i contestuali

La falsa complessità è il rifugio degli opinionisti

Francesco Cundari

Gli opinionisti parlano in libertà ma poi guai a “mettergli in bocca cose che non hanno detto”. Il contesto sta al portatore della tesi come l’anello di fidanzamento sta all’innamorata: non le puoi dire di metterselo da sola

Il problema è sempre il contesto. Mai il testo, quello che dice o che non dice, in modo esplicito o implicito, ma sempre quello che lo accompagna. O meglio, che dovrebbe accompagnarlo. Perché l’aspetto bizzarro di tante discussioni è che il contesto, specialmente in tempo di guerra, quando gli animi si accendono e i discorsi si confondono, è una specie di convitato di pietra, che tutti aspettano ma che, a differenza del personaggio letterario, non si presenta mai. 
E’ come certe attenzioni nelle liti tra innamorati: se te lo devo dire io, significa che è già tardi, adesso è inutile che insisti. Dovevi pensarci prima tu, doveva venirti spontaneo. 


Il contesto sta al portatore della tesi – tesi ovviamente non convenzionale, non allineata al pensiero unico dominante, non mainstream (perdonate la parola) – come l’anello di fidanzamento sta all’innamorata: non le puoi dire di metterselo da sola. Se non glielo metti tu, nel momento in cui esponi la dichiarazione, se cioè sei tu che decontestualizzi, poi non puoi stupirti se il portatore della tesi non convenzionale e non mainstream (scusatemi ancora) giustamente se ne risente. E a quel punto è puerile e anche assai scostumato replicare che il contesto può metterlo lui. Ma soprattutto è inutile. Perché quando riprenderà la parola, evidentemente, la vittima della decontestualizzazione non potrà che pronunciare altre affermazioni, altre circonlocuzioni, necessariamente altrettanto elaborate, e non appena i presenti proveranno a replicare, sicuri di non sbagliare, attenendosi proprio a quelle parole, immediatamente scopriranno che anche quelle, ovviamente, hanno bisogno di un contesto, e l’interlocutore si risentirà ancor di più, vedendosi per l’ennesima volta così platealmente e così spudoratamente decontestualizzato. E a forza di risentirsi oggi e risentirsi domani, come al solito, non gli avanzerà un minuto per sentire gli altri.
Consapevole dunque dell’impossibilità di qualunque spiegazione, e del fatto che anche gli esempi e le dimostrazioni più circostanziate convinceranno solo i già convinti, riporto la trascrizione di alcuni recenti dibattiti in cui la questione del contesto e della decontestualizzazione, della sintesi fedele o infedele del pensiero altrui è emersa nel modo più singolare, e direi sintomatico.


Piazzapulita”, La7, 31 marzo. Lo storico Angelo d’Orsi dice testualmente (riporto senza tagliare nulla, nemmeno le naturali imperfezioni del parlato, che sono costretto a lasciare per evitare il rischio, voi capite, di decontestualizzare anch’io): “La mia spiegazione di questa guerra: è una guerra che gli Stati Uniti hanno messo in piedi, hanno fatto in modo che Putin abboccasse, lui ha fatto un po’ come Saddam Hussein che occupa il Kuwait, perché gli Stati Uniti stanno perdendo la loro egemonia, non accettano la trasformazione del mondo unipolare post ’89 in un mondo multipolare, non accettano e sono preoccupati dei rapporti buoni che si stavano costruendo o erano in costruzione tra Europa e Russia, e in prospettiva Cina, e la guerra significa, vale a separare l’Europa dalla Russia; e che l’Europa lo accetti, e l’Unione europea caschi in questa trappola, mi pare gravissimo, perché le conseguenze le pagheremo noi, no? Questa è la cosa”.
Il conduttore, Corrado Formigli, a questo punto dà la parola al giornalista di Repubblica Stefano Cappellini, che così comincia a replicare: “E’ bella questa teoria di Putin utile idiota degli Stati Uniti, è notevole, insomma, no? Putin è un alloccone. La sostanza, la complessità del ragionamento è che Putin è un alloccone, che ha abboccato a una…”.
D’Orsi: “Ho detto questo?”.
Cappellini: “Beh, sì…”.
D’Orsi: “Chiedo al pubblico: ho detto questo?”.
Cappellini: “Beh, sì, l’ha detto molto chiaramente…”.
D’Orsi: “No, l’ha detto Cappellini…”.
Cappellini: “L’ha detto lei, ha detto Putin…”.
D’Orsi: “No, l’ha detto Cappellini…”.
Cappellini: “No, no, l’ha detto molto chiaramente: Putin è cascato nel tranello degli Stati Uniti…”.
Le voci si sovrappongono, mentre Cappellini continua a parlare, si aggiunge, solidale con d’Orsi, in tono amareggiato, il giornalista del manifesto Alberto Negri (cofirmatario di un appello di dieci giornalisti contro il modo unilaterale in cui si starebbero dando le informazioni sulla guerra): “E’ molto difficile però spiegare, eh…”.
D’Orsi: “E’ difficile spiegare, è difficile spiegare”.
E qui, nella mia fantasia di spettatore, inevitabilmente, alla voce del professor d’Orsi si è sovrapposta quella di Fiorella Mannoia: “E’ difficile spiegare, certe giornate amare, lascia stare”. Ma anche quella di Francesco Guccini: “Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già”. E ho spento.


