(foto di Ansa)

populismi ante litteram

Rai 3 è l'enclave felice della televisione italiana

Andrea Minuz

Il terzo canale della tv pubblica è una “Dynasty” postcomunista dove tutto è consentito e alla quale tutto si perdona. Da Curzi e Santoro alla saga dei Berlinguer. Il populismo grillino è nato qui

Il caso “#Cartabianca” va avanti ormai da settimane. Tra un dibattito ostinatamente bambinesco sull’invio di armi in Ucraina, mandato in loop per cinquantuno giorni, tra lo scatenamento a briglia sciolta di Orsini e il sospetto di connivenze, faziosità e concorso esterno in cazzeggio in libertà, il caso s’è man mano ingigantito. E’ sconfinato in esame di coscienza collettivo sui talk-show, battibecco a mezzo stampa, dossier per la commissione di vigilanza Rai e infine succosa saga famigliare, con contesa sul buon uso del cognome “Berlinguer”. Il cugino Luigi sconfessava Bianca (“Il nostro cognome va protetto e tutelato come un pezzo di cristallo, bisogna farne manutenzione continua”), tirando fuori con quel “Manutenzione Continua” un gran nome per un nuovo, eventuale partito della sinistra antagonista.

 

Bianca invece lo rimetteva subito a posto: “E’ un cugino di secondo grado” (tiè), “non lo vedo dal giorno del funerale di papà”. Immancabile, come in ogni saga famigliare, arrivava poi la lettera: “Cara Bianca, non sono riuscito a parlarti al telefono, quindi ti scrivo queste poche righe” (pare in effetti impossibile parlare con la Berlinguer: non si vede col cugino dall’84, dice di non sentire il direttore Franco Di Mare da un anno e mezzo, neanche per telefono: sarà il Covid che allenta contatti e amicizie, o forse parla solo con Orsini e Mauro Corona). La saga a questo punto stuzzica la curiosità del pubblico. Come una “Dynasty” o una “Succession” postcomunista. Potrebbe essere un bel reality per Rai 3: dopo i Kardashian e i Ferragnez o il film sui “Rossellini”, “The Berlinguers”, all’anglosassone, per venderlo anche a Netflix. 

 

Sullo sfondo delle polemiche, o delle esternazioni assai esplicite di Franco Di Mare sui “programmi di approfondimento in cui si invita gente che dice che 2+2 fa 5”, s’agita però lo spettro della gran confusione della rete. Una crisi d’identità radicata nella fine del bipolarismo. Perché l’uscita di scena del berlusconismo è stata per Rai 3 quel che il crollo del muro di Berlino fu per il Pci: la fine di un sogno. Da quando, nel marzo del 1987, Biagio Agnes e Enrico Manca incontrarono un giovane Veltroni in un ristorante romano per regalare una televisione nuova di zecca a Botteghe Oscure e far entrare i comunisti in Rai, com’era nella logica della lottizzazione perfetta, Rai 3 è stata tante cose. E’ stata la televisione delle piazze in subbuglio incendiate da Santoro, la start-up di tutte le indignazioni contro la “casta”. E’ stata Telekabul e l’emblema di una televisione scomoda, sfrontatamente faziosa, riflessiva, “diversa”. E’ stata il baluardo della resistenza televisiva al berlusconismo e alle continue “emergenze democratiche” del paese, la media di una a settimana (forse anche l’Anpi arriva un po’ confuso a questa guerra, sfiancato da vent’anni d’emergenze democratiche).

 

Si è ritagliata il ruolo di televisione-verità, col bollino della “qualità”, il monopolio della rappresentazione della “realtà” (“Rai 3 si ispira a Pasolini”, ricordava spesso il padre fondatore Angelo Guglielmi, “la realtà va raccontata con la realtà e non con le parole”). Rai 3, insomma, come una prosecuzione televisiva della “questione morale”, con Angelo Guglielmi nel ruolo di faro ideologico, nume tutelare, modello inarrivabile. Un Gramsci prestato al palinsesto. Rai 3 aveva la satira intelligente e irriverente, gli approfondimenti, la cultura, ma anche Augias, Raffai, le telefonate da casa, Chiambretti nella sua fase più vitale e dadaista, Guzzanti, Ghezzi, il cinema d’essai a notte fonda, e molto altro.

