Barbara D'Urso, Cristiano Malgioglio, Iva Zanicchi, Giancarlo Scheri, Leonardo Pasquinelli (Foto LaPresse) 

La tv dei format

Andrea Minuz

Da “Lol - Chi ride è fuori” a “Masterchef” passando per il “GF”, l’arte di fare programmi. Parla Leonardo Pasquinelli, ad di Endemol

Leonardo Pasquinelli ha alle spalle una lunga carriera nella televisione. Una scorreria formidabile che dalle prime emittenti private, dove inizia come operatore a metà anni Settanta, lo catapulta nello staff che provvede alla nascita di Rete4, quindi a Reteitalia, Mediaset, Magnolia, fino a Endemol Shine Italy, la prima società di produzione televisiva in Italia (oggi parte del gruppo Banijay), di cui è amministratore delegato. È livornese, ma all’occorrenza sfodera un ottimo accento romanesco (che in genere ai toscani non riesce mai credibile), ed è convinto che la televisione, come tutte le industrie, si fondi sui brevetti. E i brevetti sono i format globali. Come “Lol, chi ride è fuori”. Una produzione Endemol Shine Italy per Amazon Prime Video, “il Masterchef della comicità”, come ama definirlo (“c’è la stessa cura per il dettaglio, la stessa attenzione alla fotografia, alla confezione impeccabile dello show”).

 

Ci sembra, insomma, naturale parlare un po’ con lui di questo anno davvero incredibile e rivoluzionario per l’intrattenimento. Nell’attesa di risolvere la querelle sul coprifuoco, la sera si sta ancora molto a casa a guardare la tv. Ma non è più la tv di un anno fa, delle dirette di Conte, della Protezione Civile, dell’edizione più surreale di sempre del “Grande Fratello”, altra produzione Endemol. Un’edizione che si ricorderà a lungo. “Sono state memorabili sia quest’ultima edizione che la precedente, con l’inizio della pandemia. Nei primi giorni del lockdown, dai balconi dei palazzi che si affacciano sopra gli studi di Cinecittà urlavano ai concorrenti della casa per dirgli che erano con loro, mentre fuori era scoppiato il finimondo, con la gente chiusa in casa, i morti che aumentavano. Ci sono stati momenti di grande commozione. Momenti che non ci si aspetta da un programma leggero. Man mano che i concorrenti eliminati uscivano, gli spiegavamo quello che stava succedendo. Arrivavano gli autisti, li portavano in albergo, attraversando in silenzio una Roma spettrale” (ecco come il “GF” si vendica di “Reality” di Garrone, e tira fuori scene di una potenza simbolica incredibile, col neorealismo dei balconi della Tuscolana e la città post-atomica, da disaster movie americano).

 

Nel frattempo, Amazon e Netflix fanno ormai parte del nostro zapping quotidiano. La serie A la vedremo su Dazn (o, in attesa del ricorso di Sky, su “Tar del Lazio Channel”). Cose impensabili prima del Covid. Lo streaming alla fine ce l’ha fatta anche nel paese dell’internet lentissimo. La vecchia tv non muore, si rinnova, si trasforma, come ha sempre fatto. Ciò che non cambia è il bisogno di intrattenimento. Se per Anna Wintour il segno del ritorno alla normalità sono le file davanti ai Gucci e Dior di Londra, il successo di “Una pezza di Lundini” o “Lol”, diversissimi e complementari, racconta il bisogno di una tv leggera, anzi “leggerissima”, dopo un anno di strazi, ospedali, virologi a reti unificate. Se lo aspettava il successo di “Lol”? “A questi livelli no, non me l’aspettavo, ma dietro c’è un enorme lavoro che alla fine ci ha ripagato”. I diritti del format giapponese, “Hitoschi Matsumoto presents documental” sono di Amazon, Endemol è entrato come produttore esecutivo per l’Italia. “Abbiamo cominciato a lavorarci oltre un anno fa. Per prima cosa abbiamo studiato le versioni locali, quella messicana e australiana. Dovevamo localizzare il format, individuare i tratti specifici dell’adattamento italiano, innescare su quell’idea semplice i nostri modelli culturali”. Far ridere il pubblico con la risata trattenuta, divertirsi proibendo la sghignazzata è sì un’idea semplice e molto forte, ma anche molto giapponese. C’è la cifra sadica, punitiva, vessatoria di tutti quegli show abbastanza folli, da noi diventati popolari ai tempi di “Mai dire Banzai” della Gialappa’s.

