Il Foglio weekend
Tutti figli di Netflix
Sorrentino, Zerocalcare e gli altri. Se il cinema è in crisi, lo streaming si sente benissimo. E il motivo è tutto in una parola chiave: comodità. La grande piattaforma americana ormai condiziona il nostro gusto
Quando uscì “House of Cards”, ormai quasi dieci anni fa, dunque in un altro mondo, prima del MeToo, di Trump, Greta o i Cinque stelle al governo, ecco la sensazione esaltante di qualcosa di nuovo. Netflix aveva “alzato la posta”, come si diceva allora, e iniziava a cambiare le regole del gioco. Dopo aver glorificato “Lost”, Obama su Twitter invitava tutti a non spoilerargli anticipazioni della seconda stagione. Oggi bisognerebbe calcolare la quantità di conversazioni quotidiane che ruotano intorno a una serie o un film Netflix anche quando non li abbiamo visti, o soprattutto quando non li abbiamo visti. Fatturati, premi e abbonati volano sulle ali di slogan fortunati e testimonial anche imprevedibili (Liliana Segre cosa fa la sera? “Mi guardo le serie su Netflix”). Solo nell’ultimo mese un successo dietro l’altro. “Squid Game” che diventa un fenomeno virale e un generatore di editoriali sulla ferocia del capitalismo sterminatore. Zerocalcare che si tira dietro uno strampalato dibattito sul romanesco biascicato. E ora tutto un dilemma civile sulla “mano di Dio”: vederlo al cinema o sbracati sul divano tra meno di due settimane? La forza dei prodotti di Netflix sembra essere tutta qui: se ne parla tanto. Diventano discorsi, fenomeni sociali o anche polemiche, ma sempre straordinariamente utili alla causa. Il resto, cioè gli altri film, le altre serie, scivola per lo più in un cono d’ombra. Netflix conduce il gioco: “Uccide il cinema”, come dicono gli apocalittici, ma riporta anche le code davanti le sale per vedere Sorrentino. Scene che non si vedevano da un po’, anche prima del Covid. È stata la mano di Netflix.
Sull’affaire Sorrentino (poche copie per gli esercenti, pochi giorni al cinema), sono intervenuti un po’ tutti. Anche Renzi con un tweet: “’È stata la mano di Dio’ è un film che va visto assolutamente, e farlo al cinema ha una magia doppia”. Gli esercenti, si capisce, sono esasperati. Ma che sia Netflix a dover salvare la stagione dice già tutto. La grande “N” rossa che emerge dallo schermo nero tra le note di Pino Daniele, al culmine dell’emozione, mentre in sala sfumano i titoli di coda del film, ci ricorda che “È stata la mano di Dio” è gentilmente offerto da Netflix. E in teoria, poteva anche mandarlo direttamente in streaming. Come ha scritto Robert Bernocchi su “Cineguru” (uno dei pochi siti di cinema dove si parla di “prodotti” e “mercato”) “rimaniamo perplessi verso una strategia che non vede la sala come centro indiscusso del lancio. Ma la realtà è diametralmente diversa: si tratta di un film per una piattaforma che ha investito una cifra notevole e che vuole rientrare del suo investimento”, una cifra che nessun produttore/distributore oggi tirerebbe fuori per un film pensato anzitutto per la sala o senza il coinvolgimento di Netflix.
Per Netflix, del resto, il cinema è un hobby. Sorrentino, Scorsese, Cuarón sono operazioni d’immagine. Investimenti sul prestigio culturale. Non fanno crescere abbonati ma raccontano un marchio che è alleato, non “nemico” del cinema. “Sono film che funzionano molto bene in termini di visibilità, premi, stampa, endorsement culturali. Ma sono quasi operazioni di mecenatismo”, dice Bernocchi. “Dieci serie coreane, da cui magari esce fuori un altro ‘Squid Game’, costano la metà di ‘The Irishman’ e sicuramente portano più abbonati”. In più, il numero di abbonati a Netflix in Italia è ancora basso. Non incide davvero sui numeri della sala. Ma Netflix, naturalmente, è il capro espiatorio perfetto: è la piattaforma spietata che si mangia tutti e pensa solo al profitto. È lo streaming contro il cinema, è l’algoritmo che studia i nostri consumi, ci vende al mercato e neanche paga le tasse in Italia. Poi il mantra: Netflix non comunica i propri dati! (e qui giova ricordare quanti produttori dalle nostre parti falsificano i dati da sempre, gonfiano numeri, si comprano biglietti da soli, ma naturalmente nessuno se ne cura, fa parte del gioco).