 

Oggi rivendica anzitutto l’imprimatur su modi, usi e costumi dell’inchiesta giornalistica. Quella a viso aperto, schiena dritta, con la scorta al conduttore. Contro tutte le mafie, il potere, la finanza, le lobby, la politica corrotta, gli appalti, le tangenti. Ma in un mondo e una televisione che cambiano alla velocità di un missile supersonico, direbbe Dibba, la sacralità di Rai 3 e le magnifiche sorti e progressive della “Terza rete” sembrano sbiadite. Qual è, esattamente, la differenza tra “#Cartabianca” e tutti gli altri talk-show? A parte il canone, in cosa si distingue il metodo “Report” dal metodo “Iene”?  Ma la superiorità etica di Rai 3 era implicita anche nel celeberrimo aforisma anonimo, degno di Flaiano, “in Rai entrano un democristiano, un socialista e uno bravo”. Quello bravo, evidentemente, era comunista. La Dc e il Psi raccomandavano. Quella di Botteghe Oscure era una “chiamata”. In ballo non c’era un posto fisso, ma una “missione”. E la dolenza della missione, la responsabilità di “portare avanti un certo discorso” si vedeva tutta. Con l’eccezione di Sandro Curzi (il più comunista di tutti, con stage a “Radio Praga”, che apriva il tg con editoriali che sembravano relazioni congressuali, ma con una debordante romanità guascona e strafottente che sopraffaceva la linea di partito, facendolo piacere un po’ a tutti, a destra come a sinistra) il telegiornalista di Rai 3 era rigorosamente antipatico. Era un marchio di fabbrica e lo è ancora.

 

Come nel titolo del fortunato pamphlet di Ricolfi di qualche anno fa (“Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori”). E il più antipatico di tutti, orgogliosamente, superbamente antipatico, era naturalmente Michele Santoro. “Samarcanda” è la madre di tutti i talk-show di oggi, inclusi quelli del pianeta Rete 4. Paradigma del “programma scomodo” della tv italiana, trasmissione che dava “voce allo sdegno delle gente comune che non ne può più”, “Samarcanda”, come diceva a quei tempi Santoro, “arrivava al cervello attraverso la pancia”. Per chi non c’era, ecco una puntata a caso della quinta stagione. Tema: “Perché la gente non ha più fiducia nei partiti?”. Svolgimento: “Parleranno il segretario del Pri, Giorgio La Malfa, e gruppi di tre categorie sociali: commercianti di Ostia, disoccupati calabresi, giovani di confindustria. Per i collegamenti esterni, da Gorizia, un gruppo di operai dell’acquedotto, in attesa del rinnovo dei contratti, inviterà i cittadini a tirare lo sciacquone tutti insieme in segno di protesta” (Corriere della Sera, 13 novembre 1991). Nel frattempo, gli intellettuali in studio, Flores D’Arcais, Pietro Scoppola, Toni Muzi Falcone, dovevano scrivere con i suggerimenti della piazza in diretta, il “manifesto del partito che non c’è”, in sintesi “più potere ai cittadini, meno ai politici”.

 

 

 

Prove generali del Vaffa Day. Perché a differenza del comunistissimo Curzi, l’ex-maoista Santoro, redattore di Servire il popolo, catapultato dalle barricate alla Rai nel 1982, non parlava in nome di un partito ma era una pura emanazione della “gente”. La sua investitura era “la piazza”. “La gente mi ha trasferito una quota di fiducia sull’informazione, sottraendola ai partiti e vive ‘Samarcanda’ come una cosa sua”, diceva Santoro. “Io non posso tradire il pubblico, io vivo nel rapporto con il pubblico, non ho altra ricchezza”.  Da Servire il popolo a servire il pubblico. Lo slittamento dalla retorica della sinistra operaista a quella grillina era già tutto in “Samarcanda” (e la nomina di Franco Di Mare, teoricamente in quota M5s, chiamato a dirigere di Rai 3, è la quadratura del cerchio, l’approdo inevitabile di un percorso iniziato in quegli anni). Secondo un ego-trip radicatissimo nel costume nazionale dall’impresa di Fiume in su, che la televisione tende ad amplificare, Santoro iniziò a sentirsi “artista”: “Adesso ho una natura a metà tra il giornalista e l’artista” (1992). Così gli viene l’idea di uno studio immerso in un buio molto brechtiano, molto “off-off”, che gli permetteva di “usare il corpo come una macchina da scrivere”, e che oggi si ostenta un po’ ovunque nella tv di approfondimento.

 

Al “teatrino della politica” Santoro ha sempre opposto un teatro di ricerca e sperimentazione (“Ho preso in prestito da Pina Bausch l’immagine delle sedie ribaltate sulla scena per frantumare il salotto televisivo e provare a cambiare il ritmo della narrazione”, spiegava presentando l’ultima stagione di “Servizio pubblico”). Arte, sperimentazione, agit-prop, ricerca, giornalismo d’inchiesta. Nel santorismo c’è tutto. Ed è assai istruttivo rivedersi oggi, su RaiPlay, le puntate di “Samarcanda” all’epoca della guerra del Golfo, coi cartelli bene in vista, “contro la dittatura Usa e la Dc”. Corsi e ricorsi. Di fronte alle puntate di “Samarcanda”, Vespa diceva: “Sono le solite trasmissioni a tesi, se le facessi io, sarei appeso agli alberi di piazzale Clodio, oppure avrei l’assedio sotto via Teulada. Evidentemente c’è chi gode di una diversa immunità”. E in questa diversa immunità si tocca in effetti un punto chiave dell’appartenenza a Rai 3.

