Il Foglio del weekend
Il paradiso della televisione. Che cosa rappresentò, trent'anni fa, “Non è la Rai”
La trasmissione inventata da Gianni Boncompagni e trasmessa dalla tv del Cavaliere. Rivoluzionò il mezzogiorno italiano. Ma fu anche il grande banco di prova dell’antiberlusconismo
Il 1991 è l’anno in cui Di Pietro apre un fascicolo alla procura di Milano, l’anno del “Portaborse” con Moretti, di Benigni sopra la Carrà a “Fantastico” e della prima puntata di “Non è la Rai” che allora andava in onda su Canale 5. Era il 9 settembre. “È un programma pensato per l’ora di pranzo”, diceva Boncompagni presentandolo alla stampa, “per un pubblico formato in maggioranza da donne, poco concentrato, occupato da mille faccende, sarà una trasmissione fatta di moduli brevi”. La televisione italiana non sarebbe più stata la stessa.
Quelle che non sono diventate attrici, soubrette, cantanti, personaggi televisivi, sono rimaste per sempre “le ragazze di Non è la Rai”. Quasi una categoria antropologica che evoca tutto un periodo, un passaggio decisivo nel costume, un modo di fare televisione e di guardarla: all’ora di pranzo, a casa, senza smartphone o YouTube. I loro nomi, infondo così comuni rispetto alle Chanel-Karin-Ilary-Emily-Melory arrivate subito dopo, suscitano ancora qualche turbamento in chi nel frattempo è diventato cinquantenne. C’è chi collezionava le figurine di “Non è la Rai” e ora usa l’asterisco e la schwa e lo considera l’origine di ogni male. C’è chi rimpiange quell’incoscienza, quella disinvoltura “fin de siècle”, e oggi dice che “un programma così non si potrebbe fare” (lo si dice ormai per qualsiasi cosa). Ovviamente hanno torto entrambi. La verità è che “Non è la Rai” non si può più fare perché non se lo vedrebbe nessuno. Non ci sono più quella televisione, quel pubblico, quell’ora di pranzo. Ogni cameretta su TikTok è diventata la prosecuzione delle canzoncine in playback fuori-sync delle “girls” di Boncompagni, ma con inquadrature, facce, pose assai più sfrontate. E poi ora si comincia anche a undici, dodici anni: per stare al passo, si dovrebbe fare “Non è Rai YoYo”.
Comunque la si pensi, “Non è la Rai” fu un colpo di genio. Una di quelle idee che si presentano come una visione, una folgorazione racchiusa in una sola immagine pura, semplice, cristallina: “Cento ragazze, una piscina”, come recita ancora oggi la didascalia su Mediaset Play. Come i musical della Warner coreografati da Busby Berkeley o i film di Esther Williams. Una delle novità del programma, oltre la diretta (la prima di Canale 5 per un varietà), era infatti questo imponente sistema di telecamere dall’alto, da film musicale. Molti dei vostri ricordi visivi di “Non è la Rai”, se ci pensate, sono più “aerei” che frontali. C’erano i primi piani, ovvio. Ma c’erano anche queste inquadrature à la “Moulin Rouge”, dall’alto, in movimento, davvero insolite a quel tempo per un programma che andava in onda alle tredici (“immaginatevi cose succederebbe se le inquadrature partissero dal basso, come vedo fare anche in Rai”, diceva del resto Boncompagni). “È il paradiso così come me lo immagino”, pare disse il Cav. una volta in visita agli studi Safa Palatino, davanti a tutti quei costumi da bagno. Una versione laica e molto televisiva delle settantadue vergini musulmane, senza neanche bisogno di farsi esplodere.
Qui, com’è noto, si concentravano e si concentrano tutte le critiche. “Non è la Rai” fu molte cose ma fu anche un grande banco di prova dell’antiberlusconismo. Il fronte dell’indignazione pescava un po’ ovunque: una galassia trasversale con dentro Umberto Eco, il Telefono Azzurro, Famiglia Cristiana, Michele Serra, il Vaticano, Monsignor Tonini, Vasco Rossi, che però almeno ci fece sopra un pel pezzo, quel “Delusa” che poi Boncompagni gli avrebbe rimandato indietro col testo invertito (“però quel Vasco Rossi lì secondo me…”). Marco Rizzo rimise in piedi la “Federazione della Gioventù Comunista”: “Contro Ambra falce e martello. Meglio Leopardi e Che Guevara, riscopriamo il Manifesto di Marx”. Ci fu anche una marcia dell’8 marzo organizzata contro di lei. Un 8 marzo “antiAmbra”. Difficile immaginarlo per chi si è formato con l’Ambra sindacale del concertone o l’attrice un po’ malinconica di film progressisti (ma siamo solito refrain della legittimazione culturale all’italiana: stronzata inutile, stronzata pericolosa, fenomeno del nostro tempo, roba nostra). Quell’8 marzo, eccezionalmente il programma non andò in diretta. C’era il timore per gli scontri tra i suoi fan accampati fuori gli studi e le manifestanti. A fine giornata però il “movimento” concluse che “Ambra Angiolini non rappresenta l’adolescenza reale che, in genere, è più ‘colta’ e brutta di lei anche se, naturalmente, ci sono ragazze particolarmente belle e/o ignoranti”. Un po’ come nella scena di “1992”, con la figlia di Stefano Accorsi che imita Ambra davanti la tv ma subito si difende dicendo che la guarda con “spirito critico”. “Nessuna ragazzina poteva dire una cosa del genere”, disse Boncompagni quando uscì la serie. “Manco sapevano cosa volesse dire lo spirito critico. E non avevano nemmeno sensi di colpa. Si divertivano e basta”.
