Il micidiale Gioco del Mondo. “Squid Game” è tanto raffinata quanto spietata
Ultima vera denuncia di sinistra (Libé dixit) o simbolo dello strapotere di Netflix, che ha preso una serie mediocre e ne ha fatto un fenomeno mondiale?
Le scale che salgono e scendono, in un labirinto di colori pastello, somigliano a un quadro di Escher. Le sagome umane sono verdi o rosa carico. È l’unico momento per tirare il fiato, tra il realismo miserabile della vita in Corea (debiti, mamme malate, immigrati, lavori non pagati, mariti maneschi) e certi giochi infantili trasformati in macchine ammazza-adulti. Come lo “Squid Game” del titolo, una specie di Gioco del Mondo: si saltella su un piede e si lotta. Nella versione per i grandi chi perde muore, e chi vince si porterà a casa 33 milioni di euro.
Un gioco per disperati. Osservato, se non organizzato, da un’altra sagoma – elegante e seduta in poltrona – che osserva ogni micidiale partita su un maxischermo, per colonna sonora un’orchestrina di automi suonatori. Aperta la caccia alle interpretazioni: è il capitalismo (nelle sue versioni “semplice” o “efferato”), è il lockdown, è la pandemia, è la lotta per la vita (o magari la lotteria della vita), è la violenza insita nell’uomo, che aspetta solo un’occasione per sfogarsi.
“È l’unico discorso di sinistra sentito in questi tempi elettorali”, scrive Lauren Provost su Libération: “Nessun altro parla di ridistribuzione delle ricchezze e della precarietà che mette in pericolo le scelte democratiche”. Interpretazioni libere, a volte contraddittorie. È la forza del pop e dell’immaginario coreano, che si era imposto a Cannes con “Parasite” di Bong Joon-ho. È lo strapotere di Netflix, che ha preso una serie modesta e l’ha fatta diventare un fenomeno mondiale (Bangladesh e Brasile compresi) battendo “La casa di carta” e “Bridgerton”.
Parlando di cinema, “Squid Game” è “The Most Dangerous Game”, horror americano del 1932 (uno dei registi era Ernest B. Schoedsack di “King Kong”, e c’era anche Fay Wray, la Bella che uccide la Bestia). Il conte Zaroff pratica la caccia all’uomo, attirando yacht che si schiantano sulla sua isola (ha anche la stanza dei trofei). O il film giapponese “Battle Royale” di Kinji Fukasaku: una quarantina di studenti liceali, muniti di collare, devono ammazzarsi l’un l’altro: uno solo resta in piedi e può lasciare l’isola. Vietate le alleanze, se sopravvivono in due, il collare telecomandato li fa saltare in aria. Sono gli estremi, con la trama ridotta a zero.
“Squid Game” è più raffinato e spietato. Tiene la fine lontana dall’inizio (compito di ogni sceneggiatore o regista che non accetta tradimenti o distrazioni da parte dello spettatore) con ogni mezzo. Un po’ di lotta di classe. I servi e i padroni (tema eterno su cui si regge “Parasite”). Sfigati che partecipano al gioco, ritagliando formine nel caramello, e sfigati che fanno le guardie, con la faccia nascosta da una calotta nera.
I pochi personaggi che si staccano dallo sfondo sono un ben assortito plotone, da film di guerra. Il giovane, il vecchio, l’immigrato, il giovanotto che ha studiato, il piccolo truffatore. Per un po’ alleati, ma le regole sono chiare: vince uno solo. Gli altri moriranno in pose più o meno plastiche, senza risparmiare sul sangue versato.