Secondo episodio. Omnibus, La7, 5 aprile. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, dice: “Questa guerra non si è accesa per caso ma, come ho scritto stamattina nel mio editoriale, perché nessuno, e quando dico nessuno intendo proprio nessuno, ha saputo e voluto impedirla”. Segue discorso sugli errori di Putin che “sono evidenti” e la necessità di non etnicizzare il conflitto, parlando ad esempio della crudeltà dei “ceceni”, quindi Tarquinio, riferendosi anche a quanto detto nella stessa trasmissione dal direttore dell’Ispi, Paolo Magri, aggiunge: “Sulla questione dell’uso propagandistico delle immagini è stato detto molto bene da Magri che l’uso delle immagini della guerra può essere molto strumentale, ma tutte le guerre sono così. Io non ne conosco una diversa, e quando c’è la battaglia strada per strada, nelle città sono questi i meccanismi che si producono, così vengono ammazzate le persone. Poi sull’uso delle fosse comuni sono d’accordo perfettamente con quello che è stato detto anche da Tonia Mastrobuoni e da altri. Bisogna stare molto attenti, perché io sono ancora scottato da quello che accadde in Libia, quando cademmo tutti nella trappola delle fosse comuni che erano state sciorinate agli occhi del mondo e poi scoprimmo che era una montatura pazzesca, che giustificò un attacco alla Libia con tutto quello che ne è seguito…”.
Il dibattito prosegue con altri interventi. Quindi la parola passa a Luciano Capone, che dice: “A me sembrava, dell’analisi fatta prima dal direttore Tarquinio, sono rimasto a tratti sconcertato, perché dire, vabbè, che tutte le guerre sono uguali, è vero, diciamo, ci sono tragedie in tutte le guerre. Però qui si sta parlando di questa guerra nello specifico, dove non vedo un uso propagandistico delle immagini, nel senso, questi non sono dossier preparati dal governo ucraino e fatti filtrare alla stampa, come dire, impacchettati. Lì c’è tutta la stampa internazionale, ci sono corrispondenti, giornalisti italiani che con i loro occhi vedono, raccolgono testimonianze e autonomamente stanno riportando non la versione del governo ucraino, ma quello che viene raccolto sul campo. Quindi mi pare, cioè, non capisco, come dire, anche ipotizzare l’idea che questa cosa sia stata orchestrata, in qualche modo apparecchiata dal governo ucraino a fini propagandistici mi lascia un po’ basito, come dire che siamo in questa guerra tutti responsabili allo stesso modo perché tutti hanno voluto la guerra o nessuno l’ha impedito…”.
Magri: “No no no no no”.
Tarquinio: “Capone, non si permetta di dire queste cose”.
Magri: “Ma chi ha detto questo?”.
Capone: “Come?”.
La conduttrice, Alessandra Sardoni (a Tarquinio): “No, però che modo è…” 
Tarquinio (a Capone): “Non si permetta di attribuire a me cose che non ho detto”.
Segue battibecco sui toni, i modi, “io le ho dato del lei” e cose del genere, di cui faccio grazia al lettore, consapevole di averla già fatta troppo lunga. Anche perché, a ben vedere, certe crisi son soltanto segno di qualcosa dentro, che sta urlando per uscire (Guccini, ibidem, per la verità qui un po’ decontestualizzato anche lui, sperando che non se ne risenta, e soprattutto non mi chieda i diritti).


