Il sorriso di Don Draper ci invita a fare pace con la sindrome dell'impostore
I tormenti esistenziali del geniale protagonista di “Mad men”, uomo di successo attanagliato dall'angoscia e dalla solitudine
Qualche mese fa, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo che s’interrogava sul perché tanti millennials di successo soffrissero della sindrome dell’impostore, ovvero sentirsi qualcuno che non si riconosce nella vita che conduce ritenendo di non meritare quanto raggiunto. E’ un tema ricorrente nel dibattito americano degli ultimi anni, un tema in parte futile per come è posto, e allo stesso tempo rivelatorio. Se da un lato mostra quello che si può considerare un aspetto positivo, ovvero un’autoanalisi sui propri meriti, dall’altro mostra la futilità della questione: si può stare male per avere avuto successo se non lo si è fatto in modo gravemente immorale? Non potrebbe essere, questa sindrome, niente altro che l’ennesima dimostrazione della nostra sfinita fragilità emotiva di occidente ricco, compiuto e autocosciente? Tuttavia, la sindrome dell’impostore, che è anche la percezione di vivere una vita che non è la propria, una vita a cui sentiamo non eravamo destinati, è qualcosa che siede stabilmente in noi ma emerge in modo radicale nel momento in cui le cornici esistenziali stabili che avevano contribuito al formarsi delle identità individuali nei secoli precedenti tendono a venire meno e non sono più in grado di aiutarci a dirci chi siamo. La sindrome dell’impostore, infatti, non è altro che l’impossibilità di trovare una risposta alla domanda più originaria che ci sia: chi sono?
“Mad Men” è una magnifica serie tv che racconta la vicenda di un’agenzia pubblicitaria newyorkese negli anni 60. Il protagonista assoluto è Don Draper, direttore creativo dell’agenzia e uno dei più geniali pubblicitari in circolazione. E’ attraente, ha la statura, lo sguardo e il carattere non solo dell’eroe americano ma dell’eroe classico eppure, in realtà, è un disertore della guerra di Corea e un impostore. Ha scambiato la sua precedente identità con quella di un suo superiore sfigurato dopo un’esplosione. A lui non interessa l’eroismo. Da ragazzo poverissimo, nato in un bordello, orfano, vuole vivere il sogno americano. E, grazie alle sue capacità, ci riesce. Eppure è pervaso da questa “sindrome dell’impostore”, non solo perché si è appropriato burocraticamente di un’altra identità, ma perché incarna la percezione costante di vivere accanto a se stesso, l’ombra di se stesso.
Nel corso della storia attraversa più cicli di distruzione e rigenerazione (infinite bottiglie di Canadian Club, stecche di Lucky Strike, matrimoni, amanti, tormenti insuperabili, ecc…), e ogni volta ne viene fuori come un uomo ancora più ricco e di maggior successo. Ma una crescente angoscia e la sindrome dell’impostore sono le uniche vere compagne che occupano la sua affollata solitudine. Nelle ultime puntate della serie, quando la sua agenzia viene assorbita da una compagnia molto più grande, sale in macchina per andare a fare un giro. Va verso l’ovest, senza dire niente a nessuno e senza meta. E’ un viaggio lungo, interminabile che lo conduce, casualmente, in un ritiro spirituale hippie dalle parti di Big Sur. E’ il posto più lontano che si possa immaginare da lui. Ma è un uomo perso rispetto a se stesso e alla propria vita, incapace di individuare una direzione e di desiderare qualcosa di specifico.
In un momento di confessione collettiva durante il ritiro, in cui seduti in cerchio ciascuno racconta il motivo del proprio dolore, Don ascolta la testimonianza di un uomo, che appare come il suo opposto (gracile, un po’ calvo, vestito come un piccolo impiegato, insignificante sotto ogni aspetto) e che sembra non entrarci nulla lì. Ma il suo racconto è potente e disperato. Ascoltandolo, tutto ciò che era sul punto di rompersi va in pezzi dentro Don. Vede con chiarezza qualcosa che non riusciva a spiegare. Allora si alza, va verso l’uomo e, piangendo, lo abbraccia come un fratello. Si rispecchia in lui, come uno straniero che arriva alla sua stessa porta. Don è improvvisamente liberato e pacificato.
Nell’ultima scena lo vediamo con le gambe incrociate, l’alba davanti e la risacca del Pacifico sotto di lui, partecipa al saluto al sole. E quando il maestro fa partire l’om, lui si unisce. Il suo viso, fino a poco prima tirato e afflitto, è ora perfettamente rilassato e un sorriso malizioso compare sulla sua bocca mentre dietro i suoi occhi, come in una visione, compare una celebre e gioiosa pubblicità della Coca cola con tanti giovani di tutte le etnie del mondo che cantano all’unisono una zuccherosa canzoncina.
Ciò che trova in quel momento di apertura completa, di pace e rinascita, non è una qualche strada per la salvezza, hare krishna, misticismo orientale e via della pace eterna, ma la pura rappresentazione: una pubblicità. La pubblicità della Coca cola che demitizza tutti i simboli spirituali, tutte le differenze di etnia e religione, in una sorta di unitario carnevale che annulla tutte le differenze come prodotto perfetto dell’evoluzione culturale, economica e sociale dell’occidente. Don comprende che non c’è nulla oltre la disperazione. Nessun modo di vivere più “vero”. Comprende che l’unico modo è proprio quello dell’impostura e della maschera, semplicemente perché non c’è impostura e non c’è maschera, perché non esiste una “realtà autentica” da recuperare. Che tutto è lì e non c’è altro. Che siamo quello che siamo e quel che continuamente diveniamo, e non “altro”. Niente altro di originario e originale. E che la domanda “chi sono?” non ha poi tanto significato. Un radicale realismo privo di qualsiasi augurale, e un po’ patetica, salvezza nevrotica ed emotiva.