 

“Nel format giapponese”, dice Pasquinelli, “le gag erano tutte molto fisiche, estreme. Per esempio, un comico era vittima di un incontro ravvicinato tra un’aspirapolvere e le sue parti intime”. Cose che da noi non si possono fare. Adattare un format non vuol dire copiarlo, ma interpretarlo, riscriverlo, immaginarlo in un contesto anche assai diverso dall’originale. “Va detto che Prime Video ha fatto una scelta sana, ha preso al suo interno persone con lunga esperienza nella pay tv o nella generalista, che parlano il linguaggio della tv italiana. Quando parliamo con loro, parliamo la stessa lingua, ci si conosce. Abbiamo creato un cast capace di mettere in piedi una comicità immediata, poco strutturata, che dà l’idea di un gruppo di amici che cazzeggiano tra loro”. “Lol” diventa così una sintesi tra “Zelig” e il “GF Vip”, con Mara Maionchi e Fedez nella control room che fanno anche un po’ “X-Factor”. “Mi hanno raccontato di gente a casa che si è messa a gareggiare”, dice Pasquinelli, “guardavano ‘Lol’ sforzandosi di non ridere”. Un micidiale effetto-karaoke, in effetti molto giapponese. C’è già un’attesa frenetica per la seconda stagione, tutto un ipotizzare date, nomi, Christian De Sica, Enrico Lucci, forse la rentrée di Corrado Guzzanti, chissà. “Lol” è stato per Amazon come “SanPa” per Netflix: un traino incredibile di nuovo pubblico, pubblicità, abbonati. Un comedy-show popolare come solo certi programmi della vecchia generalista potevano essere.

 

 

Ma coi meme, i video, i re-cut e i tormentoni che rimbalzano sui social e nelle chat. Uno di quei programmi che andavano visti perché ne parlavano tutti. Perché? “Forse perché quel tipo di comicità così immediata è perfetta per i social, è già costruita per essere rilanciata in pillole. Conta molto anche la creatività del singolo. Ora stiamo mettendo insieme i meme più belli, un materiale pazzesco, un repertorio parallelo a quello di ‘Lol’. Ci sono alcuni ‘Io so’ Lillo’ che a volte superano in creatività quello che abbiamo fatto noi. Altro elemento innovativo per un format ‘unscripted’ è la logica distributiva: uscire con le prime quattro puntate tutte insieme, e dopo una settimana con le ultime due, ha creato da subito massa critica, trascinando altri spettatori”. Certo, anche il fattore Covid ha aiutato. “Le famiglie sono di nuovo, per forza di cose, riunite davanti la tv. Proporre un prodotto così leggero, che può far ridere chiunque, senza distinzioni di età o istruzione, si è rivelato decisivo”. Ma non c’è anche un effetto-brand o, come diceva Aldo Grasso, un “effetto streaming” che pare ormai sufficiente a decretare la bontà di un programma, a metterlo subito tra le “cose che vanno viste”? Insomma, “Lol” su Italia1 o Rete4 avrebbe avuto lo stesso successo? “Non c’è solo un effetto-brand, c’è anche un effetto-concreto del contenuto. L’effetto-brand ti si può ritorcere anche contro. Perché dalle piattaforme il pubblico si aspetta ormai un livello qualitativo molto alto e se non glielo dai se ne accorge. L’unscripted in questo senso è molto rischioso, perché la qualità può essere meno evidente. Le piattaforme hanno alzato l’asticella e, ovviamente hanno alzato anche i budget. ‘Celebrity Hunted’, la nostra precedente collaborazione con Prime Video, di cui è in arrivo la seconda stagione, in termini di scrittura, produzione, sopralluoghi, cast era praticamente un film di medio-alto budget. Cose che si possono fare solo con Amazon o Netflix, con cui ci auguriamo di lavorare presto”.

 

Ma sono state anche edizioni memorabili di “Masterchef Italia” su Sky e di “GF Vip” su Canale5, format che quest’anno “hanno ritrovato la freschezza delle prime edizioni”. “‘Masterchef’ ha trovato l’equilibrio perfetto per la giuria. Siamo tornati alle origini. Abbiamo snellito alcuni processi interni. I casting erano iniziati in modo tradizionale, ma sono stati ripensati da remoto. Nei live cooking, i concorrenti non potevano portare nulla da casa, per questioni di protocollo, e così gli abbiamo concesso qualche minuto in più per fare la spesa direttamente in dispensa, una specie di prova aggiuntiva che ha funzionato”. L’edizione del “GF Vip” è stata quella col più alto numero di concorrenti, la prima coi vip chiusi in casa anche a Natale e Capodanno, proprio come noi. “Aumentare le puntate è stata un’idea di Mediaset, e ha reso ancora più evidente il gioco di specchi con la realtà, più veri i fatti, le discussioni, i litigi. Tutti gli avvenimenti nella casa sono diventati ancora più reali, tant’è che abbiamo ingaggiato nuovo pubblico”. Come fa il “GF” a essere ancora un racconto così popolare dopo oltre vent’anni? “Perché racconta la vita e perché in fondo è il format dei format, tutto parte da lì. Parlando di meccanismi semplici, se a ‘Lol’ non devi ridere, qui devi semplicemente vivere. Ma se quest’anno il ‘GF’ si è rafforzato, se il pubblico è tornato a parlarne come nelle prime edizioni è anche merito di Alfonso Signorini. È diventato parte integrante del programma in un modo assoluto. Alfonso è instancabile e nel ‘GF’ si trova nel suo habitat naturale. Il pubblico capisce che il primo a divertirsi è proprio lui. Il ‘GF’ ha sempre avuto grandi conduttrici, tutte bravissime, ma quest’anno lui è stato l’elemento in più del programma”.

