Leonardo mania
Nei decenni ha ispirato mode letterarie, personaggi, sceneggiature, perfino complotti. E pure l’ultima serie tv della Rai è un successo (e un business)
"Ricordati che devi morire”, “Mo’ me lo segno”: è sicuramente la scena più famosa di “Non ci resta che piangere”. Ma dopo, nella memoria del pubblico, ci sono sicuramente quelle altre scene in cui Massimo Troisi e Roberto Benigni incontrano Leonardo Da Vinci, e provano suggerirgli qualche invenzione. “Noi da parte nostra mettiamo le idee, lavoriamo con l’intelligenza”, gli spiegano il maestro e il bidello catapultati loro malgrado nel 1492. “Tu costruisci”. “Quello che viene fuori”. In cambio gli propongono di spartire i guadagni: “33, 33 e 33”. Ma un conto è ovviamente aver visto una cosa che funziona, un conto saper spiegare come funziona. Benigni fa pure il disegno di un treno, ma poi quando dice che va col fuoco della legna e Leonardo chiede “e allora perché non cammina anche il caminetto” non sa che rispondere. La butta allora in politica: Marx, Freud. Ma al termometro getta la spugna. “Si va via, tanto non c’è verso!”. Troisi invece insiste: il semaforo, il gioco a carte della scopa. Ma quando Leonardo non riesce a capire che non può prendere il settebello con un otto, rinuncia anche lui. Leonardo è di coccio! Solo che poi risalta fuori a fine storia, a bordo di un treno scoppiettante che loro hanno scambiato per segno di ritorno alla loro epoca. Lo ha realizzato invece lui, proprio a partire dalle loro sgangherate indicazioni. Ma riconosce la fonte di ispirazione, e si sforza di rassicurarli, equivocando la loro disperazione. “Non vi preoccupate! 33 e 33 e 33!”.
Questo ovviamente non è il Leonardo che è andato in onda su Rai 1. Che però, a sua volta, è un po’ diverso da quell’altro Leonardo, quello che interpretato da Philippe Leroy andò in onda nel 1971, per la regia di Renato Castellani. C’erano state un bel po’ di polemiche su pressoché tutta la stampa italiana: basate in gran parte su “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori” di Giorgio Vasari, quelle cinque puntate del 1971 erano didascaliche, nello stile della televisione dell’epoca. Un po’ tipo il Roberto Rossellini didattico; un po’ alla maniera che sarebbe poi stata di Piero Angela, che infatti assieme al figlio ha spesso saccheggiato quello sceneggiato. Nella serie contemporanea invece, spiega la presentazione, si racconta “il mistero dell’uomo oltre il genio, attraverso una storia inedita e originale, fatta di intrigo e passione, che scava a fondo in una personalità complessa ed enigmatica rivelandone la straordinaria modernità e la profondissima umanità”. L’astro emergente Matilda De Angelis interpreta Caterina da Cremona, misteriosa musa e amica del genio. E c’è anche un “giovane investigatore del Podestà chiamato a indagare sul mistero al centro della storia”. All’ultima puntata c’è perfino un colpo di scena, forse ispirato alla “Giulietta e Romeo” di Shakespeare, e si arriva a ipotizzare che sia di Caterina da Cremona il misterioso sorriso della Gioconda. Sembra che il pubblico alla fine abbia gradito, e già si parla di un “Leonardo 2”.
Di sicuro non siamo al complottismo anticlericale del “Codice Da Vinci” di Dan Brown. Romanzo e film secondo cui Leonardo avrebbe lasciato ai posteri il messaggio del matrimonio tra Gesù e la Maddalena attraverso il disegno Cenacolo e un cryptex: contenitore cilindrico con cinque quadranti formati da lettere dell’alfabeto che devono essere ordinati per formare una particolare parola che lo aprirà, facendo in modo che si possa leggere il messaggio all’interno, o se no a tentar di forzarlo si romperà la fialetta di aceto che dissolverà il papiro. Però è un giallo, con la novità che Leonardo è l’indagato e non l’investigatore, secondo l’altro modello invalso almeno da “Leonardo Da Vinci: Detective”, un racconto del 1959 in cui l’americano Theodore Mathieson immaginava l’inventore, scienziato, filosofo e artista che proprio tre anni prima della morte mostrava anche talento da detective al servizio di Francesco I di Francia. Mathieson, va detto, si era in realtà divertito a immaginare anche altri personaggi storici a fare gli Sherlock Holmes: primo il capitano Cook, e poi anche Galileo Galilei, Alessandro Magno, Hernando Cortés, Alexandre Dumas, Florence Nightingale. Insomma, fu l’anticipatore di quella moda letteraria che ha avuto i suoi vertici nell’Aristotele detective di Margaret Doody e nel Dante detective di Giulio Leoni. Però, a detta di critici e pubblico, il più azzeccato dei suoi personaggi fu proprio Leonardo, proprio perché in una personalità così poliedrica l’essere capace anche di risolvere delitti sembrava meno incongruo.