“Se per portare la gente al cinema tiriamo fuori iniziative come quella di ritagliare i coupon dai quotidiani”, dice Bernocchi, “non credo che andremo molto lontano”. Sembra uno spin-off di “Ritorno al futuro”: un ventenne deve trovare un’edicola, comprare un quotidiano, ritagliare il coupon con le forbici, poi scovare un cinema aperto e vedersi il film. Niente di più facile. Peggio dei discorsi sulla “crisi della sinistra” ci sono in effetti solo quelli sulla crisi della sala. Stessa ripetitività, stanchezza, noia, eterno ritorno, cliché. Sono settant’anni che la sala convive con l’idea di “crisi” (come la sinistra). È dall’arrivo della tv piazzata davanti al divano di casa che vedere un film al cinema è diventato via via un “evento”, qualcosa di speciale, fuori dalla quotidianità dei nostri consumi. In un mondo in cui ordiniamo la cena da casa, compriamo i regali su Amazon e invece di fare la fila alle poste usiamo lo Spid (specie dopo la fatica che abbiamo fatto per scaricarcelo), si pensa che la “magia del grande schermo” basti da sola a spingere la gente in sala per vedere il film che ha vinto Cannes o Berlino. Magari col cinema più vicino a venti chilometri da casa. Magari col vicino che mi prende a calci sulla schiena per tutto il tempo, in un cinema brutto, sporco, senza bar, ristorante, parcheggio. I film si vedono al cinema! È molto bello come slogan, ma è anche cucito su misura per il pubblico della Ztl che al cinema ci va a piedi o in taxi. Non fa i conti con la realtà. Non fa i conti con la prima regola che da sempre accompagna ogni rivoluzione dei consumi: dalla comodità non si torna indietro.
Nei mercati più vivi la sala ha sempre trovato il modo di reinventarsi come spazio polifunzionale e attrattivo. In quelli più pigri chiede ristori, protezionismo, leggi che limitano la concorrenza. A fronte del suo sbandierato “progressismo”, il mondo del cinema italiano è straordinariamente conservatore, tradizionalista, catacombale, chiuso ermeticamente al nuovo. E poi siamo così sicuri che Netflix sia una minaccia per il cinema? “Al di là del discorso sulla sala”, dice Bernocchi, “non è il cinema, semmai il consumo di tv lineare che entra davvero in crisi con Netflix, l’idea di palinsesto tradizionale”. Mi va di continuare vedere Carlo Conti o Milly Carlucci quando posso passare su Netflix? Chi ha meno di vent’anni dalla tv non ci passa neanche. Mia figlia guarda “CoComelon” su Netflix, mio nipote adolescente guarda “Stranger Things” o “Sex Educational” sempre su Netflix. Noi (vecchi) diamo ancora una chance a Fiorello, Carlo Conti o Maria De Filippi. Poi però passiamo su Netflix. Dopo si salterà anche questo passaggio. “Netflix è ormai sinonimo di streaming. Come Kleenex per i fazzoletti di carta, Google per le ricerche su internet. Come la Pepsi che è pur sempre una ‘coca’”, dice Alberto Pasquale, curatore di “Netflix e oltre” (un bel dossier uscito sulla rivista “Bianco&Nero” nel 2019). “Se devo cercare una serie vado su Netflix, se devo comprare qualcosa vado su Amazon. Sono gesti scontati ormai. Poi in Italia abbiamo ancora poche piattaforme. Non abbiamo ancora Hbo, che sta uscendo ora in Spagna. Dunque l’equazione ‘Netflix=streaming’ è se vogliamo ancora più forte”.
Il mercato, il successo, l’audacia del “first mover” che ha sempre un vantaggio sugli altri costretti a inseguire, certo. Ma Netflix sembra avere qualcosa in più anche rispetto a Disney Plus che, nel 2025, secondo gli analisti, dovrebbe superare tutti per numero di abbonati. Chissà. “La differenza con Disney però è sostanziale: Disney è un mondo chiuso mentre Netflix è un mondo aperto”, dice Pasquale. “È ovvio, anche Disney ha prodotti formidabili, come ‘Get Back’, il documentario sui Beatles che sta andando molto bene in questi giorni. E naturalmente ha un repertorio incredibile. Ma è una piattaforma ancora troppo legata all’effetto-family del brand. Si creano effetti dissonanti. Vedersi ‘The Walking Dead’ su Disney Plus suona un po’ strano”. Anche “Pulp Fiction”, con l’acquisto della Miramax proprio in quell’anno, 1993, diventò di fatto un film Disney. Ma nessuno si sarebbe sognato di venderlo così al pubblico. Disney Plus, insomma, come un museo bellissimo. Un Louvre del cinema e delle serie con le sue sale pregiate, il padiglione “Star Wars”, il salone delle meraviglie della Marvel. Ma pur sempre un museo. “Come mondo aperto, Netflix è invece condannato alla ricerca della novità, all’incontro imprevisto. Se voglio vedere qualcosa in streaming, senza sapere bene cosa di preciso, apro Netflix. E poi sì, se ne parla in continuazione, Netflix sembra quasi un social-network più che una piattaforma di streaming. Ci sono serie Amazon che nella conversazione diventano ‘quella serie che ho visto su Netflix’”. Un po’ come quando in casa si diceva “accendi la Rai” per dire accendi la tv. Rispetto agli altri non c’è storia. “Sky, per esempio, viene identificato soprattutto come aggregatore. Nel nostro immaginario non è legato al cinema o alle serie.
