Il Foglio Weekend
Un posto al sole sfidato dai talk
Non risparmiano neanche la soap più longeva d’Italia. Fan in rivolta a Napoli e non solo per lo spostamento di orario. La trattativa Rai-Palazzo Palladini. È stata la mano di Minoli
La nemesi non poteva essere più terribile. “Vogliono spostare Un posto al sole per far posto all’ennesimo talk politico”, il grido d’allarme è di Gianni Minoli, glorioso inventore di Mixer, uno dei primi talk politici, e uno dei più nobili, ma anche colui che importò la celebre soap australiana, adattandola fin troppo bene ai consumi italiani. La notizia, dunque, è che Upas, come da acronimo dei suoi affezionati, potrebbe essere spostata dalle attuali 20,45 alle 18,30, per ospitare un programma nuovo di zecca affidato a Lucia Annunziata violando la sacra fascia dell’access prime time.
Il popolo televisivo però non ci sta, il popolo televisivo scende in piazza. O almeno sui social, dove è già partita la rivolta: “25 anni sono passati da quando i miei cominciarono a guardare questa grande produzione, un orgoglio tutto campano, con me di circa due anni tra le braccia”, scrive un utente, mentre l’hashtag #upasnonsitocca già spopola. “Alle 20:45 si cena con Un posto al sole, unica certezza televisiva”, tuitta un altro.
Ma non ci sono solo le proteste dei fan. Scendono in campo gli attori. Per Patrizio Rispo "è un'ingiustizia". Lui nella soap interpreta il protagonista Raffaele Giordano, il portiere di palazzo Palladini, il compound napoletano in cui si svolgono le infinite vicende di Upas. E’ stato sposato vent’anni con Rita, e poi si è messo con la milanese Ornella. Per un breve periodo ha gestito anche un ristorante (così Rispo ha dato anche alle stampe “Un Pasto al sole”, ricettario fondamentale di cucina napoletana). Nella vita è anche un simpatizzante dei Cinquestelle. Ma la politica non c’entra con Upas. E' solo buonsenso. "Invece di premiarci ci piazzano in un orario dalle tante incognite, a cui manca l’abituale zoccolo duro di persone che tornano dal lavoro. Sicuramente gli ascolti caleranno. Spostarci è da kamikaze, così come lo è minare la fidelizzazione faticosamente conquistata in 25 anni", ha detto l’attore a Fanpage.
Il fatto è che, secondo indiscrezioni lanciate da Dagospia, il direttore di Raitre Franco Di Mare vorrebbe insufflare la fascia oraria ambitissima con una “striscia” di informazione che vada a contrapporsi all’affollatissima concorrenza: su Rai2 c’è Tg2 Post con Manuela Moreno, su Rete 4 Stasera Italia con Barbara Palombelli, su La7 Otto e mezzo con Lilli Gruber. Insomma si vuole talkizzare definitivamente quella fascia, rovinando definitivamente la cena agli italiani incolpevoli già infarciti di talk (che pure fanno meno ascolti: Upas fa il 7 per cento, battendo tutti i suddetti concorrenti).
E non è solo che Upas è seguitissimo e proprio giovedì ha celebrato i suoi venticinque anni dalla messa in onda della prima puntata, il 21 ottobre 1996. Realizzato dal centro di produzione Rai di Napoli, come molti sanno è l’adattamento di un format, “Neighbours”, e rappresenta l’innesto più di successo della televisione italiana: interclassista, dà assuefazione. Ne sono fan sfegatati la scrittrice Teresa Ciabatti e l’artista Francesco Vezzoli e anche nel suo piccolo chi scrive (ma anche un celebre diplomatico raccontò segretamente che in qualunque sede si trovasse, a Kabul o in Indocina, alle 20,45 si sintonizzava su Rai 3 per seguire le vicende di palazzo Palladini).