Sull’Unità si paragonavano le selezioni delle ragazze a Cinecittà alle adunate della Gioventù Italiana del Littorio (si sa, la televisione commerciale è la prosecuzione del fascismo con altri mezzi). Boncompagni non era è quello di “Alto Gradimento” ma “un altro uomo” e il suo programma “una fabbrica di future infelicità”, “una delle pagine più oscene della macelleria televisiva degli ultimi anni”, un “catalogo di modeste merci e modesti sogni”. La notizia della chiusura di “Non è la Rai” fu salutata come “una di quelle che fanno bene al cuore dei democratici e dei genitori che credono ancora alle ragioni della pedagogia”, “un nuovo 25 aprile”, il “giorno in cui gli adolescenti furono liberati”. Sui giornali si portava molto il racconto dei provini, “in fila sotto il solo con il sogno di diventare Ambra”, subito riconvertito in “spaccato di vita”, trattatello sul disastro antropologico con una punta di disprezzo per queste “ragazze di periferia” con scarsa dimestichezza con l’italiano. Un remake più feroce, spietato e incattivito di “Bellissima”.
Chi erano le aspiranti “ragazze di Non è la Rai”? Più che una fascia anagrafica, rappresentavano una nuova classe, né proletaria, né borghese, assai indifferenziata, molto estesa, identificabile soprattutto in termini di auditel o tendenze, subculture, mitologie pop. Non vistosamente belle ma “carucce”. E però altro che individualismo sfrenato, consumismo all’americana, neoliberismo selvaggio! Semmai tutto un carrozzone di madri, zie, zii, nonni, fidanzati, mi’ sorella, mi’ fratello, con tutto il pacchetto del “familismo amorale” al completo che tornava e torna sempre a galla. Chi entrava guadagnava centomila lire al giorno e usufruiva di corsi di dizione, fortemente voluti da Boncompagni che detestava moltissimo l’accento romano. Come i grillini della prima fase di silenzio-stampa e divieto di talk-show, le ragazze non potevano parlare coi giornali. Ma ogni tanto, ovvio, spuntava fuori qualcosa: “Ogni giorno Boncompagni deve ricevere decine di mamme e nonne che gli gettano ai piedi figlie e nipotine per andare in video”, diceva Cristina Quaranta a “La Stampa”, “e una ragazza di 15 o 16 anni va in televisione è perché lo ha voluto con insistenza la madre”.
Nel febbraio del 1994, a un mese dalle elezioni, in un clima ormai da guerra civile, anche la politica va in tilt per “Non è la Rai”. Seduta sulla sua poltrona bianca, Ambra chiacchiera con un pupazzo animato a forma di diavoletto del Milan. Il diavoletto spiega che il Padreterno fa il tifo per Forza Italia: “Dio sta con Berlusconi, Satana con Occhetto e Stalin con i progressisti”. Ambra in realtà s’impappina un po’, ma il senso è chiaro. La “gioiosa macchina da guerra” va su tutte le furie. Forse oggi se lo ricordano in pochi, perché di quella campagna elettorale si citano sempre il video della “discesa in campo” del Cav. o il faccia a faccia con Occhetto da Mentana, a “Braccio di ferro”, battesimo televisivo del nostro bipolarismo. Chi ha trent’anni stenterà a crederci. Eppure scoppiò un gran casino: interrogazioni parlamentari, richieste dell’intervento del Garante per l’editoria (all’epoca Giuseppe Santaniello), invocazioni di arresto immediato di Berlusconi per “sfruttamento del lavoro minorile” (del resto il clima era quello di Tangentopoli). “Di politica non so nulla”, spiegava allora Ambra interrogata a raffica sui giornali. “Stiamo giocando, è stato Boncompagni a suggerirmi la frase”. Poi ammise: “No, non voterei Berlusconi, bisogna sentire prima quello che ha intenzione di fare per noi giovani e questo ancora non l’ho capito”. Un video del genere oggi avrebbe sbancato sui social. Lo avremmo visto in una valanga di meme, parodie, mash-up, accompagnato da uno strascico di editoriali, appelli degli intellettuali, asterischi di Murgia, retroscena del Fatto sugli auricolari di Ambra e rivendicazioni di Montanari su Twitter: “Se un rettore oggi in Italia non può più essere stalinista”.
