Fare la parte del capitano
Elogio di Pietro Castellitto, figlio d’arte e astro nascente del cinema italiano che ora si affaccia anche al grande pubblico con una nuova serie tv nei panni di Francesco Totti. Una favola resa ancor più magica
Certi nasi al cinema riempiono lo schermo, raccontano una storia, si possono guardare e riguardare senza noia. Ne possiede uno Owen Wilson, un po’ naturale un po’ avvantaggiato da una rissa e poi da un incidente. Attore abbastanza civettuolo da coprirlo con un cerottone, nel film di Wes Anderson “Il treno per il Darjeeling” (in tono con la testa fasciata). Nello stesso film ammiriamo l’altro grande naso del cinema contemporaneo: Adrien Brody, che in “Summer of Sam” di Spike Lee lo accoppia a una cresta punk, e in “Midnight in Paris” di Woody Allen lo sottolinea con i baffetti di Salvador Dalí.
New entry, il naso grandiosamente affilato di Pietro Castellitto: sarà Francesco Totti nella serie “Speravo de morì prima”, dal 19 marzo su Sky Atlantic e in streaming su Now. Regalo per la Festa dei papà (di figli maschi, da portare al campetto appena hanno smesso di gattonare). Racconta il dramma degli “scarpini da attaccare al chiodo”, così dicevano i cronisti d’altri tempi. Quando i commenti alle partite di calcio, per chi è digiuno della disciplina e li ascolta senza vedere cosa succede in campo, non somigliavano alle istruzioni di un regista sul set di un film scollacciato.
Il dramma cominciò a configurarsi, per via dell’età e di qualche problema fisico. Le radio romane e romaniste parlarono di Armageddon e di “undici settembre giallorosso”. Mamma Fiorella (in un episodio della serie) va su tutte le furie e paragona una mancata convocazione alle “Idi di marzo”, la mortale congiura contro Giulio Cesare. Poi dritta a confessarsi – per i pensieri irripetibili rivolti alle radio di cui sopra. Ma il prete non porge affatto l’altra guancia all’allenatore Luciano Spalletti: nelle sei puntate, è il cattivo, il vilain, l’Arcinemico del campionissimo.
Abbiamo scoperto il naso di Pietro Castellitto – non ancora Francesco Totti, ma la somiglianza è impressionante senza trucchi né protesi – nel film “E’ nata una star?” di Lucio Pellegrini. Anno 2012, il porno si guardava in Dvd: i coniugi Luciana Littizzetto e Rocco Papaleo scoprivano (con stupore e costernazione, avrebbero detto i cronisti degli scarpini chiodati) un pornoattore in famiglia. Non ancora ventenne, iscritto al terzo anno della Scuola alberghiera ma incapace di cuocere l’arrosto senza bruciarlo. Niente di memorabile: la parte richiedeva un’aria stuporosa, con gli occhi sgranati. Impossibile capire se era abile recitazione, o più banale parentela.
Sì, Pietro Castellitto è figlio d’arte. Papà Sergio Castellitto e mamma Margaret Mazzantini. Ha tirato fuori il talento appena è arrivato un ruolo, diciamo così, più sensato (chiediamo scusa a Nick Hornby che ha scritto il racconto, molto più divertente, da cui il film è tratto). Da adolescente pornostar, catalizzava le isterie della coppia Littizzetto & Papaleo (buffamente ripulite da ogni risvolto sessuale, al confronto i numeri di Lucianina da Fabio Fazio sono da vietare ai minori). Notevole solo il titolo del filmetto scandaloso, “Dr. Trombhouse”, e Pietro Castellitto che con il camice bianco e lo stetoscopio al collo azzanna il copricapezzolo – quelli da burlesque, con il fiocchetto – della tettona arrapatissima.
