas, Marina Rei, Ligabue, Caparezza, ma la sola cosa che s’è vista è stato un messaggio su sfondo nero: “L’ultimo concerto lo avete già vissuto, nel 2020. Il prossimo? Noi vogliamo che ci sia! Dateci voce, ci mettiamo la passione e i palchi”. E’ stato un modo per dire molte cose, prima fra tutte che lo streaming non salverà la musica e ricordare anche che i lavoratori dello spettacolo sono moltissimi, anche se non li vediamo, e stanno dietro ai palchi, li montano, li collaudano, li illuminano, li organizzano.

 

   

 

La reazione di una grossa fetta del pubblico è stata incredibile: in molti si sono arrabbiati, sentendosi truffati (nessuno aveva pagato niente) perché “avevamo comprato le birre, volevamo il nostro concerto” e “noi già vi siamo solidali, siamo un pubblico già sensibilizzato, che senso ha darci disagio?”. E così, nel momento in cui gli artisti non intrattengono e lasciano parlare il silenzio, con il quale non si intrattiene nessuno (purtroppo), il pubblico indie, accorto, sensibile e naturalmente sensibilizzato, tradisce il Conte che ha dentro di sé, l’italiano che ha dentro di sé, quello che vuole il Festival per non pensare e il voto per delegare. Stasera, mentre ci godiamo il Festival che doverosamente proverà a farci sognare, pensiamoci anche al fatto che il 49 per cento dei live club non sa se riaprirà dopo la pandemia e il settore dei lavoratori dello spettacolo ha perso oltre 50 milioni di euro. E anche al danno arrecato ai millennial che hanno dovuto scolarsi una Ceres senza poter ascoltare “Aurora sogna”: incalcolabile.

 

Di più su questi argomenti:
  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.