"Landscapers", un delitto quasi perfetto tra centrotavola e poster cinematografici
Will Sharpe ha studiato ogni dettaglio, prima di dirigere la miniserie in quattro episodi in onda su Sky Atlantic. Una black comedy sull'idillio criminale di Susan (Olivia Colman) e Christopher (David Thewlis), sempre appiccicati, senza amici, isolati dal mondo e protettivi l’uno verso l’altra. Troppo, perché non ci sia sotto qualcosa
C’è un cinema britannico proletario che Ken Loach ha sempre coltivato sul versante tragico e Terence Davis su quello elegiaco, prima che la regista Andrea Arnold puntasse sullo sporco realismo. (Per l’horror e il gangster movie rivolgersi a Joe Cornish e a Ben Wheatley). Casermoni o casette con giardino tutte uguali, tappezzerie gialline o marroncine, poco riscaldamento, centrini e scialletti, vestaglie lise e pantofole scalcagnate, brutti cardigan o maglioni con le greche.
Will Sharpe ha studiato ogni dettaglio, prima di dirigere “Landscapers - Un crimine quasi perfetto” (miniserie in quattro episodi in onda su Sky Atlantic, on demand e in streaming su Now tv). Attore, sceneggiatore, regista, ha 35 anni e fino a quando ne aveva otto ha vissuto a Tokyo con la madre giapponese. Il copione glielo ha servito lo sceneggiatore Ed Sinclair, marito di Olivia Colman che già aveva lavorato con Will Sharpe in “Flowers”: altra premiata black comedy familiare del 2016 (inutile cercarla sulle piattaforme streaming che paghiamo, per fortuna nel frattempo su Prime Video è arrivata “Schitt’s Creek”, c’è speranza).
I centrotavola e il tè delle cinque attirano i delitti. All’inizio vediamo il maturo idillio tra Susan (Olivia Colman) e Christopher (David Thewlis, lo spilungone nei film di Mike Leigh) sperduti in terra francese. Lui cerca lavoro, lei tiene in ordine un misero quartierino e gli stira l’unica giacca, con la lingua se la cavano malissimo. Negli intervalli, con i soldi che già scarseggiano, Susan compra poster e memorabilia cinematografici, oppure scrive lettere a Gérard Depardieu, attore preferito da entrambi. Sempre appiccicati, senza amici, isolati dal mondo e protettivi l’uno verso l’altra. Troppo, perché non ci sia sotto qualcosa.
Ripetono ossessivamente “basta dire la verità”, ma la verità stentano ad accertarla anche i poliziotti. Le scene dell’interrogatorio sono bellissime, ironiche nei battibecchi tra la giovane agente e un capo che pensa solo ai titoli sui giornali. La messa in scena teatrale a colori psichedelici finalmente fa dire: ecco un regista di miniserie che fa il suo mestiere, con occhio cinematografico. Aiutano i western amati dalla coppia, proiettati sui muri. Guardati con trepidazione da Susan, convinta che prima o poi John Wayne avrebbe mollato Grace Kelly per correre da lei e salvarla da una vita noiosa, come nella “Rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen. Nelle serie con gli interrogatori, solitamente la messa in scena è scolastica, unica variazione l’inquadratura dall’alto. C’è anche qui, ma la macchina delle indagini procede a scatti, con gli agenti che sembrano scommettere sulla colpevolezza dell’uno o dell’altro. Si passa da un set all’altro, con i tecnici intorno.
I coniugi decidono di costituirsi, nella ricostruzione televisiva sono così al verde che si fanno pagare il biglietto del treno sotto la Manica. Comincia la faticosa ricostruzione dei fatti, con David Thewlis costretto a una vistosa parrucca per sembrare un solitario giovane contabile che incontra una solitaria giovane bibliotecaria. Entrambi potrebbero aver già sterminato le rispettive famiglie, o avvelenato vecchietti, se la fisiognomica cinematografica contasse qualcosa.
I veri coniugi Susan e Christopher Edwards si sono dichiarati sempre innocenti, e pur tuttavia condannati a 25 anni di carcere. Quindici ne erano passati dal delitto, scoperto per colpa di una pensione troppo a lungo incassata. Il beneficiario aveva ormai cent’anni, a Mansfield nel Nottinghamshire (e nell’Inghilterra tutta, anche la regina Elisabetta avrebbe mandato un bigliettino) volevano festeggiarlo e non c’era nessun vegliardo da esibire.