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Come scongelare la tv generalista. Parla Aldo Grasso

Stefano Cingolani

Netflix, Google, Apple, Amazon, Discovery, la tv generalista e la sfida per intercettare le trasformazioni generate dalla pandemia (compresa l’èra del frammento). Guida alla  “tv oltre il televisore”. Chiacchiere con il critico televisivo del Corriere

La Rai ha un vertice nuovo di zecca, Mediaset si sta liberando della morsa di Vivendi e Fininvest è ormai sopra il 50 per cento, i due grandi broadcaster italiani sono pronti per una ripartenza, dopo la fase più drammatica della pandemia? Aldo Grasso con il quale vogliamo ragionare sul futuro della televisione è sorpreso dalla domanda. Non perché non apprezzi le nomine Rai, al contrario: “Ora ci sono due persone competenti e di grande serietà non legate a partiti politici, come Carlo Fuortes (amministratore delegato) e Marinella Soldi (presidente) che porta non solo la sua esperienza, ma anche un approccio anglosassone. E’ senza dubbio la novità più grande. Rimette al centro le competenze che si sono smarrite negli anni; un problema cruciale anche nella Tv commerciale. Per la Rai si tratta davvero dell’ultima chance, possiamo dire infatti che è in gioco la sua stessa sopravvivenza”.

 

L’impressione che la pandemia abbia congelato la televisione, i suoi assetti, gli equilibri proprietari, le tecnologie e i contenuti, è però del tutto sbagliata, ancor più se si alza lo sguardo al mercato mondiale che ormai è l’unico vero punto di riferimento. Di qui la reazione all’inizio parrocchiale della nostra conversazione. Rai e Mediaset sono cruciali a casa nostra, ma sono solo due varianti locali di una trasformazione globale. “Da 40 anni almeno viviamo dentro la più grande rivoluzione nel sistema della comunicazione, e ancora continua, sembra non fermarsi mai; altre rivoluzioni, sia politiche sia economiche, hanno avuto un inizio e una fine, questa no”. 

 

Aldo Grasso: "Lo smartphone è la nuova tv"

 

Grasso è un analista di primo piano e un testimone delle trasformazioni avvenute negli ultimi trent’anni: critico televisivo per il Corriere della Sera dal 1990, ha diretto la produzione radiofonica della Rai nella breve stagione detta dei professori, dal 2008 guida il Centro di ricerca sulla Tv e gli audiovisivi all’Università cattolica di Milano. Il cambiamento radicale riguarda sia il contenitore sia il contenuto ed è opera della digitalizzazione. Prima ciascun mezzo aveva il proprio supporto, oggi invece tutto si intreccia e si connette. Lo smartphone è l’esempio più evidente: ha riunito tutto dentro di sé, è diventato persino un veicolo per i pagamenti, la banca in tasca. 

      

La “tv oltre il televisore” è ormai il nuovo paradigma. In Italia ci sono 112 milioni di schermi il che vuol dire sia i tradizionali apparecchi televisivi sia i computer o, appunto, i telefonini, sui quali si può ricevere tutto. La visione su tablet è aumentata del 136% lo scorso anno. Ha contribuito la pandemia, ma non solo:  “E’ un preciso segnale di dove stiamo andando”, spiega Aldo Grasso. Ciò ha provocato una dissoluzione totale del modo di vedere. “La tv non è più un rito collettivo, il totem domestico è riservato a un pubblico residuale”. E’ cambiato anche lo spettatore soprattutto tra le nuove generazioni. Questa prima rivoluzione ha innescato la seconda che Grasso chiama “lo scontro internazionale tra globale e locale”. I suoi protagonisti sono noti, Netflix, Google, Apple, Amazon che ha stretto l’accordo con Mgm, per non dimenticare Discovery con Warner e la portaerei Disney che ha lanciato i suoi cacciabombardieri anche via streaming con Disney+. Di fronte a loro ci sono le televisioni nazionali come la Rai, Mediaset, le consorelle francesi, tedesche, spagnole. La Bbc anche se parte da una base più ampia non fa eccezione, tuttavia si adatta e si trasforma con grande rapidità. E’ un processo che travolge sia la tv pubblica sia quella commerciale, il cui esito non è prevedibile. Una cosa tuttavia è già chiara dice Grasso: “La Rai che abbiamo conosciuto non basta più, ci vuole una Rai agguerrita che rimetta in discussione il concetto stesso di servizio pubblico”. 