 

E poi c’è la Rai. Programmi, fiction, game-show che Endemol produce con la tv di stato. “Stasera tutto è possibile” su Rai2, con Stefano De Martino e i ruzzoloni sul piano-inclinato, “un’idea semplice, forte, non così distante da ‘Lol’, così come l’idea del ‘cast-compagnia’”. Un programma che si gira a Napoli, dove più che in altri studi televisivi, dice Pasquinelli, pesa l’assenza del pubblico, “perché quando c’è il pubblico in studio a Napoli, i programmi funzionano meglio. Visto il successo che ha avuto speriamo di rifarlo, anche se le decisioni di Rai 2 a volte sono misteriose”. Poi c’è “Affari tuoi”, “altro meccanismo perfetto” e “I Soliti Ignoti”. Siamo lì, incollati tutte le sere davanti al “parente misterioso”, a quella variopinta parata di nasi, occhiaie, zigomi, sguardi nel vuoto. Tutto nasce da un software. “Era una cosa molto elementare, un gioco in cui dovevi identificare i mestieri delle persone che vedevi. Intorno a questa cosa è stato fatto un grande lavoro di scrittura e adattamento che ha portato il programma a diventare una vera e propria liturgia serale”. C’è in effetti qualcosa di ipnotico, la musica, il dubbio, l’incertezza, questi primi piani che scavano nell’identità. Però vorremmo si tornasse alle origini, coi concorrenti pescati tra la gente normale.

 

Ci fa piacere sapere che Pasquinelli la pensa come noi. I format che funzionano si reggono su regole semplici, elementari, meglio ancora se esportabili in tutto il mondo. In Italia siamo un po’ indietro. Si insiste parecchio sul tema della formazione, su come si scrive la tv. “Un mio pallino”, dice Pasquinelli. “A Mediaset, quando ero capo dell’intrattenimento, avevamo messo su una scuola autori dalla quale sono usciti in parecchi. Pif ancora oggi mi saluta dicendomi ‘Ciao Preside’. Grandi gruppi come il nostro sono aperti a collaborare con la Rai o con l’università per creare cultura, solo che spesso veniamo visti come i barbari che arrivano coi format turchi e ci colonizzano. Mentre è grazie ai format che esiste l’industria dell’audiovisivo”. Siamo fermi alle polemiche di “Dallas”, portato in Italia da Berlusconi perché qui non c’erano ancora soap scritte in funzione degli spot. “Abbiamo ottimi autori in circolazione, sappiamo adattare i format internazionali per il gusto italiano. Però manca un po’ la mentalità per inventare format originali. Semplicità, razionalità, ripetitività sono i tre ingredienti decisivi di un format globale. Si dovrebbe ragionare un po’ più da ingegneri e magari cazzeggiare meno. Ma noi, si sa, amiamo l’improvvisazione, il pezzo unico, che ci sta, ma la tv non può funzionare solo così”.

 

Anche se assai meno che nel cinema, anche in tv ci trasciniamo l’atavica diffidenza per la pianificazione industriale dei prodotti. “Fino a pochi anni fa quando dicevi ‘format’ ti guardavano ancora un po’ storto. Eppure anche Antinori non è che produca vino improvvisando, o facendo poche bottiglie per i suoi amici. Antinori è un format che si vende in tutto il mondo. Il nostro lavoro è sempre stato quello di avere una capacità artigianale molto profonda nel fare programmi, ci aggiorniamo mantenendo semplicità, pulizia, attenzione ai cambiamenti. Siamo uno dei maggiori produttori, non perché siamo grandi, ma perché teniamo al nostro know-how”. E i talk-show invece? C’è una “via Endemol” al talk-show? “Il talk-show passa dal conduttore. Se hai un personaggio forte funziona, se hai Costanzo, Fazio, Giletti, persone che impongono uno stile, uno sguardo, un punto di vista, funziona. Altrimenti no. I nostri talk, ‘Le invasioni barbariche’ o ‘Che tempo che fa’ erano costruiti intorno ai conduttori. Ma si fondano sull’intrattenimento, l’approfondimento culturale, non sulla rissa”. Lo produrrebbe dunque un talk-politico puro? “No, per carità, non mi interessa. Li guardo, ma non li faccio”. Non guardarli peraltro è impossibile col palinsesto italiano. Ma evitare di farne altri è già qualcosa.

 

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