Torna la geniale “In Treatment”. Ma ormai non è più tempo di maschi bianchi e fascinosi
Dieci anni non sono passati invano: in arrivo su Sky la quarta stagione, con tanto di strizzacervelli in epoca Covid. "In Treatment" è da vedere ancora una volta
Era una serie semplice (con il senno di poi) e geniale. Quattro pazienti. Una seduta a settimana dallo strizzacervelli. Il quinto giorno lo psicoanalista va dalla sua supervisor, anche lui ha bisogno di un’aggiustatina. Un divano, una poltrona, la cura basata sulla parola, così “In Treatment” era stato congegnato dall’israeliano Hagai Levi. Poi è arrivata la versione americana, Rodrigo Garcia showrunner e Gabriel Byrne terapeuta. E molte versioni internazionali, tra cui l’italiana, regia di Saverio Costanzo e Sergio Castellitto all’ascolto.
"In treatment": ecco la quarta stagione su Sky
Nessuno aveva toccato la struttura. Provvede la quarta stagione americana, Hbo come le precedenti (in Italia da ieri, su Sky Atlantic e Now). Psicoanalista, l’attrice Uzo Aduba, americana di origini nigeriane. Dieci anni non sono passati invano, non è più tempo di maschi bianchi e fascinosi. Personcine sensibili per favore astenersi (qui e anche più avanti): la ragazza non è propriamente filiforme, così dalla lista spuntiamo anche la body positivity che ha spinto Victoria’s Secrets a cambiare genere di modelle (e anche genere di mutande: alte e fascianti, stile collegiale).
Siamo a Los Angeles, non più a Baltimora. E c’è il Covid. Quindi la dottoressa Brooke riceve a domicilio. Suo: una bella casa anni 60 con meravigliosa vista sulla città (lo studio di Santa Monica è infrequentabile per pandemia, per la comodità degli sceneggiatori e delle registe che hanno qualcosa da inquadrare, in mancanza degli avvincenti dialoghi che ricordavamo). Sappiamo, qualche puntata dopo, che la magione era stata disegnata dal genitore architetto, appena defunto ma la figlia ancora non ha ritirato le ceneri.
Il povero Sigmund Freud singhiozza disperato, ovunque si trovi. Secondo lui il posto dello psicoanalista era dietro il paziente sdraiato sul lettino. Il faccia a faccia consente di scorgere le espressioni del terapeuta, pessima idea. Il paziente deve solo immaginarle, come può solo fantasticare sulla vita privata del terapeuta. La dottoressa Brooke non solo riceve nel salotto di casa sua, con mobili di design. Ha anche lasciato fotografie e ricordini sulle mensole e alle pareti.
"In Treatment" la serie, perché continuare a seguirla
Il primo paziente, Eladio, è latinoamericano. Si occupa di un ragazzo paralizzato, figlio di una ricca famiglia che gli paga la psicoanalisi (altro sussulto di Freud: “Se non hai pagato non sei guarito”, il denaro fa parte della terapia). Via Zoom, dice di non dormire da giorni, vorrebbe pillole e non parole. Secondo paziente, di persona: un giovanotto abbastanza logorroico che ha trascorso qualche anno in galera per truffe informatiche, prima di rilasciarlo il tribunale vuole un parere dalla dottoressa Brooke. Terza paziente, una ragazza accompagnata dalla nonna, che pronuncia le sagge parole: “Sei donna, sei nera, perché vuoi essere anche lesbica”. Si intende: aggiungendo svantaggio a svantaggio (ricorda il titolo dell’autobiografia di Jeanette Winterson, parole rubate alla donna che l’aveva adottata, quando scoprì che era lesbica: “Perché vuoi assere felice quando puoi essere normale?”).
Quarto paziente? Non c’è. Nemmeno uno straccio di supervisor, di cui un serio professionista dovrebbe disporre. Irrompe nella serie un’altra figura in grado di incassare i turbamenti: la sua sponsor agli Alcolisti anonimi. E dunque, facciamo i conti: il passaggio da maschio a femmina è una perdita secca, altro che empowerment. Avevamo uno bravo e fascinoso. Abbiamo una che volentieri scavalca i confini del mestiere, racconta dettagli della sua vita privata, e avrebbe tanto bisogno – come dicono al cinema, ripetiamo: astenersi i sensibili – di “farsi vedere da uno bravo”.
Politicamente corretto e panettone