Se questo è quanto accade normalmente in tv, va ancora peggio sulla carta stampata. In molti, per esempio, hanno levato proteste indignate per un articolo del 3 marzo in cui Gianni Riotta, su Repubblica, parlava dei cosiddetti Putinversteher (come li chiamano ironicamente in Germania, dal verbo “verstehen”, capire, che dunque potremmo tradurre con “capitori di Putin”: insomma, quelli che dicono sempre che bisogna capire le ragioni di Putin), in particolare per avere citato in quel contesto – per l’appunto – Barbara Spinelli, e avere riportato il fatto che un suo scritto fosse stato “rilanciato, con applausi, dai social media dell’Ambasciata russa a Roma,  ‘Putinversteher’ con bollo diplomatico”. Apriti cielo.  
Circa un mese dopo, sul Fatto del 6 aprile (sempre per contestualizzare, il giorno dopo il dibattito Tarquinio-Capone a Omnibus), Spinelli scrive quanto segue: “Verrà forse il giorno in cui sapremo qualcosa di meno impreciso su quel che è successo a Bucha presso Kiev: chi ha ucciso in quel modo? I russi hanno voluto lasciare questo ricordo nel ritirarsi dalla città il 30 marzo, cioè 4 giorni prima della scoperta del macello? Perché? Come mai il sindaco di Bucha ha annunciato il 31 marzo che in città non c’erano più truppe russe e non ha accennato ai civili uccisi in strada con le mani legate dietro la schiena? In attesa di prove genuine, ci concentreremo dunque sulle grandi trasformazioni indicate all’inizio”. 
Le grandi trasformazioni indicate all’inizio sono in gran parte le stesse citate da d’Orsi sulla crisi dell’unipolarismo americano – ci torno tra un paio di capoversi, abbiate pazienza – ma prima bisogna fermarsi su “in attesa di prove genuine”. Evidentemente, quelle esposte da tutti i giornalisti italiani e stranieri che hanno ripreso i corpi, parlato con i testimoni e raccontato nel dettaglio tutto ciò che hanno visto con i propri occhi, per non citare immagini satellitari e organizzazioni umanitarie, per Spinelli tanto genuine non devono essere
E qui sembra proprio di sentire il giudice Riches del romanzo di Leonardo Sciascia (“Il contesto”, ovviamente), che dice all’ispettore: “Il suo mestiere, mio caro amico, è diventato ridicolo. Presuppone l’esistenza dell’individuo, e l’individuo non c’è. Presuppone l’esistenza di dio, il dio che acceca gli uni e illumina gli altri, il dio che si nasconde: e talmente a lungo è rimasto nascosto che possiamo presumerlo morto. Presuppone la pace, e c’è la guerra… Questo è il punto: la guerra… C’è la guerra: e il disonore e il delitto debbono essere restituiti ai corpi della moltitudine, come nelle guerre militari ai reggimenti, alle divisioni, alle armate. Puniti nel numero. Giudicati dalla sorte”. E se il mestiere dell’ispettore è diventato ridicolo, figuriamoci quello del giornalista


Quanto alle “grandi trasformazioni” citate all’inizio dell’articolo di Barbara Spinelli, si tratta della “fine della dominazione geopolitica degli Stati Uniti”, del “possibile tramonto dell’egemonia globale del dollaro”, infine di “un conflitto tra produttori di gas e petrolio che scalzando gli abituali protagonisti sembra avvantaggiare in primis gli Stati Uniti, potenziale esportatore numero uno che profittando dei torbidi ucraini promette di rifornire l’Europa di gas naturale liquefatto”. Tutte cose che saranno possibili, guarda un po’, “se la guerra in Ucraina continua a lungo”. Di qui il titolo: “Biden vuole la guerra lunga” (come si vede, la tesi del Putin “alloccone”, che casca in tutte le trappole americane e fa esattamente quello che vuole Biden, continua a fare proseliti).
Va detto che spesso i contestualizzatori non sono altrettanto pignoli e delicati con il pensiero altrui. Ecco ad esempio come Spinelli, in quello stesso articolo, critica il segretario del Pd: “Pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c’è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai)”.
A Letta, a quanto pare, non è concesso il beneficio del dubbio, e tantomeno del contesto. La sua posizione, infatti, non è ulteriormente, anzi minimamente, contestualizzata. Il fatto poi che nei giorni successivi sia divenuta la posizione ufficiale del Parlamento europeo, a larghissima maggioranza, immagino sarà una prova del fatto che anche i parlamentari europei, di quasi tutti i partiti, sono un po’ dei bambini. O magari, pure loro, degli allocconi.