Le quattro signore del talk
Addio maschi. Ormai la politica televisiva è nelle loro mani. Bianca Berlinguer, Lucia Annunziata, Lilli Gruber e Barbara Palombelli: sono tutte di sinistra, ma ciascuna interpreta uno stile e una missione
Prima dell’approdo a “Cartabianca”, col nome che entrava nel titolo della trasmissione, come con “Lubrano” o “Non è la D’Urso” o “Una pezza di Lundini”, di Bianca Berlinguer (d’ora in poi BB) si ricordava soprattutto un addio struggente al Tg3. Un ultimo editoriale accorato, quasi un remake della “Bolognina”, coi suoi occhioni lucidi al posto delle lacrime di Occhetto e passaggi lancinanti à la Jacques Brel: “Me ne vado con la malinconia delle separazioni dolorose”. Salutava così venticinque anni di carriera nel fortilizio del Pci, tra gavetta, redazione e direzione della testata. Stagista a “Mixer” di Minoli, poi grintosa inviata di Santoro per “Il Rosso e il Nero”, quindi fulgido e austero esempio di conduzione del Tg3, sempre perfetta, sempre impeccabile, nome di battaglia: la Zarina. Benché ostile al renzismo, fiutava a suo modo il clima nuovo della Leopolda immortalato dalle scarpe leopardate di Maria Elena Boschi. Uscì anche lei allo scoperto. Fece assai scalpore, nel 2015, un’edizione delle 19 con camicetta bianca velata e trasparenze pruriginose, tutto un vedo non vedo, quasi un “nude look” per gli standard di RaiTre, come scrissero “Libero” e “Il Giornale” (raccontava anni fa una veterana del reparto trucco Rai che Bianca era sempre la più esigente, voleva una bocca disegnata alla perfezione: “Con lei il primo approccio fu drammatico. Piansi, perché non era soddisfatta e mi fece una scenata”. E’ la triste, amara vicenda de “La truccatrice della Berlinguer”, sequel già scritto della formidabile fiction, “La truccatrice della Magnani”, ammirata in questa seconda stagione di “Lundini”). Fu comunque una provocazione. Un segnale di rottura. L’anno dopo ecco l’ultimo tg. Era l’agosto del 2016. “Attacchi sguaiati al mio telegiornale”, disse lei. Di fatto, si chiudeva una lunga avventura e si aprivano le porte scintillanti del favoloso mondo dei talk show. BB scopriva la vocazione all’infotainment, trovando finalmente nel montanaro Mauro Corona il suo Gainsbourg. Fu, per restare in tema di Pci, una “rinascita”, una liberazione (“i dialoghi tra me e Corona hanno avuto l’effetto di tirare fuori un mio lato che il pubblico non conosceva: più spontaneo, improvvisato, meno costruito”).
Oggi, insieme a Barbara Palombelli e le decane, Lilli Gruber e Lucia Annunziata, Bianca Berlinguer è una delle quattro Nostre Signore dei talk (s’intende il talk politico puro, collocato in posizioni strategiche del palinsesto, in preserale, in prime-time o nella domenica pomeriggio dell’Annunziata). Se anziché sui sentimenti, il mondo di “Sex and the City” ruotasse intorno alla telepolitica, Lilli, Lucia, Bianca e Barbara sarebbero le nostre Carrie-Samantha-Miranda-Charlotte. Quattro modi di essere donna, giornalista, conduttrice. Quattro modi di intendere la televisione, quattro variazioni sull’essere o l’essere state di sinistra. Bianca è il fantasma del partito di massa, le tessere, i funzionari, la nomenklatura, Sandro Curzi, le piazze in bianco e nero con gli operai in canotta, la sinistra nostalgica e tradizionalista ma che oggi guarda a Instagram e Tik-Tok, come Nanni Moretti. Forse bersaniana, dalemiana o qualsiasi altra cosa purché antirenziana. In “total black” dal 1989, Lucia è invece le magnifiche sorti e progressive dell’avanguardia operaia, l’intellighenzia severa e irraggiungibile, l’egemonia culturale, lo studio matto e disperatissimo, la scalata dirigenziale della sinistra extraparlamentare, con la grafica costruttivista nei titoli di testa e un tavolone gigantesco in studio, simbolo delle grandi concertazioni sindacali. Memorabile una puntata di “Mezz’ora in più” con Landini e una parata di operai, bandiere, sigle dei sindacati in studio e nel videowall. Quasi una rievocazione storica delle fabbriche occupate, un film in costume, la versione “Fiom” della celeberrima scena con le bandiere rosse di “Novecento” di Bertolucci. Lilli è invece la terza ondata del femminismo (quella per l’appunto di “Sex and the City”), ma anche l’eurocomunismo, Berlino, i diritti civili, una sinistra mitteleuropea, elegante, aggressiva, spregiudicata, aristocratica.