Ebbe la prima vera parte da Zerocalcare in “La profezia dell’armadillo”. Da lui, non dal regista del film Emanuele Scaringi: Secco esce perfettamente caratterizzato dal fumetto, aspettava un attore all’altezza. Appunto Pietro Castellitto. Speriamo ci sia posto per lui – almeno come doppiatore – nella serie in preparazione per Netflix, “Strappare lungo i bordi”. Già vincitrice del nostro personale Oscar per il “best teaser” (il trailer sceglie il meglio del film finito, questa è una piccola scena autosufficiente: l’Armadillo c’è, speriamo nel resto della tribù).
Manca all’appello “Freaks Out” di Gabriele Mainetti, che avrebbe incoronato Pietro Castellitto eroe assoluto di questa (non) stagione cinematografica. Dobbiamo accontentarci del trailer: il nostro ha una zazzeretta biondo platino, sopracciglia adeguatamente schiarite, e attorno c’è il circo, pieno di promesse (nella fiction, perlomeno) finché arrivano i nazisti. E magari rivedere “I predatori”, opera prima più che sufficiente per collocarlo tra i pochi registi capaci di dare una mossa al cinema italiano (al netto del virus, che prima o poi mollerà). Premio per la sceneggiatura alla Mostra di Venezia, sezione Orizzonti, e nettamente superiore ai concorrenti, perlopiù titoli di zone cinematograficamente svantaggiate, “I predatori” ha un fantastico rap scandito al compleanno della nonna dalla nipote francese. Chiuso da gestacci – ma le unghie del dito medio sono smaltate di rosso. La famiglia resta di stucco, lo champagne si sgasa nel bicchiere. Fin qui, saremmo nel genere “nuova generazione che disprezza la vecchia, pur godendone i privilegi”.
Lo sceneggiatore-attore–regista Pietro Castelitto si inoltra invece nel territorio di “Favolacce”, premiata opera seconda dei fratelli Damiano e Fabio d’Innocenzo (la prima era “La terra dell’abbastanza”). Periferie, con meno neo-neorealismo e spiccato gusto per l’assurdo. Un compleanno festeggiato in campagna attorno a una pozza, sotto la scritta “Avamposto”, cantando canzoni fasciste (“a noi la morte non ci fa paura, ci si fidanza e ci si fa l’amore…”) e insegnando a sparare al figlio dodicenne: “Basta sparare alle gambe!”, si incazza il genitore. I truffatori di vecchiette con il sorriso stampato sulla faccia si dichiarano amici del figlio, estorcendo mille euro per un orologio di rara bruttezza. Sui borghesi & intellettuali, la precisione di tiro resta intatta. La crudeltà abbatte per prima la regista che ascolta in cuffia, con le spalle alla scena, e non capisce che i suoni gutturali emessi dall’attore impiccato alla corda sono troppo realistici (l’imbragatura ha ceduto, il poveretto sta crepando). Per secondo, il professore universitario fissato con Friedrich Nietzsche. Più che il filosofo, la salma che intende riesumare per scoprire le origini del pensiero e della follia che gli fece abbracciare i cavalli a Torino. Personaggi, finalmente. Tanti. Diversi tra loro e diversi dal regista. Dovrebbe essere normale, il grado zero della professione: nel cinema italiano è un miracolo.
Stupisce, ormai, che uno sappia scrivere di persone che non gli somigliano. E l’arte si va perdendo. Quindici anni fa Niccolò Ammaniti vinse il Premio Strega con “Come Dio comanda”, ambientato tra capannoni e baracche di periferia. Oggi sarebbe “appropriazione culturale”, secondo le più recenti direttive cancellettiste. Tra Ammaniti e Pietro Castellitto, classe 1991, c’è di mezzo una generazione. Con Francesco Totti gli anni di separazione sono una quindicina, Pietro Castellitto aveva la gigantografia del calciatore nella cameretta. “E’ strano far la parte di un poster”, scherza in uno spot. Sarà il ruolo che lo farà conoscere al pubblico degli stadi e delle serie tv. Quello del cinema è già conquistato, un successo così rapido che i nemici ancora non sono usciti allo scoperto. “I predatori” non ha un difetto, quindi è difficile dargli del raccomandato (se è vero che la sceneggiatura gli è stata rifiutata, con quel cognome, vuol dire che nessuno legge più neanche una pagina).