Ma nulla si può contro il talk, il debordante, rampante, infestante talk. E’ chiaro che c’è un problema, è evidente che Il talk, specialmente il talk politico, riassume un’esigenza: oltre a quella di esserci, di apparire, e di piazzare una compagnia di giro che è quella degli ospiti fissi. C'è poi l'urgenza del dibattito, dibattito altissimo sulle idee, sui modelli, sulla politica; l’infinito prendere e cambiare posizione, insomma siamo di fronte a un’altra Napoli, è il modello crociano, l’idealismo e la chiacchiera infinita e lo spaccare il capello in quattro sulle altissime o bassissime questioni.
In più conterà l'effetto Draghi: da una parte, il parlamento ormai demansionato prevede che la discussione sempre più espressionista si sposti altrove; ingorgata, crescente, incaponita. Dall’altra è una vendetta: perché il premier proprio lo schifa il talk come forma d’arte e d’espressione. “Draghi è inavvicinabile – twittò qualche tempo fa Corrado Formigli – tratta i talk come roba sporca”. E’ chiaro insomma che Draghi è il dottor Ferri della serie, lo spietato finanziere che sta al piano più alto, mentre Formigli è forse Michele il cronista e scrittore tutto d’un pezzo. Ornella, la dottoressa del nord, elegante e autorevole, è senza dubbio la virologa Antonella Viola. E chi sarà Marina la bellissima e calcolatrice?
Un posto al sole cambia orario, la rivolta sul web
La soap napoletana è un infinito susseguirsi di colpi di scena, perdite di memoria, figli illegittimi, flashback improbabili, nuovi personaggi, insomma simile al dibattito a cui normalmente assistiamo nei talk (ma meno noioso): lì tutto un discutere e un parlarsi addosso anche di argomenti disparatissimi, politici che commentano il virus, virologi che si improvvisano costituzionalisti, e cantanti che discutono di politica monetaria. E l’ospite da tutti agognato, il magistrato-scrittore, che scandisce ogni parola con dizione da cassazionista. E maratone sempre più lunghe, dirette, sondaggi, sondaggioni, il corpaccione del talk si allunga e penetra in ogni pertugio. Le ultime amministrative hanno invaso le televisioni degli incolpevoli italiani di una sbornia di talk anche in edizioni straordinarie, e forse nel drammatico dato dell’astensione un poco avrà contato anche l’ossessione per la politica della tv italiana che seziona anche lo spoglio comunale di Benevento e interroga i quattro novax triestini con toni che neanche la caduta di Kabul.
Certo, si sa che “politics is show business for ugly people”, la politica è lo show business dei diversamente carini, come diceva Gore Vidal, e che in Italia a un grand’attore sarà sempre preferito un sottosegretario. Però, che palle: l’incessante dibbbattito come se ci fosse sempre da inventare un modello e gestire imperi e non invece da amministrare una piccola potenza in crisi demografica. Ma l’infinita energia spesa nel dibattito politico e nel talk è l'horror vacui, è l’idea dell’eterno ritorno (cambiare in continuazione legge elettorale, protestare prima per le perdite colossali dell’Alitalia e poi immediatamente rimpiangerla; titillare i no vax allevandoli, vedendoli crescere in studio e poi stupirsi se quelli si scatenano in piazza).
Un brulicare, un disordine, un caos che palazzo Palladini come camera di compensazione riesce a domare molto meglio. Sono compatibili questi due universi? Del resto nei talk compaiono ospiti sempre nuovi, che non sfigurerebbero in quel Posillipo immaginario: una degnissima è la vicequestora no vax Nunzia Schilirò, ormai protagonista di “Non è l’arena”, talk che ha subito il cambio di fascia oraria con minore choc degli utenti (“cambia il giorno in cui andiamo in onda, non cambia il nostro modo di fare giornalismo”, proclamano); già apparsa a “Quarta Repubblica” con plauso di Cacciari, e dallo sciamano Mario Giordano, Schilirò e però stata consacrata proprio da Giletti. Sarebbe perfetta come comandante della polizia urbana accanto a Guido, a rappresentare i no vax tra le forze dell’ordine (e poi ha anche questo nome perfetto). E quanto manca allo sbarco televisivo del già leggendario Stefano Puzzer, leader dei portuali piagnoni di Trieste? Starà contrattando ingaggi con delle primarie agenzie? Però in una fiction il cognome “Puzzer” non si sa se passerebbe, non parrebbe credibile.
