Addio all'icona
Noi e Chaterine Spaak
Le molte vite e i molti doppi di un modello per le donne a cui faceva un po’ invidia e un po’ soggezione, inaccessibile al maschio
Quante vite ha vissuto, o quanti doppi ha avuto, Catherine Spaak? Attrice di cinema e televisione, cantante e soubrette, conduttrice televisiva o per meglio dire inventrice del salotto in tv. Bellissima scoperta sedicenne dello scopritore di sedicenni Lattuada, a diciassette era già icona, nel suo nuovo paese adottivo, nel Sorpasso in mezzo a Gassman e Trintignant. Apparizione diafana in paesaggio mediterraneo, non era un fiore selvaggio spuntato dal niente, come spesso le giovani donne nel cinema, ma una ben coltivata figlia di Francia, con attori e artisti in famiglia e anche uno zio primo ministro, per quanto del Belgio, a giustificare un’innata conoscenza dell’uso di mondo e della schermaglia dei sessi. Una libertà di giovane donna, così diversa dai “nostri” primi Sessanta, che era sua, che le era assicurata nel Dna come una parte di dote e di corredo. Così che alle sue coetanee italiane faceva un po’ invidia e un po’ soggezione; e per i maschi italiani in libera uscita dai “poveri ma belli”, ma non ancora affrancati nel mondo nuovo, era oggetto desiderabile e irraggiungibile, esotico.
La questione del doppio, al cinema, la intuì molti anni dopo Alberto Sordi, il prototipo di tutti i maschi italici impacciati nel proprio desiderio, annodati nel loro dongiovannismo mammone. Sordi la volle partner in Io e Caterina, ma Caterina non era però lei, oggetto eponimo del desiderio, era invece un improbabile robot di sembianza e (malauguratamente) anche di psicologia femminile. Insomma nella sceneggiatura inconscia Caterina era una Catherine domata, a disposizione. Andò male anche in quella versione tech, per l’Uomo Medio, in un film tra i suoi meno riusciti. Ma resta la metafora trasparente di come Catherine l’avrebbero preferita, gli italiani.
Nelle sue molte vite, con la celebrata eleganza, Catherine Spaak ha camminato non sfiorata da queste banalità. Ha fatto il cinema, ha inciso una manciata di singoli di successo e provato il teatro leggero, in televisione con Antonello Falqui. Ma finiti gli anni d’oro delle commedie e del fascino della ragazza di classe venuta dal nord, la seconda vita, o il doppio in cui Catherine Spaak ha espresso il suo lato migliore – ancora, a un tempo fatto di fascinazione e di un poco di timore reverenziale da parte del pubblico, lei così lontana da certe popolanerie (e non parliamo della televisione di adesso) – è stata proprio il ruolo di conduttrice televisiva. Di signora del salotto televisivo, anzi iniziatrice, del genere del salotto femminile. Prima di lei non esisteva, e dopo di lei venne il diluvio, non sempre ben arginato. Fu la Raitre di alta sperimentazione di Angelo Guglielmi a offrirle l’occasione di “Harem”, un talk tutto femminile – l’uomo (famoso) ridotto al rango di ospite e uditore misterioso di chiacchiere e confidenze. Nessuna vita rubata e nessun turpiloquio dei sentimenti, nel tono e nella mano sicura per la conversazione della padrona di casa c’era invece un filo di perle di ironia, di lievità. Una tv di storie di donne, non una tv delle ragazze.
Anni dopo raccontò che sul set dell’Armata Brancaleone di Monicelli e in altri set-caserma della commedia italiana fu terrorizzata dalle battute volgari e da mani volanti date per normalissime. Forse anche questo contribuì a scegliere per il suo doppio più padrone del suo destino. Come raccontò nella sua autobiografia, fatta come a frammenti di un discorso non sempre amoroso, che si intitola Da me, che ne rivelò un diverso, ulteriore doppio.
Era nata a Boulogne-Billancourt, Île-de-France, nel 1945. E’ morta domenica a Roma.
Recensire Upas