“Speravo de morì prima” – regista Luca Ribuoli, sceneggiatura Stefano Bises, Michele Astori, Maurizio Careddu – è tratta dall’autobiografia uscita nel 2018: “Un capitano”, raccontata da Francesco Totti a Paolo Condò. La serie ritaglia il fatidico anno e mezzo a cui il Capitano sperava di non arrivare mai. L’addio alla Roma, suggellato dal giro di campo con musica del film “Il Gladiatore”. Per questa scena non servono registi, né sceneggiatori aggiunti, è tutto già perfetto. Le facce degli spettatori affranti, le lacrime del Capitano, Ilary Blasi in Totti con i tre figli Cristian, Chanel e Isabel con le magliette giallorosse, la maglia con il numero 10 incorniciata. Da affidarsi, se e quando sarà, a un altro campionissimo. Pubblico e telecronsti ascoltano in piedi il discorso d’addio: “E’ facile per voi…”. Volendo fare un ritocco: meno lacrime, per gli spettatori che vedono la serie lontano da Roma e non credono al lutto cittadino. Toccare il meno possibile. Questa deve essere stata la parola d’ordine, in fase di sceneggiatura. La voce di Pietro Castellitto/Francesco Totti accompagna lo spettatore, meglio se già al corrente dei fatti. Fin dalla prima palla attaccata al piedino quando aveva a 11 mesi, in spiaggia (filmino di famiglia già visto nel documentario di Alex Infascelli, “Mi chiamo Francesco Totti”, assieme ad altre prodezze in età scolastica). I contrasti con gli allenatori che vanno e poi ritornano, le briscolette giocate fuori orario, i muscoli che ormai rendono certe acrobazie pericolose.
Chi è già informato sui fatti parte avvantaggiato, gode in ogni dettaglio delle ricostruzioni da spogliatoio e immediati dintorni. Gli interni casalinghi sono più fragili. Un conto è sentire Francesco Totti/Pietro Castellitto che li racconta, con l’ironia che anche i non devoti al calcio cominciano ad apprezzare, una battuta oggi e una battuta domani. Un conto è vedere le scenette ricostruite senza troppi sprazzi di fantasia. Sono lontane le maldicenze che ne accompagnarono il bestseller “Tutte le barzellette su Totti”. La classe intellettuale italica ha un debole per le battaglie perse, e il volumetto divenne la pietra miliare dell’incultura. “Sono il Re di Roma”, annuncia Totti (l’ottavo, per chi tiene il conto, ma gli altri dopo la maturità non li ricorda più nessuno). Da qui le accese discussioni con Luciano Spalletti, che non lo tratta da par suo. Nella serie, è l’attore Gian Marco Tognazzi: le appoggiature toscane caricano una recitazione di somma antipatia. Il Re di Roma, e anche il suo prigioniero. Dopo lo scudetto girare per la città è impossibile, mangiare al ristorante non se ne parla. Il nostro fugge nel campetto dietro alla chiesa, pure il prete che vuole l’autografo sul santino. Prima, aveva dovuto lasciare l’appartamento nel quartiere popolare dove viveva con i genitori (mamma Monica Guerritore e papà Giorgio Colangeli): troppe scritte inneggianti da pulire, troppe ragazze che lasciano mutandine con il numero di telefono scritto a pennarello). Impagabile il lupetto a mosaico, sul fondo della piscina blu, nella nuova casa da ricco.
“Speravo de morì prima” non è un documentario, né un film biografico, né promette scottanti rivelazioni (al massimo qualche curiosità sulla vita di famiglia con Ilary Blasi, qui l’attrice Greta Scarano). Gli spettatori interessati sanno già tutto, anche di più, e hanno i loro ricordi da rievocare. È una favola, da raccontare anche se già sappiamo come va a finire. Pietro Castellitto accresce la magia.
Politicamente corretto e panettone