E poi c’è Barbara. La nostra Carrie. Una che ringrazia in trasmissione le luci di “Stasera Italia” perché “ogni sera mi tolgono almeno quindici anni”. Icona carismatica del compromesso storico tra Repubblica e Il Giornale, “Forum” e La Festa dell’Unità, élite intellettuali e parrucchiere. Una post-sinistra con le scarpe che fanno tendenza, fuori dal giro dell’Anpi, più rassicurante, rilassata, anticonformista delle altre, soprattutto molto pop. Una sinistra liberale che non c’è, con un suo manifesto teorico racchiuso nel discorso di inaugurazione per celebrare il nuovo corso e il nuovo logo di “Rete 4”: “E’ stata una grande avventura di libertà, si è battuta sempre per la libertà di tutti. E quindi è con grandissima emozione e grande onore per me, che lavoro qui, dare il via al cambio del logo”. Con “Stasera Italia” ha dato spazio a tutti. Incluso Antonio Maria Rinaldi a braccio su spread, manovra e crisi, che all’improvviso indossa il “gilet giallo” in studio per “solidarietà col popolo francese” (lei non si scompose: “Rinaldi, torniamo in Italia, mi scusi. Abbiamo scherzato troppo, domattina ci sveglieremo e avremo qualche problema di finanza”).
Le conduzioni e i programmi vanno e vengono, ma Berlinguer, Gruber, Palombelli, Annunziata, tutte laureate benissimo in Lettere o Lingue e Filosofia, tutte con una spiccata propensione al comando, hanno cambiato il sistema dei talk e dei rapporti tra maschi e femmine nella tv italiana. Nei beati anni del berlusconismo e dell’antiberlusconismo il talk politico era una cosa soprattutto da maschi. Maschi i conduttori, maschi in gran parte gli ospiti, gli opinionisti, gli spettatori di riferimento. Cominciarono prima Annunziata e Lilli Gruber. Poi ci fu l’esperimento di “Announo”, condotto da Giulia Innocenzi, metà giornalista, metà spin-off di Michele Santoro (con lui che le incorniciava ogni puntata dentro un suo monologo per illustrare meglio il tema e sorreggere la giovane presentatrice). Oggi, se non apertamente ribaltato, lo scenario appare assai riequilibrato.
Nonostante il patriarcato, il gender gap, la mascolinità tossica, il testosterone, il “mansplaining” e il “catcalling”, Gruber, Berlinguer, Palombelli e Annunziata dettano l’agenda della telepolitica italiana non meno dei loro colleghi. Bianca Berlinguer, per esempio, se la deve vedere ogni settimana con Floris, Giordano o la Champions League (un bel triplete “al maschile”), ma non si spaventa neanche un po’. Anzi. Nell’ultima puntata di “Cartabianca” sfodera una carovana di ospiti che neanche Fazio: Virginia Raggi, Roberto Saviano, Andrea Scanzi, Federico Rampini, Al Bano, Stefano Bonaccini, Massimo Galli, Andrea Crisanti, Mario Tozzi. C’è tutto: virus, grandi melodie italiane, infiltrazioni mafiose, razzismo, immigrazione. Presentandola come ospite a “Io e Te”, Pierluigi Diaco l’accolse con una gaffe: “Amo la noia in Tv”. Toccò un nervo scoperto che nella famiglia Berlinguer si porta dai tempi della “Tribuna politica”. Va detto che senza i siparietti con Corona, “Cartabianca” riesca a essere d’una noia ferale. Un glorioso inno ai tempi morti. Quando per precauzioni di contagio, lei condusse la puntata da casa nessuno notò granché la differenza. Però si dà una gran da fare. Si apre al pop, invita Simona Ventura, sogna un giorno di intervistare Barbara D’Urso, caccia via Scanzi poi lo riprende, riesce persino a far piangere Massimo Cacciari in diretta, parlando della crisi economica e del dramma della disoccupazione. Lei invece si commuove soltanto al ricordo del padre. Mauro Corona evoca Enrico Berlinguer in occasione dei trentacinque anni dalla scomparsa, con garbo, ossequio, sincera passione. Parte l’applauso dello studio. Poi lui si apre una birra in trasmissione, davanti a tutti, prende a sbraitare, viene allontanato nell’imbarazzo generale.