Poi certo c'è il problema della tenuta nel tempo. “Vorrei vedere lei a condurre un talk per tre ore”, ha messo in guardia Fedele Confalonieri, uno che di tv qualcosa ne capisce. “Noi non possiamo mica fare come i talebani, noi dobbiamo far parlare tutti. Anche gli sfessati”, disse qui sul Foglio a Salvatore Merlo. Insomma, il talk è policentrico, polifonico, è aperto a tutti. E’ l’ultimo posto ormai dove l’uno vale uno (mentre palazzo Palladini si regge su un ordine di classe, di piani). E però secondo Aldo Grasso “abbiamo davvero bisogno degli sfessati nei talk show?” “Gli sfessati restino a casa loro”. Si narra che al centro Rai di Napoli ci sia la leggendaria "bibbia", l'enorme riassunto delle puntate precedenti che consente agli sceneggiatori di tenere un filo più o meno plausibile tra il groviglio delle storie.
E' chiaro che ce ne vorrebbe uno anche nel continuo sabba degli sfessati, che procede invece sempre più ingarbugliato tra virologi gigioni, scrittori alpestri alticci, filosofi-sindaci tinti, autori di bio e autobiografie, tutti sempre disponibili, pieni di opinioni, indignati e carichi, oltretutto in un’estetica sempre più da vaudeville. Lasciate a casa le truccatrici e i parrucchieri, il Covid ce li ha mostrati col loro vero volto, esposti ai mortali pixel delle loro webcam Windows sfarfallanti, ed è venuto fuori un mondo da signorina Felicita tristissimo, penombra nei salottini, nei tinelli, con le enciclopedie Treccani e le vetrinette in noce nazionale alle spalle (in confronto, palazzo Palladini con la sua estetica basica è il Moma). Si salva solo la leggendaria Veronica De Romanis, sempre sfondo giusto e luce e capello giusti, potrebbe essere una star di Upas (sarà lei la prossima Marina?).
Già, intanto, palazzo Palladini: gli esterni sono girati a villa Volpicelli, in coppa a Posillipo: un microcosmo, avamposto di una napoletanità pop, col palazzo sospeso sull’acqua, un po’ “Ferito a morte” dei poveri, un po’ “E’ stata la mano di Dio” depotenziata. Confinante con villa Rosebery, residenza napoletana del Capo dello Stato, Quirinale pieds dans l’eau, dunque metafore, anche qui, confini da non toccare, la politica non entra e ognuno sta nel suo. Una delle caratteristiche di Upas, che lo accomuna ai talk, è che a differenza della politica il mondo reale, l’attualità, si infila nella programmazione, si insuffla, è come se la serie e la realtà diventassero tutt’uno.
“Certo, è stato vincente l’essere vicini ai problemi del quotidiano. Si ritagliavano pezzi di giornale e sceneggiavamo su tutti gli eventi che avessero una tenuta almeno settimanale” ha raccontato Minoli al Corriere del Mezzogiorno. La soap viene scritta e girata praticamente in diretta tra i rioni di Fuorigrotta, da dove escono ogni settimana 5 puntate pronte, per un lavoro di 350 giorni all’anno. La “writing room” si compone di 30 scriventi, capitanati da Paolo Terracciano; ogni giorno un episodio, 18 scene per 25 minuti di copione. A oggi, esattamente 5800 puntate, girate da 125 registi diversi, tra cui Stefano Sollima (“Romanzo criminale - La serie”, “Gomorra - La serie”, “Suburra”) e Gabriele Muccino, che riconobbe come proprio l’esperienza di Upas lo aiutò nel suo passaggio americano.
