Per un pugno di share
La televisione non è al servizio dei russi o della Nato. Con il canone o senza, è prima di tutto al servizio di se stessa. Guardate i talk-show. Sfide alla “O.K. Corral” per grattare il fondo del barile di un palinsesto che non ce la fa più
Si aprono le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti”. Un’Italia sepolcrale riemerge dall’abisso, come in un sortilegio, per rianimarsi e agitarsi nei talk-show, luogo del pensiero magico, del sommerso ancestrale, dell’eterno ritorno dell’uguale. Riecco la banda Santoro, al gran completo e in gran forma, come ai beati anni dello sfrenato agit-prop anti Cav. Riecco le risse, gli spintoni, i calci in culo al Costanzo Show, col catfight tra Mughini e Sgarbi sull’autonomia dell’arte nelle tournée russe di Al Bano, dissidente amareggiato (“ero un grande fan di Putin, ma non tornerò a cantare per lui”). Riecco, come in una partitura condivisa, mandata a memoria da tutti, segni, mosse, automatismi del lessico nazionale: Alan Friedman entra in studio, pulisce la sedia dov’era prima Conte, aggiornando il gran gesto di Berlusconi all’epoca della sanificazione preventiva. Linguaggi, comportamenti, slogan, maniere. Un patrimonio artistico che il mondo ci invidia, tramandato di generazione in generazione.
I talk-show sono quelli di sempre
Si era partiti, in questo racconto televisivo della guerra che parla soprattutto di noi, contestando e denunciando il “pensiero unico”, la “narrazione mainstream”, il “maccartismo”. Si è arrivati ai pezzi grossi del Cremlino in prime-time. La posta in gioco si alza. L’escalation della guerra è irrefrenabile. La televisione italiana è una troll-factory in cerca del colpaccio. Per superare a destra e a sinistra l’imprendibile Orsini, funambolico talento dei talk-show e probabile pallone d’oro della stagione, si passa direttamente da Lavrov, sull’asse Mosca-Rete 4. Meglio l’originale, giustamente. E per l’ennesima volta ci si domanda in coro se esista un’anomalia italiana, una spregiudicatezza tutta nazionale nel dibattito sulla guerra, dove ci si scalda per l’allargamento della Nato ma si tentenna sulla Z di Putin. Se, insomma, ci sia un “caso talk-show”. Ma i talk-show, come Santoro, non sono mai cambiati. Sono quelli di sempre. Di Lavrov si è scritto e si è parlato in abbondanza per tutta la settimana, tirando fuori nobili precedenti: le interviste di Fallaci ad Arafat, di Zavoli ai brigatisti, di Enzo Biagi a Luciano Liggio, anche infierendo un po’ sul povero Giuseppe Brindisi, che casomai sembrava Forrest Gump catapultato per caso all’appuntamento con la Storia in prima serata.
Ma Zavoli, Fallaci, Biagi, non c’entrano nulla. Non dovevano grattare il fondo dello share in un sistema televisivo intasato di talk politici, quasi con più ospiti che spettatori. Ecco allora, al contrario, lo spettro di una propaganda pagata in rubli da Mosca per inquinare il dibattito italiano (come se in genere ne avessimo uno cristallino, pacato, equilibrato). Il sospetto di congiure, connivenze, infiltrazioni, altra vocazione nazionale, darebbe se non altro un buon movente alla nostra cagnara, più anarchica, spontanea, genuina che “manovrata” e “pilotata” da un intrico di complotti. Perché in tv è tutto un po’ più semplice. La tv non è al servizio dei russi, della Nato, della pace o dell’Europa. Col canone o senza, la televisione è prima di tutto al servizio di sé stessa. Quando nell’intervista al conduttore, assai in voga in questi giorni sui giornali, si domanda sempre: “Ma si può invitare un ospite che sostiene tesi imbarazzanti solo per mezzo punto di share in più?”, la risposta dovrebbe essere sempre: “Sì, si può”. Diffidare di chi dice il contrario. Per mezzo punto di share in più dell’avversario si va a condurre la trasmissione a Odessa tra i sacchi di sabbia, ci si litiga Orsini in un gioco al rialzo delle sue performance dadaiste, si invitano flotte di giornalisti russi buttati in trasmissione dall’ufficio-propaganda del Cremlino. Una tv di “cani di Lavrov”: pescando a strascico tra università, circoli leninisti e canali Telegram, s’imbarcano truppe di pensatori antagonisti, negazionisti, guru antisistema, No-Nato, nostalgici dell’Unione sovietica, servitori del popolo, invasati antiamericani, giocolieri della complessità, prestigiatori del “pensiero laterale” (copyright Giuseppe Conte).