     

Nella sua relazione annuale presentata al Senato, l’Auditel non ha lesinato superlativi. La tv con la pandemia è diventata il nuovo oro, Internet e la crescita esponenziale degli schermi hanno accelerato un grande cambiamento sul fronte dei consumi tv: nuovi fruitori, nuovi comportamenti, nuove abitudini. Non solo in Italia, dove nel 2020 la popolazione ha compiuto un balzo inaspettato sul fronte della digitalizzazione, ma anche a livello del mercato audiovisivo globale: con l’irrompere dei giganti del web si è registrato un processo senza precedenti. “Si sta delineando sul fronte dell’offerta una concentrazione di soggetti di dimensioni di scala impressionanti che possono produrre e acquisire i contenuti come neanche la somma degli operatori europei potrebbe fare in un anno e quindi vanno un po’ riviste le regole di competizione perché questi soggetti godono ancora oggi di vantaggi competitivi”, ha avvertito il presidente di Auditel, Andrea Imperiali. Le norme, come sempre avviene, seguono le trasformazioni, ancora una volta il mondo legale rincorre il mondo reale, ma attenzione a non cadere nella ossessione regolatoria che ingessa i processi e si trasforma in boomerang: l’eterogenesi dei fini è quasi sempre l’esito di chi vuol mettere le braghe allo sviluppo. 

     

In questo anno e mezzo di pandemia sono successe molte cose nel campo dei contenuti, aggiunge Aldo Grasso, per esempio “ha fatto irruzione il frammento, cioè sono emersi con sempre maggio successo i frammenti di programma che consentono di essere consumati con ogni mezzo e in ogni luogo”. Tuttavia, se si guarda al dibattito pubblico in Italia attorno alla tv, che cosa emerge? Si discute di e su Mara Venier la domenica pomeriggio; si celebra come icona nazionale, spirito del popolo, Raffaella Carrà che chi ha meno di trent’anni non ha mai visto; si sospira di nostalgia sul ’68 che ormai non coinvolge più nemmeno i pensionati. Tutto sembra parametrato sul pubblico anziano, tradizionale, iper-locale. “La tv è ancora il tessuto della nazione, rispecchia l’immaginario del paese - spiega Grasso - Ma le cose cambiano rapidamente. Fino a ieri si diceva che la televisione generalista è quella dei grandi eventi, anche creati ad hoc (si pensi a Sanremo) quella della diretta, dell’informazione, dello sport. Oggi invece la tv è questo e tutto il resto, dove il resto non è affatto un residuo, anzi. La televisione diventa una piattaforma nella quale lo spettatore si muove a fronte di una offerta sempre più ampia e varia”. 

   

Per spiegare meglio, Grasso ricorre a due metafore. La tv tradizionale è basata sul palinsesto che è come l’orario dei treni, la tv piattaforma invece è il catalogo della casa editrice, non solo per la quantità e qualità dell’offerta, ma perché conserva il passato e lo ripropone, proprio come si fa con i libri, così accanto al bestseller c’è il classico, insieme al tascabile c’è l’edizione di lusso. “L’invenzione più importante degli ultimi tempi si deve ad Antonio Campo Dall’Orto ed è Raiplay. Non capisco perché la sua esperienza al vertice della Rai sia durata solo due anni dal 2015 al 2017. O forse lo capisco benissimo. Comunque, ha lasciato un vero fiore all’occhiello del colosso radiotelevisivo pubblico, Raiplay consente di rivedere il programmi, ha un catalogo che è uno dei più importanti d’Europa. Le teche della Rai sono davvero una miniera anche di cultura collettiva. Mediaset ha imboccato la stessa strada con Infinity, anche lei ormai ha una storia da mettere in gioco. Ebbene la sfida del futuro è qui, sulle piattaforme”. 

    

L’Italia lo ha capito tardi, anzi secondo alcuni ancora non lo ha capito fino in fondo, ma la logica delle cose mette tutti davanti a scelte drastiche. Tra i vari errori commessi per colpa di un approccio parziale e provinciale c’è il digitale terrestre. Il switch-off, il cambio di segnale per liberare spazio al 5G, impone a tutti di comprare nuovi apparecchi televisivi o nuovi decoder, ciò avviene perché è stata scelta una tecnologia obsoleta, spiega Grasso, mentre c’era il satellite, il cavo e irrompeva internet ad alta velocità. “Siamo sempre un passo indietro, sempre alla rincorsa”. Basti pensare alla banda larga: mentre lo streaming rimescola tutte le carte, in Italia ci sono quattro milioni di famiglie senza connessione. I no web sembrano una variante dei no vax, nel momento in cui l’arretratezza culturale prende il sopravvento rispetto alla ristrettezza economica. Per capire meglio la storia della tv, la sua evoluzione tecnologica e imprenditoriale bisogna guardare alla storia del calcio in tv, una simmetria perfetta, sottolinea Grasso: dal secondo tempo delle partite trasmesso in bianco e nero alle dirette dei campionati, poi sono arrivate Sky, le pay tv, Dazn che adesso si è presa tutto il mercato del football. E anche qui troviamo come filo conduttore il conflitto tra locale e globale. 

