il telegiornale prima di sky tg24
Trent'anni di Tg5, spigliato e moderno come la Rai non sapeva più essere
Un contrasto abissale con l’immaginario parastatale di Viale Mazzini. Per alcuni quasi un sacrilegio, per altri quasi l'America. Età media trentuno anni, una redazione di quarantacinque giornalisti, con il “quaranta per cento di donne”
Per i nostri standard di allora era tutto molto “Cnn”. Il tailleur di Cesara Buonamici, il sorriso di Sposini, lo stile “caricatissimo e incalzante” di Mentana. Appoggiati al desk, disinvolti, rilassati, molto giovani. Nella foto d’epoca postata dal direttore su Instagram manca solo il tazzone di caffè americano in mano.
Un contrasto abissale con l’immaginario parastatale della Rai, come per quello scintillante, freschissimo giallo-limone della giacca pop di Cristina Parodi, impensabile addosso a Bruno Vespa. Era il 13 gennaio 1992. Nulla sarebbe stato più come prima. Velocità, rapidità, scioltezza furono subito il marchio di fabbrica di un tg che, per rimarcare la sua distanza da Roma, puntava più sulla cronaca e meno sulle liturgie della politica. “Un tg ansiogeno”, diceva Sandro Curzi riferendosi alla conduzione a mitraglia di Mentana, ma raccogliendo anche la diffidenza generale per un telegiornale fuori dal controllo istituzionale (saranno tutte notizie pilotate?). “Un tg dalla parte della gente, comprensibile a tutti, lontano dal Palazzo”, diceva invece il direttore, con una spruzzata di populismo che all’epoca non guastava, era ancora una promessa di svecchiamento.
Il tradimento del Tg1 era per molti italiani, e soprattutto per i nostri nonni, quasi un sacrilegio. Ma i sondaggi confermavano che il nord, Milano e la Lombardia in testa, erano assai insofferenti alla Rai e a quei servizi sempre con lo stesso campione di italiani, cioè abitanti del quartiere Prati, intervistati anche per fatti capitati a Brescia o Busto Arsizio. C’entrava la Lega, ovvio. Ma c’era più che altro una richiesta di modernità nello stile, nell’immagine, nel linguaggio delle news che la Rai non poteva intercettare. Volevamo anche noi quei tg come nei film americani, coi conduttori giovani, belli, spigliati, le facce da insegnanti di fitness più che da funzionari di viale Mazzini, e tutta una redazione in subbuglio alle spalle.
La redazione del Tg5 stava in una bella palazzina dell’Aventino, nella casa ceduta da Pippo Baudo a Fininvest, dopo il ritorno in Rai, per pareggiare i conti della sua uscita. Si andava in onda invece dallo studio due del Centro Safa Palatino, insieme alla seconda stagione di “Non è la Rai”, un titolo perfetto anche per il nuovo tg. All’Aventino mancavano i tavoli, e accanto alla stanza di Mentana c’era ancora la vecchia camera da letto di Pippo. Ma l’euforia era alle stelle: età media trentuno anni, una redazione di quarantacinque giornalisti, con il “quaranta per cento di donne”, come si riportava con orgoglio.
Arrivò subito la parodia (Corrado Guzzanti su “Avanzi”, in versione androide-replicante di Mentana, che leggeva notizie incomprensibili a velocità supersonica). Arrivarono anche gli endorsement: Camilla Cederna preferiva il Tg5 di Mentana, anche se il conduttore “parla troppo veloce”. Alberoni rilanciava con lo spostamento di una delle reti Rai a Milano, Andrea De Carlo si definiva “seguace del Tg5” perché “dà prova di velocità e riduce la deferenza per le informazioni di partito”. Poi arrivò Sky. Il Tg5 ci sembrò meno americano. I conduttori giovani e belli stavano adesso tutti su Sky Tg24. Succede sempre così in ogni rivoluzione e nell’eterno gioco delle avanguardie e delle retroguardie. È la dura legge del nostro sistema televisivo. Prima o poi arriva sempre qualcuno “meno Rai” di te.
La salute del piccolo schermo
La resilienza della tv generalista di fronte ai nuovi media
Politicamente corretto e panettone