Lo schema è quello già visto coi No vax, ma con qualche aggiustamento. Per esempio, la new entry della giornalista russa, filo Putin, che arriva da noi e grida alla “censura” appena in studio la interrompono (subito si accoda il sociologo De Masi: “In Russia ci sarà anche la censura, ma qui è peggio”). Da mesi ormai, molti conduttori scomodano a turno le iperboli del pluralismo, della libertà di parola, del free speech punk inglese o dell’invito-chi-mi-pare-e-voglio-io. Lamentano, anche giustamente, che tutti la sanno sempre più lunga in fatto di giornalismo, interviste, conduzioni di talk-show. Copasir e commissione di vigilanza Rai cercano nel frattempo spie russe in tv (prima indiziata, Nadana Fridrikhson, Myrta Merlino prova a smascherarla in diretta a “L’Aria che tira” chiedendo a bruciapelo “sei una spia?”, lei nega). Però non si capisce che tipo di dibattito avrebbe dovuto produrre un paese come il nostro: senza una tradizione liberale, col partito comunista più forte dell’occidente, un antiamericanismo trasversale, il primo movimento populista nato su Internet arrivato al governo e una destra che negli ultimi vent’anni ha guardato a Putin come a un faro. Tutto sommato poteva andare peggio.
La tv si fa con lo share, lo share in guerra si fa con la cagnara
Nel frattempo si cambia canale stretti in una morsa a tenaglia. Mentre su Rete 4 si celebrava Lavrov, libero d’improvvisare a braccio, per una trentina di minuti, come sulla tv di stato russa, Giletti in controprogrammazione intervistava Solovyev, con appoggio esterno di Santoro. La tv si fa con lo share, lo share in guerra si fa con la cagnara, e anche Lavrov era lì per quello. Prima che cassa di risonanza della propaganda o scoop giornalistico ripreso in tutto il mondo, l’intervista al ministro russo serve infatti a scuotere Mediaset dalla crisi generale che sta attraversando. Del resto, fu proprio una guerra, trent’anni fa, a lanciare i tg del Cav. Come dimenticare quel “prontooo?! hanno attaccato! hanno attaccato!” urlato al telefono dall’inviata Silvia Kramar, sintonizzata sulla Cnn, mentre annunciava a Emilio Fede e all’Italia l’avvio della guerra del Golfo. Un gran colpo per un telegiornale appena nato, subito in vantaggio sulla tv nazionale (la redazione Rai a Manhattan faceva orari d’ufficio, alle cinque avevano staccato e s’erano persi tutto, persino De Michelis lo scoprì guardando Studio Aperto).
Un’altra epoca. Oggi l’offerta Mediaset è una sequela di flop, con in testa la caduta libera di Barbara D’Urso e il tracollo del nuovo reality di Maria De Filippi, “Ultima fermata”. Rispetto a programmi che costano molto e si rivelano spesso un fallimento, i talk-show possono invece limitare i danni. Anche perché, come si sa, non costano nulla: ospitate gratis, qualche gettone, collegamenti su Zoom, buoni-taxi magari pagati in rubli. Così si corre ai ripari con Lavrov. Preceduto da echi di polemiche, lanciato con gran strombazzamento pubblicitario nei giorni precedenti (“Lavrov per la prima volta in una tv europea!”, come il camioncino che annuncia il circo nella piazzetta del paese), il ministro degli Esteri russo ha fatto il sei per cento scarso. Per intenderci, meno di “Tre uomini e una gamba”, vecchio cinepanettone di Aldo, Giovanni e Giacomo, che andava in onda su Italia 1, più o meno al centoquarantunesimo passaggio. Pochino, insomma. Però pur sempre un punto e mezzo in più rispetto alla media di “Zona Bianca”, che viaggia intorno al quattro per cento. Per alzare lo share della trasmissione di Brindisi, Lavrov ce l’ha messa tutta. Ha detto che gli ebrei sono i peggiori antisemiti, come Hitler, che era ebreo. Ha detto che tatuaggi e gagliardetti nazi del battaglione Azov erano una prova schiacciante per giustificare l’invasione dell’Ucraina (come se i francesi, vedendoci tentennare con lo scioglimento di Casa Pound, mandassero i carri armati nel Fréjus).
