Le serie tv non occupano soltanto il nostro tempo ma si occupano di noi
Anche i francesi finiscono sul lettino dello psicanalista televisivo: "En thérapie" restituisce una parvenza di normalità
Dopo gli Stati Uniti (nel 2008). Dopo la Romania, la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica ceca. Dopo l’Italia (nel 2013, regista Saverio Costanzo). Dopo la Serbia, il Canada, il Portogallo, la Croazia, la Russia, il Brasile, il Giappone e la Macedonia, anche i francesi hanno finalmente la loro serie da divano. Lo strizzacervelli ogni giorno riceve un paziente diverso, e alla fine della settimana fa una visitina al proprio supervisor (tutti hanno bisogno di un’aggiustatina). “BeTipul” era l’originale israeliano, firmato Hagai Levi e durato due stagioni.
Gli showrunner sono Éric Toledano e Olivier Nakache, già registi del successo internazionale “Quasi amici”. Gli attori sono ben scelti. “En thérapie” va in onda su Arte, piattaforma con risvolti culturali. L’azzeccato adattamento manda i pazienti in terapia il giorno dopo l’attentato al Bataclan. Rispetto alle serie prodotte dall’algoritmo, ha originalità e ottima scrittura, da riorganizzare a proprio gusto, seguendo l’uno o l’altro paziente. A tutti piace giocare alla finestra sul cortile, figuriamoci quando le persone raccontano i fatti loro allo strizzacervelli.
Siccome anche i francesi sono confinati in casa, e dunque di umore piuttosto depresso, guardando lo psicoanalista televisivo – alle prese con casi che non sono il loro ma le contrarietà e le tragedie della vita sempre si somigliano – si tirano un po’ su. Lo sostiene in un articolo Sandra Laugier, direttrice del centro di filosofia contemporanea alla Sorbona. Le serie non occupano soltanto il nostro tempo. Si occupano di noi, nel senso di “prendersi cura” – se non sapessimo già che è filosofa, e che è francese, basterebbe il ragionamento basato sul fraseggio per identificarla.
Viene in mente il protagonista di “Big Hero 6”, primo film nato dall’incrocio tra la Disney e la Marvel: il robot infermiere Baymax, gonfiabile come l’omino della Michelin curava ogni malanno, metteva cerotti e consolava le malinconie. “En thérapie” restituisce una parvenza di normalità, senza farci sobbalzare ogni volta. Sono due, massimo tre per la terapia di coppia: non viene l’ansia di urlare “distanziatevi”. Non hanno le mascherine perché stanno abbastanza lontani. Non proprio come voleva Sigmund Freud, che escludeva risolutamente il faccia a faccia: paziente sdraiato e psicoanalista dietro di lui.
Solo con il beneficio della terapia virtuale, attraverso lo schermo televisivo e per interposto paziente-personaggio, Sandra Laugier spiega il successo della serie. Che secondo la filosofa ha molti difetti, per esempio l’interventismo del terapeuta, considerato un’americanata: in Francia non spiegano continuamente ai pazienti come è fatta la vita. Non succede neanche che le pazienti facciano dichiarazioni d’amore, sostiene. Non abbiamo capito se direttamente consumano sul divanetto, senza dirsi una parola. O se la cosa è data per scontata, ogni femmina paziente si innamora del terapeuta. Trova nel copione “battute penose”, che francamente non ricordavamo.
La televisione – si dice così per comodità, intendiamo soprattutto le serie – ha sicuramente alleviato il confinamento, con benefici effetti. In cima alla lista possiamo mettere gli ebrei ortodossi di “Shtisel”: la terza stagione della serie sarà dopodomani su Netflix. Rivedere i tavolini in cucina con sopra la cerata, le redingote con cappello per le grandi occasioni, gli appuntamenti matrimoniali nelle hall degli alberghi, sarà di grande compagnia. Senza transfert e controtrasfert. Con lo spirito della simpatica signora che, avuta finalmente la tv per compagnia, nelle benedizioni oltre ai parenti ricorda i personaggi televisivi a lei più cari.
Politicamente corretto e panettone