 

A “Parliamone sabato”, Paola Perego sfodera una schermata con una lista intitolata “Motivi per scegliere una fidanzata dell’est” (uno a caso: “Sono casalinghe perfette e sin da piccole imparano i lavori di casa”). Ondata di sdegno nazionale, gogna, chiusura della trasmissione, lacrime di Paola Perego. Niente di simile, ma neanche lontanamente paragonabile, per quel fuorionda un po’ stridente con le prime immagini dell’invasione russa, “ucraini popolo di camerieri, badanti e amanti”, del duo Annunziata-Di Bella. Ma si era, appunto, in uno speciale del Tg3. Bastano le scuse. Amici come prima. Ai migliori, o a “quello bravo”, perdoniamo tutto. Ci si può muovere anche in modo più spregiudicato. Non a caso, l’unico format che oggi tiene in vita la “missione” di Rai 3 è “Report”. Giornalismo a tesi, come si sente dire spesso, ma soprattutto macchina ideologica implacabile, che di puntata in puntata costruisce un cattivo da dare in pasto allo spettatore, rifornendolo della sua dose di indignazione settimanale. Un uso apertamente politico dell’inchiesta, con momenti di puro imbarazzo televisivo, come nelle puntate su Renzi e Berlusconi, peraltro tenute insieme dallo stesso fil rouge.

 

Nella puntata dell’autogrill dei complotti, a Fiano Romano, con “l’uomo dei servizi” che incontrava Renzi nel parcheggio, lo scoop, cioè il video recapitato a “Report”, era stato un colpo di fortuna. Reso possibile grazie a una prolungata sosta ai bagni del papà dell’insegnante che nell’attesa (e forse per vendetta contro la “Buona scuola”) filmava Renzi. Galeotto fu il cagotto che ritornava puntuale anche nella puntata post-datata sul Cav., con lo “scoop” su Noemi Letizia (titolo, “Il paese che amo”). E lo scoop era Noemi Letizia, chiusa in bagno ad Arcore, durante una festa, colpita da un violento attacco di diarrea, “inorridita da quel che aveva visto”. Più che macchina del fango, vabbè, avete capito. Qualcuno fece anche notare che in studio, alle spalle di Ranucci che parlava del Cav., campeggiava un profilo assai vistoso del Duce. Ma certo era solo una coincidenza. Anzi quello non era Mussolini ma, come spiegò Travaglio sul Fatto, “solo una foto di un uomo qualsiasi messo di profilo, presa dall’agenzia Getty Images”. Guai a indignarsi. L’inchiesta è sacra, intoccabile, l’espressione purissima della libertà di parola. Un po’ come il “pluralismo” che oggi i conduttori dei talk-show, Berlinguer in testa, brandiscono in difesa del proprio circo. 

 

Vedendo l’altra sera Orsini entrare in studio a “#Cartabianca”, il sorriso scintillante, il passo spedito, smanioso d’andarsi a prendere la sua mezz’ora di celebrità, ci è venuta in mente una modesta proposta. Si sa che, su invito di Alberto Barachini, è all’ordine del giorno un pacchetto di regole per riequilibrare il sistema dei talk-show. Si discute intorno a cinque punti che dovrebbero contenere le degenerazioni del “pluralismo”, visto all’opera col Covid e poi, di nuovo e anche peggio, con la guerra in Ucraina: ospiti competenti (vabbè); rotazione degli opinionisti; niente compenso; evitare l’effetto derby; verifica delle fonti (ve lo ricordate? Il primo risultato del “portiamo il fact-checking in tv!” fu la vittoria di Trump). Basterebbe invece una sola mossa: Anziché entrare da un corridoio tra il pubblico o da dietro le quinte, si facciano scendere gli ospiti da una scala, come a Sanremo. Meglio se con stacchetto dell’orchestra. Un piccolo dettaglio scenotecnico ma un grande balzo in avanti per un dibattito finalmente liberato d’ogni equivoco tra palco e realtà.

 

Ecco Wanda Orsinis, vestito come Fred Astaire, sottobraccio a due soubrette russe della Tass. Ecco Donatella Di Cesare in total black, circondata da uno stuolo di old boys dell’Anpi, tra sventagliate di rose baccarat al pubblico che applaude. Messe subito le cose in chiaro, a quel punto vale tutto. Seduti sui loro sgabelli in plexiglas gli ospiti potranno permettersi ogni funambolica equidistanza e numero sbalorditivo: capovolgere i fatti, darsi ragione da soli, sprofondare nella fumisteria della complessità, scambiare l’aggredito con l’aggressore, le democrazie occidentali con le autocrazie postcomuniste, le bombe di Putin con le esercitazioni della Nato, e rivendicare la custodia sacra e inviolabile della “resistenza”, parola che giammai potrà usarsi per gli ucraini (peraltro nazisti), come ogni volta, arrabbiandosi anche parecchio, ci ricorda la filosofa Di Cesare. Una scala in studio a “#Cartabianca”, per aprire una nuova era dei talk-show. E tornare a “sperimentare” sulla Terza rete, come ai bei tempi di Angelo Guglielmi