A Sanremo il futuro è quello di una volta
Metà via crucis e metà magnificenza, la serata della cover rende tutti nani sulle spalle dei giganti. Tutti tranne Ibrahimovic. Inaspettatamente bravissimi: Lo Stato Sociale e Fedez
La terza età è condizione così diffusa nel paese e nell’Occidente tutto, che da anni andiamo dicendo: la vita comincia a cinquant’anni. È un modo per consolarci e dare un senso al bene più durevole che abbiamo: la vecchiaia. Viviamo abbastanza a lungo (covid permettendo) da poterci concedere che non sia buona la prima bensì la seconda e soprattutto la terza. Vale anche a Sanremo, quest’anno più che mai. La prima parte viene sempre male ma tanto c’è tempo: le cose buone arrivano verso la fine, si trova l’alba verso l’imbrunire. I duetti migliori se li sono tenuti per il settantanovesimo blocco, come pure è successo martedì e mercoledì per le performance migliori. Ci vuole tempra e un lavoro diurno, specificamente pomeridiano, per godersi il meglio. Ieri, prima di ogni cosa, era il compleanno di Lucio Dalla e il cinquantenario di “4 marzo 1943”. Dalla la portò a Sanremo con un titolo censurato, "Gesùbambino", che prontamente sostituì con la sua data di nascita, e un testo che venne anch’esso setacciato, mentre la paroliera Paola Pallottino se ne crucciava e Lucio se la rideva. Giuliano Sangiorgi ieri ha rimesso le cose a posto cantando la versione originale, e naturalmente facendo urlare al sacrilegio oppure al capolavoro – ci scusino i personaggi austeri militanti severi ma a questa rubrica sono scappati brividi e copiose lacrime, siamo nazionalpopolari e ci piacciono le cafonate. Ad aprire la gara è Noemi con Neffa: tutto sbagliato. La signorilità di lei, che sceglie di cantare un pezzo che non le valorizza la voce insieme a uno che nella vita non ha valorizzato neppure sé stesso, è epica. Bravi ma non superlativi Fulminacci più Lundini più Roy Paci in “Penso positivo”. Dopodiché comincia una via Crucis durante la quale vengono frustati e fustigati Battisti, CSI (la di essi “Amandoti” vanta ormai più tentativi di stupro di "Besame Mucho"), Vanoni (accisa su Casadilego, vestita da daltonismo).
Tutto sembra perduto finché non arrivano Fedez e Michielin, i quali, visto e considerato che Fedez non è in grado di interpretare neppure le canzoni sue, specie se le canta a più di 500 metri da CityLife, mettono insieme un abile, agile, esaltante, velocissimo mashup di più di cinque pezzi, prima con lei al pianoforte e lui in piedi ad accarezzare la coda, da diva del muto qual è, e poi persino in balletto, con lei vestita da Sister Act e lui vestito come sempre dall’arazzo con i piedi che è. Bravissimi. Bambineschi, giocosi, belli assai. Miglior coppia di misfatto dell’anno. Dieci e lode. “Quando” di Pino Daniele rifatta da Arisa e Michele Bravi fila liscia, dilaga e arriva dritta al cuore. Ghemon e i Neri per Caso incastrano “Le ragazze”, “Donne”, “Acqua e sapone”, “La canzone del sole”, lo fanno così bene che quasi viene il dubbio che, originariamente, fossero un’unica canzone, smembrata poi dalla disgregazione della materia, o da Dio, o da Pippo Baudo, vai a sapere. Confidiamo in un tour, appena il mondo riaprirà, con Ghemon settimo Nero per caso o viceversa. Lo Stato Sociale fa “Non è per sempre” degli Afterhours, di nuovo non ha come frontman Lodo e va benissimo così; a un certo punto salgono sul palco Emanuela Fanelli e Francesco Pannofino per ricordare i teatri, i cinema, i locali che hanno chiuso e non riapriranno e quelli che proiettano i film senza pubblico i sala, e forse per la prima volta nella storia del festival piangiamo per i lavoratori dello spettacolo e non per un amore finito. Undici e lode. Willie Peyote e Lo Stato Sociale hanno portato a Sanremo il mondo fuori, senza lasciare nessuno solo dentro la stanza, e chi lo avrebbe detto che persino loro sarebbero diventati tanto adulti. Avremmo dato la corona agli Extraliscio che hanno cantato “Rosamunda” di Gabriella Ferri al tempo dei gitani, posseduti ciascuno da una giostra diversa. Lo avremmo fatto se non fosse arrivata “Mi sono innamorato di te” secondo Gaia e Lous and the Yakuza, lasciando tutti senza niente da fare, nemmeno respirare.