L’idea di un Leonardo detective è tornata in almeno due romanzi usciti in occasione del quinto centenario dalla morte. Uno è “La misura dell’uomo” di Marco Malvaldi, che è ambientato nel 1493, e in cui l’indagine è svolta al servizio di Ludovico il Moro, nel cui castello è stato trovato un corpo senza vita. L’altro è “Leonardo e la morte della Gioconda”, di G.P. Ross. Come nel libro di Malvaldi inizia a Milano, dove qualcuno sta cercando di avvelenare la figlia di Ludovico, Bona Sforza. Però si conclude poi come in Mathieson alla corte di Francesco I di Francia, dove si stanno verificando altre morti sospette.
Il detective diventa poi addirittura un James Bond del Rinascimento in tre romanzi di Martin Woodhouse and Robert Ross: “The Medici Guns”, “The Medici Emerald” e “The Medici Hawks”. E forse è ispirato a questo spunto anche il Leonardo del videogame “Assassin’s Creed”, più precisamente, nel secondo e terzo episodio della saga, che sono ambientati in Italia. Solo che lì non è un James Bond in prima persona, ma l’assistente tecnico che aggiusta al protagonista i marchingegni con cui combatte, e che gli decifra gli enigmi. Insomma, un po’ come il Q di James Bond, un po’ come l’Archimede di Paperinik, salvo che quando a metà del terzo episodio è arruolato a forza da Cesare Borgia, è costretto anche a costruire qualche arma avveniristica, che poi il giocatore dovrà distruggere. Forse “Assassin’s Creed” ha un po’ ispirato quella parte dello sceneggiato in cui vediamo Leonardo alle prese con Cesare Borgia e Machiavelli.
“1494: Se Leonardo da Vinci non avesse fatto il pittore”, contributo di Francesco Grasso all’antologia di racconti ucronici del 2005 “Se l’Italia Manuale di storia alternativa da Romolo a Berlusconi”, inizia con questa notazione: “Pur avendo preso parte, come ingegnere, alle campagne militari di Ludovico il Moro e di Cesare Borgia, nel corso della sua vita Leonardo non costruì realmente quasi nessuna delle sue macchine belliche. Anche il rivoluzionario progetto di deviare il corso dell’Arno per allagare Pisa, allora in guerra con Firenze, non viene realizzato dai governanti della sua città d’adozione. Leonardo stesso, del resto, mostrò sempre di prediligere alla guerra l’arte, ed è per quest’ultima che oggi giustamente è ricordato (tra i suoi innumerevoli capolavori citiamo La Gioconda, L’ultima cena, La vergine delle rocce e l’Uomo Vitruviano, oggi raffigurato sulla moneta da un euro)”. Invece il Leonardo di questa storia alternativa con le sue macchine da guerra si mette alla testa della resistenza dei fiorentini contro gli invasori francesi e li sconfigge, facendo così partire il processo per unificare l’Italia con tre secoli e mezzo di anticipo.
Ma perché Leonardo disegnasse tante macchine per poi non realizzarle è cosa che anch’essa ha intrigato parecchio, perché più di uno scrittore non cercasse di ricamarci sopra. “La cattedrale della memoria. La storia segreta di Leonardo da Vinci”, romanzo di Jack Dann del 1995 tradotto in italiano nel 2009, immagina per esempio un “anno perduto” in cui il genio avrebbe fatto funzionare le sue macchine da guerra al servizio di un generale siriano. “Pasquale’s Angel”, romanzo del 1994 di Paul J. McAuley, è un’altra ucronia in cui Leonardo fa funzionare le sue macchine a Firenze, avviando la rivoluzione industriale con due secoli e mezzo di anticipo. In “La bicicletta di Leonardo”, romanzo del 1993 del messicano Paco Ignacio Taibo II, il disegno della stessa è ritrovato negli anni Venti nella Biblioteca di Madrid dal nonno del protagonista. Un pistolero anarchico che da quella invenzione con 400 anni di anticipo ne trae la certezza che tutto è possibile, anche l’anarchia: peccato che poi in realtà dal 1997 in poi tutti gli studiosi hanno concordemente ritenuto il disegno un fake, e pure grossolano.
“The Gioconda Caper”, racconto di Bob Shaw tradotto da Urania nel 1980 col titolo “Una vergogna per l’Italia”, immagina la scoperta di altre “Gioconde”, da cui si ricava però che il famoso quadro era una sorta di fotogramma. Elemento di una pellicola cinematografica ante-litteram, però di carattere pornografico. Un’allegra provocazione, in realtà come molte delle opere di questo scrittore di fantascienza nordirlandese. Che però insiste a sua volta sulla fatidica domanda: perché Leonardo disegnava e non realizzava? Un po’ di fantasia, e arriviamo al plot appunto suggerito da “Non ci resta che piangere”, del viaggio temporale. Fu Peter Kolosimo, in particolare, a buttare giù l’idea di un uomo del futuro che portato nel passato disegnava gli aggeggi della sua epoca, senza però essere in grado di realizzarli.