All’alba degli anni Novanta gli auricolari erano invece un oggetto abbastanza misterioso. Non c’erano le cuffie bluetooth o gli AirPods, del resto nessuno ne avrebbe avuto bisogno. Gli auricolari li scoprimmo con “Non è la Rai”. A un certo punto non si parlava d’altro. Gli “auricolari di Ambra” erano l’oggetto-feticcio della trasmissione, il segno, la firma spudorata di Boncompagni su quel programma un po’ folle. Col senno di poi, “Non è la Rai” è stata la prima conduzione “in smartworking” nella storia della tv: Boncompagni guidava il programma “a distanza”, (in tuta, proprio come noi a casa durante il lockdown), mentre Ambra conduceva con gli auricolari in diretta. Su RaiTre, Chiambretti mise su anche un’intercettazione del programma. Lui nascosto in un furgoncino con tutta l’apparecchiatura per svelare agli italiani quello che Boncompagni diceva a Ambra (pare tantissime parolacce per tirare fuori meglio l’imbarazzo).
Dalla prima puntata all’ultima (30 giugno 1995), con le ragazze che s’abbracciavano disperate in lacrime, “Non è la Rai” ha immortalato una serie di momenti epici di “pura televisione”. Quella televisione fatta di televisione, anzi di “detriti televisivi”, come diceva Berselli, la televisione che amava Boncompagni. Con l’invenzione spregiudicata della conduzione di Ambra, pescata nel mucchio delle sedicenni, anticipazione dello sperimentalismo matto e disperatissimo di “Macao” e di tutti i reality a venire: una televisione che si fa da sola, senza conduttore, con Boncompagni uomo-invisibile che guidava lo studio. E poi lo scandalo del “cruciverbone” con Enrica Bonaccorti, prima conduttrice del programma, che smaschera la truffa telefonica, cioè una risposta sull’Eternit che arriva prima ancora della domanda. Poi lo scatenamento generale sul tormentone, “Please don’t go”, ipnotico e caciarone, coi tuffi in piscina, il playback. Poi lo zainetto di Ambra con dentro dieci oggetti da indovinare (un derivato dei “fagioli” della Carrà). Poi le interviste surreali di Ambra a Costanzo, Sgarbi, Bruno Vespa, Barbara Palombelli, bellissima e cotonatissima, come Melanie Griffith in “Una donna in carriera”. “È giovane e bella è venuta in motorino”, dice Ambra presentandola alle ragazze, “anche noi siamo venute in motorino e se per caso incontra il sindaco Francesco Rutelli dovrebbe dirgli questa cosa qui: le buche! Le buche! Le buche!”.
Ma come e perché “Non è la Rai” programma di varietà divenne “Non è la Rai” fenomeno sociale incandescente, pezzo di antropologia contemporanea, epitome del “degrado morale” e punto di riferimento per molti adolescenti con tutto un mercato nero di reliquie (numeri di telefono, figurine, biancheria, foto firmate)? “C’era anzitutto la forza della scrittura di Boncompagni”, ci dice Giovanni Benincasa, principe degli autori televisivi, “una scrittura orale ma precisa e dettagliata”. “Per Boncompagni il format è ‘la scena’. Lui partiva sempre da un’idea scenografica. Il programma era quello spazio, quella piscina, quelle pareti con le quattro stagioni, peraltro senza pubblico in studio. Uno spazio di grande impatto visivo”. “Poi”, prosegue, “in quel momento, e in quella fascia oraria, l’offerta della Rai era abbastanza misera, il target degli adolescenti non era neanche preso in considerazione”. Ma la vera ragione del successo è un’altra. “Dopo un po’ Non è la Rai aveva smesso di essere un programma, era diventato un luogo: il centro Safa Palatino. Un’alternativa alla scuola, al bar, al muretto, un punto di ritrovo per molti adolescenti che andavano lì tutte le mattina o quasi”. Una piazza per niente “virtuale” ma vera, concreta, un effetto-concerto ma quotidiano, come il programma. Il massimo della tv autoreferenziale che smetteva di essere “solo” televisione. “Grazie a Boncompagni”, spiega sempre Benincasa, “molti ragazzi, anche magari quelli che erano di Roma, hanno scoperto che lì c’erano il Colosseo, i Fori imperiali, tutta l’area archeologica intorno al Circo Massimo. Mentre aspettavano le ragazze all’uscita giravano intorno agli studi, lungo le residenze imperiali, come in una lezione di storia all’aperto. Qualcosa avranno imparato, quantomeno l’hanno visto”.
I fan di “Non è la Rai”, zainetto in spalla e foto di Ambra in mano, che rifanno il percorso di Goethe alle pendici del Palatino. A suo modo era una vera tv pedagogica. “Il mio non è un programma scemo”, diceva all’epoca Boncompagni, “è la tv che a parte qualche rarissimo programma ben fatto è tutta cretina. Solo che gli altri non lo dicono, e io lo grido forte”.
La salute del piccolo schermo
La resilienza della tv generalista di fronte ai nuovi media
Politicamente corretto e panettone