    

Si discute da anni attorno alla creazione di un polo televisivo europeo. Vivendi aveva lanciato l’idea di una Netflix europea insieme a Mediaset, Silvio Berlusconi ha pensato che fosse un cavallo di Troia per prendersi la sua tv. Ora che Vincent Bolloré non è più una minaccia, Mediaset potrebbe accelerare il progetto di un gruppo che metta insieme Italia, Spagna e Germania con ProSiebensat. E’ una buona idea, ma è realistica? Sarà possibile superare le barriere nazionali? E non è già troppo tardi, visto lo spazio che i colossi americani hanno conquistato? “L’Unione europea ha mancato un’occasione – sottolinea Grasso con amarezza – Poteva creare un consorzio tra le tv pubbliche per fornire informazione, intrattenimento, dallo sport alle fiction, utilizzando economie di scala e scambiando esperienze e professionalità. Invece l’unica cosa di una certa consistenza è l’Eurovision song contest, il festival della canzone”. Si sarebbero potuti realizzare anche documentari in concorrenza con la Bbc che resta la numero uno in questo campo, li vende in tutto il mondo ed è una fonte importante di introiti; sono prodotti che piacciono, ma costano, richiedono molto lavoro e grande professionalità. Anche la Rai ha perduto un’occasione. Grasso è d’accordo e aggiunge: “E’ colpa di Piero Angela. Lo dico con tutto il rispetto sia chiaro per la sua professionalità e il suo garbo, ma ha fatto sì che non nascessero nuovi conduttori, quanto alla Rai ha preso la scorciatoia più semplice: comprare prodotti altrui magari lasciando credere sotto sotto che fossero propri”. 

 

Aldo Grasso: "La lottizzazione è l'eutanasia della tv"

    

Un’altra chance mancata riguarda i talk show: potevano avvicinare la politica e i politici, ridurre la distanza tra eletti ed elettori, rendere chiare le scelte e anche sollevare il velo sulle personalità, sul carattere, sulle idee e i valori di ministri, capi partito, maitre à penser. Spettacolarizzare non è certo una colpa né tanto meno un vizio. E la stessa politica è spettacolo dall’antica Grecia in poi. Invece, si è lasciato che le ospitate degenerassero in risse permanenti se non in propaganda ammuffita. Grasso è ancora più tranchant: “I talk show stanno uccidendo la politica, hanno contribuito a demolire ogni principio di autorevolezza, hanno legittimato l’idea che uno vale uno, hanno creato delle compagnie di giro ossessive puntando su personaggi folkloristici che non hanno nulla da dire anche se lo dicono con prosopopea e arroganza. E hanno diffuso questo virus nell’intero sistema. I social media, ad esempio, hanno finito per prendere il peggio della televisione. Ci aspettavamo che l’alto valore delle nuove tecnologie si riflettesse anche sui contenuti, invece è avvenuto il contrario”. Il pastone politico, vizio della Rai per un mal inteso concetto di servizio pubblico, in realtà frutto marcito della lottizzazione, s’è rivelato altamente infettivo. 

    

“La lottizzazione provoca l’entropia delle competenze e l’eutanasia della tv”, commenta Grasso. Riflessioni realistiche quanto aspre, tuttavia il critico del Corsera non fa la cassandra di professione, al contrario, e resta convinto che nel mondo della comunicazione contano i contenuti, oggi più che mai. “Se dovessi dare un suggerimento ai nuovi vertici della Rai, direi loro di guardare attentamente Maestri la trasmissione condotta da Edoardo Camurri in onda su Rai3 e RaiStoria, dedicata alla scuola e all’istruzione; è la novità migliore e di più alto livello degli ultimi tempi. La qualità, è questa la battaglia da condurre, l’unica che valga veramente la pena”. Ce n’è bisogno nell’intero “ecosistema digitale”, nella radio che con il podcast entra nei giornali, nella televisione, nel web. Sistema è la parola chiave che ci deve allontanare sempre più da un approccio chiuso in se stesso, monadico, autoreferenziale. Per combattere la sua “battaglia per la sopravvivenza”, la Rai deve concentrare le forze. Quindici canali sono troppi secondo Grasso. E deve puntare sulla triade virtuosa: qualità, competenza, innovazione, sapendo che la rivoluzione non è un pranzo di gala, nemmeno quella tecnologica che per di più è una rivoluzione permanente.
 

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