dall'archivio
"Addio, caro Genny". Esposito che scrive al suo personaggio è davvero la fine di Gomorra
"Abbiamo vissuto ciascuno la vita dell'altro. Oggi dobbiamo lasciarci, ma non ci perderemo mai", dice l'attore in un paginone comprato da Sky sul Corriere. In questi sette anni, Gomorra ha cambiato (in meglio) la televisione italiana
"Caro Genny, sette anni fa ero solo un ragazzo della periferia che sognava di fare l'attore". È lo stesso Salvatore Esposito che scrive al suo personaggio, quello al quale ha prestato volto, corpo e voce ("la mia anima", dice lui) per le cinque stagioni di Gomorra - La serie: Gennaro "Genny" Savastano, unico figlio del boss Pietro, a capo di uno dei clan più importanti di Secondigliano.
Vero protagonista della serie tv Sky, Genny attraversa nei 58 episodi totali una profonda evoluzione psicologica, passando da adolescente viziato a boss patologicamente violento. E così anche Esposito è cresciuto e cambiato con lui. In una pagina che Sky ha acquistato sul Corriere della Sera, l'attore dice di avere dato tutto se stesso al suo personaggio, al quale oggi dovrà dire addio. Dopo parecchi morti (contando solo i cadaveri con nome e soprannome) e una quantità di doppigiochi, agguati, tradimenti, questa sera andranno in onda le ultime due puntate della quinta stagione di Gomorra, che poi è anche la stagione finale della serie. "Il tuo dramma è stato il mio dramma, le tue ferite hanno segnato anche me. Abbiamo vissuto ciascuno la vita dell'altro", scrive Esposito. "Amico mio oggi dobbiamo lasciarci, ma io e te non ci perderemo mai. Addio, Genna'". L'appuntamento è per venerdì 17 dicembre, su Sky e su Now, alle 21.15.
Perché Gomorra è stata un successo
In questi sette anni, Gomorra ha cambiato (in meglio) la televisione italiana e ha reso evidente, come scriveva Mariarosa Mancuso, che – almeno tra cinema e tv – è avvenuto un passaggio generazionale. "Vale anche in questo caso la regola stabilita da Aldo Grasso a proposito di Romanzo criminale: il film di Michele Placido era molto meglio del libro di Giancarlo De Cataldo, e la serie diretta da Stefano Sollima e prodotta da Sky era molto meglio del film. Un miracolo, in un paese che ha distorto il nobile termine 'fiction' fino a farlo diventare sinonimo di 'sceneggiato televisivo su santi e altri eroi nostrani, scritto maluccio e recitato peggio'. Un sogno, in una cultura ancora convinta che i libri mediocri, in genere scritti da giornalisti, siano collocati un gradino più in alto dei film fatti bene, e che i film mediocri, perlopiù propinati da registi-artisti, siano un gradino sopra qualsiasi serie tv, non importa quanto geniale e innovativa nel linguaggio".
E sempre Mancuso qui spiegava perché gli americani hanno comprato (e amato) la serie italiana sulla camorra. "Vendere una serie tv agli americani è un gran bel risultato. Sono maestri nell’arte che hanno inventato, e bisogna aggiungere che prima di Gomorrah – l’acca sta anche sulla copertina del libro di Roberto Saviano, edizione internazionale – i tentativi nostrani in questa direzione non avevano dato risultati memorabili. Se non per un pubblico che – fatte le dovute proporzioni, la battuta sull’audience riguardava certi tremendi talk-show in onda al mattino – 'ha perso il telecomando oppure aspetta che l’infermiera venga a cambiargli posizione'”.
Non solo. "Servono gli sceneggiatori bravi", scrive Mancuso, "anche se i camorristi pronunciano poche parole, quasi sempre in napoletano stretto e bisognose di sottotitoli – non andrà meglio quando la terza stagione si aprirà verso 'le Scampie d’Europa'. Vanno scritti – e sono difficili da girare bene – anche gli sguardi (raramente di complicità, qualche volta di intesa, più spesso di odio, sempre di sospetto). Vanno scritti i morti ammazzati in pose plastiche davanti alla cappella di famiglia. Vanno scritti i funerali in pompa magna, con gigantografia proiettata sul muro delle Vele di Scampia. Vanno scritti i carri funebri con le candele elettriche e l’oro barocco – fanno sembrare la casa dei Savastano un appartamentino minimalista".
Mentre Massimiliano Trovato, raccontava di come la serie smentisca la confusa e superficiale interpretazione economicistica del libro di Roberto Saviano, da cui è tratta, per concentrarsi sulle ben più ricche dinamiche politiche delle strutture camorristiche: l’idea che nella mafia si possa riconoscere il più perfetto esemplare di capitalismo realizzato.
Un altro dei segreti del successo di Gomorra? Forse lo ha trovato Andrea Minuz, che scrive: "Il successo di 'Gomorra la serie' cresce lì dove il film di mafia è diventato film di antimafia. Intrappolato nella retorica, nel messaggio, nella proiezione per le scuole. Invece 'Gomorra', coperto dal paravento della denuncia garantita dal brand Saviano, incarnazione suprema e approdo ultimo della cultura dell’antimafia, può strizzare l’occhio ai gangster di Scorsese e ai padrini di Coppola senza passare da don Puglisi. C’è il male senza il bene, come dice Saviano prendendola un po’ troppo sul serio, ma va bene".
Politicamente corretto e panettone