E qua, su un Leonardo Da Vinci a spasso per i secoli, veramente le fantasie hanno potuto sbizzarrirsi. In “Pilgrim”, romanzo del 1999 del canadese Timothy Findley tradotto in italiano nel 2010 come “L’uomo che non poteva morire”, il protagonista viene portato da Carl Jung, dopo aver tentato il suicidio. E al grande psicoanalista racconta di essere vissuto 4.000 anni e di aver conosciuto anche Leonardo Da Vinci. “La porta sull’estate”, romanzo del 1956 tradotto in italiano del 1959, è invece di Robert Anson Heinlein, il “John Wayne della fantascienza”. A un certo punto un “professore” che fa esperimenti per mandare esseri viventi nel tempo racconta di aver lavorato anche su un volontario: “Un collega, un giovanotto che insegnava disegno e altre materie alla scuola di architettura. In realtà, era più un tecnico che uno scienziato, ma mi andava a genio. Questo giovanotto, non c’è niente di male se ve ne dico il nome, Leonard Vincent, era ansioso di provare, e io ebbi la debolezza di accontentarlo. Ma volle sottoporsi a un esperimento in grande, con dislocamento di cinquecento anni.” “— E allora?” “— Che cosa ne posso sapere? Cinquecento anni, ragazzo mio! Non potrò vivere tanto da sapere cosa gli è successo”. “— Credete che sia finito cinquecento anni nel futuro? — O nel passato. Può essersi ritrovato tanto nel quindicesimo secolo quanto nel venticinquesimo, dato che le possibilità sono pari. Talvolta ho pensato che... No, si tratta solo d’una assonanza di nomi puramente casuale”.
Vive invece nel Ventunesimo secolo Leo, un elfo immortale protagonista di “Black Madonna”, romanzo del 1996 di i Carl Sargent e Marc Gascoigne. Ha inventato un virus capace di mandare in tilt qualunque sistema informatico, e ci ricatta multinazionali per farsi finanziare le sue invenzioni. Anche in “Saturn’s Apprentice”, romanzo del 2011 di M.A Lang, Leonardo si trova catapultato dalla Firenze del 1504 alla Londra dei nostro giorni, per un esperimento alchemico. Ma a questo punto il vertice del genere è “Requiem per Matusalemme”: episodio di Star Trek andando in onda la prima volta il 14 febbraio 1969, in cui con l’equipaggio affetto dalla letale febbre Rigeliana la Enterprise effettua uno sbarco di emergenza sul pianeta Holberg 917G. Lì però vive Flint, un anziano misantropo, con cui inizia una schermaglia complicata. Spoke scopre che Flint possiede quadri di Leonardo e spartiti di Brahms a un tempo autentici e impossibili, perché appena fatti. Possibile? “Io sono Brahms”, spiega Flint. E anche Leonardo. Nato in Mesopotamia nel 3834 a. C., era un guerriero di scarsa intelligenza che scoprì di essere immortale quando fu ferito in battaglia. In tanti millenni ha potuto imparare di tutto, ed essere appunto anche Brahms e Leonardo, oltre a Salomone, Alessandro, Lazzaro, Matusalemme, Merlino “e altre centinaia di nomi”.
Affascinante, e inquietante al tempo stesso. Ma forse ricordando la massima di Oscar Wilde secondo cui “il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile” proprio una storia a fumetti del “detective dell’impossibile” Martin Mystère aleggia su un appunto di Leonardo che sembra alludere a un’arma terribile. Comunque, a cose “molto pericolose”. “Il sorriso della Gioconda”, questo è il titolo, vedrà Martin risolvere il mistero di due omicidi, ma non quale fosse il “sinistro segreto” di Leonardo. Saranno le ultime vignette a spiegare al lettore che Leonardo aveva semplicemente dipinto un quadro impressionista. E’ lui stesso a raccontare, mentre dà gli ultimi tocchi a un quadro tradizionale. “Ho scoperto questo modo di dipingere mentre riproducevo dei fiori, e l’ho anche teorizzato. Ma se si diffondesse e cominciasse a piacere, troppa gente sarebbe in grado di dedicarsi alla pittura. Basterebbero il talento, l’intelligenza, la poesia e la sensibilità, senza lunghi anni d’accademia. E così i signori mecenati non avrebbero più bisogno di artisti di corte per i loro dipinti. Io e i miei colleghi perderemmo la loro protezione e finiremmo col fare la fame, i tempi non sono maturi. Forse tra qualche secolo qualcuno scoprirà questo modo di dipingere che rende l’impressione delle cose. Ma per ora conviene tenerlo ben nascosto. Io, Leonardo da Vinci, sono un grande pittore, poeta, scultore, architetto, chimico, fisico, anatomista, ingegnere e naturalista. Perché non dovrei cavarmela discretamente anche negli affari?”.
Politicamente corretto e panettone