A un certo punto visto il colossale successo si tentò una versione sicula, “Agrodolce”, ma non funzionò. Ma Un posto al sole tiene dentro tutto, e anche durante il lockdown si è fermato, sì, ma ha raccontato pure quello, con lo spinoff “Un po’ sto a casa”, realizzato in solitaria dove ogni personaggio si misurava con le piccole storie di quotidianità: il delivery di cibo a domicilio, la chiusura dei parrucchieri, i negazionisti - ovviamente il perfido Ferri della serie, che rifiuta di mettere la mascherina (“è sempre stato un uomo freddo e distaccato; proprio adesso, che gli costa mantenere un metro di distanza sociale?”, chiede il portiere Raffaele).
Un Posto al Sole e quell'intuizione di Gianni Minoli
“Un posto al sole” è nato proprio per essere collegato alla vita del territorio rappresentando la società”, ha detto Minoli. I ricordi sono aulici: “Capii che la Rai avrebbe perso l’esclusiva di calcio e cinema, quindi doveva puntare su cultura popolare e fiction seriale, come oggi si fa con “Don Matteo” e “Il commissario Montalbano”. “Mi venne l’idea di trasformare la serialità, producendola qui, non comprandola come si faceva prima. E riempiendola quindi di contenuti locali. Allora in Rai era l’epoca dei professori e si voleva chiudere il centro di produzione napoletano per contenere le spese. L’unica a non essere d’accordo era la presidente Elvira Sellerio, che mi disse di trovare un’idea per far lavorare Napoli e per bloccare la vendita del centro. Gliela “consegnai” subito. Lei andò in consiglio e la fece approvare”.
Il successo, contro tutti, fu epocale. Anche Umberto Agnelli si congratulò: “La Fiat ha costruito a Pomigliano d’Arco la più moderna fabbrica di auto che esista al mondo, ma il modello di sviluppo per il Sud è il tuo, non il nostro”, disse il fratello dell’Avvocato. “E dove la trovava la Rai una macchina da soldi che dopo 24 anni tutte le sere sfiora ancora il 10 per cento di ascolti in prime time?”. E oggi Upas. dice Minoli, è la prima industria di Napoli, “Dalle 8 alle 10 mila persone, calcolando non solo attori, registi e operatori, ma anche svariate figure professionali, dai capistruttura alle comparse fino a quelli che preparano i cestini per i pasti".
Insomma Upas andrebbe iscritto alla Confindustria, certamente unico caso di industria pubblica funzionante. Dove non riuscì il panettone, è riuscita la fiction di Stato. E Upas del resto certifica quello che si è sempre pensato: perché insistere con l’industria pesante e i petrolchimici e il consumo di territorio e l'amianto e l'Alfasud, mentre si potrebbe fare il bel canto, le canzonette, e tante “operazioni San Gennaro” da esportazione, laggiù?
Come la marcia dei quarantamila, adesso forse gli utenti di Upas scenderanno in piazza. Ma anche a palazzo Palladini non ci stanno a essere sfrattati dagli sfessati: il cast è stato appena ricevuto in pompa magna dal Governatore De Luca: “Un posto al sole”, ha detto De Luca, "non ha occultato i problemi di Napoli e le sue contraddizioni quotidiane, ma ha rappresentato un quadro completo di quella che è la nostra città, nel bene e nel male, con le sue due facce, attraverso un prodotto popolare e di successo. La Regione Campania sosterrà e difenderà questa importante esperienza che crea lavoro e promuove l’immagine di Napoli in Italia e a livello internazionale". Insomma è scontro aperto, ed è possibile che alla fine, anche evitando disordini, la questione Upas diventi scontro istituzionale. Non si potrebbe trovare un compromesso? Mandare in onda il talk annunziatesco da una dépendance di palazzo Palladini, in nome dell'orgoglio campano, per esempio. O farlo condurre in coppia con Rispo, sul modello Parenzo-De Gregorio ma con vista sul Golfo. Anche perché in caso di conflitto tra Regione Campania e Rai, ci si chiede, chi avrà mai la competenza? La procura di Napoli? La Corte Costituzionale? O direttamente Forum?
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