Ora che è più libero, Corona starebbe bene però dentro la “Mezz’ora” di Lucia Annunziata, alternativa riflessiva a “Domenica In” e “Domenica Live”, trasmissione fatta apposta per chi odia la televisione, tipo il pubblico di Radio3, che magari la domenica, subito dopo pranzo, si concede giusto un filo di zapping sul divano. Ce lo vediamo bene Corona, ubriaco di limoncello a fine pasto, potrebbe se non altro a movimentare i monologhi incontenibili dell’Annunziata spacciati per domande rivolte all’ospite di turno (retaggio della cultura assembleare della sinistra extraparlamentare), sempre infarciti di “lei non crede che…” e col sopracciglio alzato. Ogni tanto si torna con grande nostalgia a rivedere la puntata del 2006 col Cav. che si alza e abbandona lo studio: “Lei è di sinistra e dunque pensa di decidere anche per gli altri, mentre io sono liberale e decido solo per me”. Altri tempi. Oggi finirebbe tutto nel mare magnum del “mansplaining”. Si dovrà però riflettere anche su questo doppio regime in cui andranno un giorno ordinate tutte le grandi litigate di Berlusconi col sistema dei nostri talk-show: agli uomini per lo più telefonava in studio (Santoro, Floris, Fazio). Con le donne era più incline ad andarsene o a minacciare di andarsene. Fu così anche con Bianca Berlinguer, in una puntata sul referendum del 2016 (“se lei non mi lascia finire il ragionamento, è inutile fare quest’intervista”) ma alla fine restò. Con Lilli Gruber resistette fino alla fine, ma dopo gli affondi sull’assegno di mantenimento per Veronica Lario se la prese anche con lei e non se andò solo perché la puntata era finita: “Il suo modo di fare televisione non è obiettivo, le sue non sono domande ma attacchi, sa dove vado giovedì? Vado da Santoro, c’è anche Travaglio” (annunciando così, con un promo formidabile, una puntata di “Servizio pubblico” che sarebbe passata alla storia).
Unica a condurre lo stesso format da quindici anni, dunque dalle parti dei record concessi solo a Bruno Vespa, Lilli Gruber ha traghettato “Otto e mezzo” dalla Seconda alla Terza Repubblica, quando i talk-show divennero il grande nutrimento della narrazione populista, trasformandola in una trasmissione a sua immagine e somiglianza. Ai punti di vista contrapposti del bipolarismo all’italiana (su cui era stata edificata la trasmissione delle origini) subentrava una fase più “liquida”. Berlusconismo e antiberlusconismo si disperdevano nella galassia della nuova contrapposizione, “popolo” vs. “élite” e nei talk-show sfilava un po’ di tutto. Si intensificava così la presenza di scrittori, attori, personaggi del costume (grazie a “Otto e mezzo”, Gianfranco Carofiglio diventa un ospite fisso in quota “magistrati-scrittori”, al di fuori della promozione del libro in uscita). Ecco che Lilli Gruber chiedeva il parere di Riccardo Scamarcio sull’euro, di Alessandro Gassman sulla crisi della sinistra, di Anna Foglietta su Mafia Capitale. E se Alessandro Di Battista diceva che “il fascismo oggi è il primato della finanza e del capitalismo”, Scamarcio non gli lasciava neanche finire la frase che subito chiosava: “Esatto”.
Come suprema incarnazione del terzo femminismo, Gruber si è molto scagliata contro Matteo Salvini, rimproverandogli anche la panza sfoggiata al “Papeete Beach”. Con Salvini, Lilli Gruber si scatena sempre e diventa la versione austroungarica di Franca Leosini che affonda i denti nella sua vittima. Salvini ritorna, d’altro canto, anche nell’incipit del suo ultimo libro, quello contro “la politica del testosterone”. E forse i vari siparietti con il leader della Lega (sfociati in una contesa per “un mazzo di rose” di scuse mai recapitato) erano anzitutto dei “book trailer”. Salvini è l’alter-ego ideale per una conduttrice che in questi ultimi anni ha cavalcato temi, battaglie, campagne di rivendicazione femminista. Però il suo pantheon di ospiti fissi (soprattutto, Travaglio, Scanzi, Severgnini, Mieli, Cacciari, Padellaro, e prima ancora Massimo Franco e Marco Damilano) è composto per lo più da autorevoli maschi di potere. Ora basta. Vogliamo anche una donna a capo di un talk di destra, conservatore, scettico verso il “gender fluid”, terrorizzato dal politicamente corretto. La rosa tra cui scegliere è ormai ampia: Nunzia De Girolamo, Manuela Moreno del Tg2, magari Lorella Cuccarini. Ma sarebbe davvero perfetta, Elisabetta Canalis, nella sua nuova veste impegnata, arrabbiata, riflessiva. Una scintillante rilettura “da destra” della fenomenologia di Alba Parietti. E parla assai meglio l’inglese.
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