È un festival coraggioso perché rappresenta la nuova musica italiana, il cambio di scena, e di scenari, e di sceneggiatori: giusto, importante. Tuttavia, ci impensierisce che soltanto nella serata delle cover ci sia esploso il cuore sulla faccia, che soltanto i Neri per Caso ci abbiano fatti alzare in piedi per ballare, che soltanto “La musica è finita” di Califano e Bindi abbia cantato, con un pezzo del 1967, quello che, fortissimo, sentiamo da dodici mesi a questa parte: che un minuto è lungo da morire se non è vissuto insieme a un altro e che non vogliamo buttare via la speranza di una vita d’amore. Ce ne siamo accorti ieri sera, e da oggi sarà difficilissimo continuare a mentire, credere alla farsa del farci belli per noi stessi, del vivere per noi stessi, del non voler cedere ogni nostro diritto di prelazione per un amore così grande, oppure così piccolo.
Ma magari è tutto teatro, il solito teatro all’italiana, quel nazionalpopolare che t’avvolge e ti illude di essere parte della miglior comunità possibile, del paese più santo e poetico del mondo. Magari è il solito, vecchio incantesimo della Democrazia Cristiana, che ci mesmerizza persino dalla tomba. Sì, dev’essere così. Chissà se è stata colpa dell’Italia vecchia maniera e dei suoi trucchetti infidi, se ieri sera ci è piaciuto da matti persino Ibrahimovic, che ha detto la migliore battuta del festival: “Achille Lauro lo mettiamo nel mio garage e tu Amadeus stai in cucina a farmi il caffè”. E ha ammesso di essersela fatta così tanto sotto quando Sinisa Mihajlovic s’è ammalato che era lui a chiamarlo per tranquillizzarlo, e non il contrario. E quando Fiorello gli ha chiesto se conoscesse gli Abba, ha risposto: “No, ma loro sanno chi sono”.
Quando Fiorello (mille e lode per tutto), Amadeus (mille e lode e bacio accademico) e Mihajlovic e Ibra hanno cantato “Io vagabondo”, hanno fatto all’amicizia maschile quello che Elena Ferrante ha fatto a quella femminile e soprattutto hanno reso evidente che il futuro dell’Europa è a est, andiamoci subito, vi prego: laggiù, anche se tutto è un po’ sgarrupato, nessuno s’offende se mentre sale sul palco gli metti la canzoncina zingaresca, perché dell’appropriazione culturale se ne fregano, non sanno neppure dove stia di casa e infatti guardate quanti gol fanno.
Sempre azzurra non può essere l’età, a meno che non si sia Orietta Berti, che s’è piazzata seconda e se l’è meritato, avendo cantato “Io che amo solo te” meglio di come avrebbero fatto il 90 per cento dei concorrenti, nati con la tendenza al divorzio nel sangue, e in più vestita di rosso (alla sua età il 190 per cento di noi avrà a stento il coraggio di uscire in grigio) e circondata da un gruppo di ragazze in bianco, le Deva. I nuovisti già cianciano di immobilismo amorale e lasciamoli cianciare, con il TikTok in mano.
Andate e regalate ciò che resta della vostra gioventù. Le nubi sono già più in là, Malika Ayane l’ha cantato magnificamente.
A domani.
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