Nonostante abbia prodotto grandi successi è ancora sinonimo di calcio. Sky è prima di tutto Sky Sport. Amazon è un grande magazzino. Le serie non sono il suo business principale. Disney vuol dire anche parchi a tema, negozi, una galassia di merchandising. Netflix, invece, è focalizzato solo sull’entertainment. Il suo non è più un modello ‘conglomerate’, quello cioè di una gigantesca multinazionale che opera in vari settori tra cui l’audiovisivo. Se c’è una cosa che il successo di Netflix racconta è anzi la crisi di quel modello. Netflix annuncia che è tornata l’epoca in cui è più importante saper fare bene una cosa, una cosa sola”. Come nella vecchia Hollywood. Quando Zukor, Leammle, Louis Mayer o Jack Warner controllavano tutte le fasi della produzione di un film e facevano solo quello.
Netflix ha oggi trovato la sintesi tra audience generalista e target mirato, tra locale e globale. Ogni nicchia ha il suo prodotto ma tutte le nicchie sono unite da Netflix. Sei parte di un tutto, ma allo stesso tempo sei te, con i tuoi gusti, le tue preferenze. Il caso “Strappare lungo i bordi”, la serie di Zerocalcare, è esemplare. Poteva anche essere un prodotto perfetto per la Rai. Certo, l’animazione costa tanto. Ma il problema è un altro. Se Netflix avesse prodotto “Freaks Out” (il film di Mainetti che mette insieme partigiani, nazisti e superpoteri) e la Rai fosse entrata nel progetto di Zerocalcare, oggi staremmo parlando del primo, non della serie animata. Esiste insomma un “Netflix Touch”, come quello di Lubitsch, che accende, infiamma e guida la fantasia del pubblico. La Rai è Carlo Conti. Non può essere Zerocalcare. I miei studenti chiamano Facebook “la Rai Uno dei social”. Qualcosa di vecchio, stanco, e soprattutto “non cool”. Non c’entra solo l’età. Anche la Bbc è vecchia, però è percepita come autorevole, competitiva, monumentale.
Allora, tutto merito del marketing e degli algoritmi? I coreani sono bravi a scrivere le serie, ma Netflix è ancora più brava a venderle in tutto il mondo, a farcele vedere. Ma non è per l’algoritmo che mi vedo Zerocalcare. Se Netflix mi suggerisce una serie in cui c’è tutto ciò che non mi piace o non mi interessa (l’animazione, l’estetica da centrosociale, la Garbatella, le felpe col cappuccio, il romanesco biascicato), vuol dire che l’algoritmo mi conosce meno della cassiera del supermercato. Semmai, darò un’occhiata alla prima puntata perché non si parla d’altro, o forse perché un amico mi ha detto: “Lo so, non è il tuo genere ma dammi retta, non è male” (è così che si rompono alcune amicizie). In “Netflix Recommends: Algorithms, Film Choice, and the History of Taste”, da poco uscito per la California University Press, Mattias Frey presenta i dati di una ricerca che ridimensiona il mito mefistofelico dell’algoritmo di Netflix. Tra i criteri più importanti che portano a preferire Netflix a Amazon o altre piattaforme non c’è solo il catalogo, l’offerta di contenuti. Nelle nostre scelte sembrano incidere di più il design della piattaforma, l’estetica, la semplicità dell’interfaccia, di nuovo, insomma, la “comodità”. Non ci fidiamo di una brutta combinazione di colori, di una brutta grafica, di una piattaforma statica o farraginosa. Lo stesso film non è “lo stesso film” su Netflix o Rai Play. Inoltre, nel concreto della loro esperienza, la maggior parte degli utenti Netflix non segue affatto le raccomandazioni dell’algoritmo, o le segue assai meno di quanto si creda. Non c’è codice capace di battere il caro, vecchio passaparola. Un passaparola espanso, ovvio, che oggi emerge dalla combinazione tra vita online e offline, tra critica, recensioni sparse sul web, consigli dell’amico, classifiche. Non a caso, introducendo il ranking con i primi dieci film o serie “del momento”, Netflix sta risolvendo l’annoso problema di quelle serate stesi sul divano, in stato catatonico, passate a scegliere cosa guardare senza poi riuscire a guardare nulla. Insomma, non ci fidiamo di Netflix. Ci fidiamo degli altri. Solo che, nel frattempo, gli altri sono diventati duecentoquindici milioni di abbonati nel mondo.
Politicamente corretto e panettone