Lo spettacolo è saturo, stanco, ripetitivo
Eppure, lui e Giletti messi insieme hanno fatto meno spettatori della replica di “Felicia Impastato” su Rai 1. Perché i talk-show saranno anche più spettacolo che informazione, ma lo spettacolo bisogna saperlo fare. E lo spettacolo è saturo, stanco, ripetitivo. Formigli dice che vorrebbe Putin in trasmissione “per incastrarlo”. Ma non è detto che farebbe più spettatori di “Paperissima”. Non è solo un problema di credibilità, di post-verità, di tracollo del giornalismo, eccetera. Ma di noia. C’è anzitutto l’anomalia italiana (condivisa però con la tv russa, come ricordava Mentana): un eccesso di format e sottoformat di politica che esondano da tutti i palinsesti. Come i film italiani, anche i talk-show sono prodotti in sprezzo alla più elementare logica di domanda-offerta: troppi film per pochi spettatori, senza star-system, ma con pochi attori, sempre gli stessi, che rivediamo in loop in ogni film. Così in tv. Ecco Francesco Borgonovo, ex-autore de “La Gabbia”, ex conduttore a Telelombardia, la mattina a “L’Aria che tira”, poi la sera contemporaneamente nel lancio di “Fuori dal coro” e in studio a “Cartabianca”. Meraviglie dell’ubiquità dell’ospite televisivo. Ecco Sallusti, Maglie, Bersani, Scanzi, rinchiusi ormai da anni in tv, come in un remake del “Truman Show”, immortalato anche nel manifesto del prossimo Festival di Cannes.
La differenza (dimenticata) tra democrazie liberali e autocrazie
Per variare un po’, si fanno e disfano le coppie, come a “Ballando con le stelle”. Bersani va spesso con Tabacci, e insieme, da Floris, forse anche per la scenografia coi loggioni, sembrano ormai i due vecchietti del “Muppet Show”. Friedman va con Luttwak, uno in studio, l’altro in collegamento, o viceversa, magari duellando insieme come Stanlio e Ollio, mi hai stufato, arrivedòrci. Ecco Orsini e Borgonovo con Travaglio su Discovery, presentati come gli Avengers in lotta col pensiero unico, una superlega degli antagonisti. Ecco Orsini con Salvini a “#Cartabianca”, diventata nel frattempo una prosecuzione del “Fatto Quotidiano” col canone. Tre editorialisti del giornale di Travaglio fissi in trasmissione: Orsini, Di Cesare, Scanzi. I professionisti del dissenso “sentono” la guerra più degli altri. La vivono come un trauma, una fatica muscolare, con tutta una tensione nervosa addosso. Giorgio Cremaschi, servitore del popolo, sfilza di Gramsci e Lenin in vecchie edizioni Einaudi bene in vista alle sue spalle, ha “i brividi” quando sente la parola “Nato”, come Mahmoud e Blanco. Santoro “non dorme più la notte”. Orsini invece ha la lacrima facile. “Mi viene da piangere perché lei non ha capito nulla del mio ragionamento complesso”, diceva tempo fa a Calabresi, in una delle prime risse da Formigli, quando ancora metteva a punto il personaggio. Ora “piange quando sente che un paese vuole entrare nella Nato” (sin dalla capigliatura, Orsini è una rivisitazione geopolitica del “Riccardino” di Marenco-Arbore a “Indietro tutta”, gli manca solo una spalla all’altezza del personaggio).
Forse è solo molto stanco. La tv lo sta strizzando. Non regge il ritmo. Non ha più i novanta minuti nelle gambe. Non può giocare domenica da Giletti e martedì la Champions dalla Berlinguer. Santoro, invece, è in gran spolvero. E sarà per scongiurare l’insonnia, forse, che da mesi ormai è sempre in tv. Solo la scorsa settimana, uno dietro l’altro a raffica: “Costanzo Show”, “Piazza Pulita”, “Non è l’Arena”. Poi il gran tripudio al Teatro Ghione di Roma, in diretta streaming su Byoblu, la tv antagonista, che dà voce a “tutto quello che non vi dicono”. La gioia ma anche la rabbia di Santoro per una “pace proibita” (dagli americani) era incontenibile. S’aggirava su e giù nel teatro, dirigendo e orchestrando gli interventi col gusto della performance teatrale che gli è sempre stato congeniale (Beniamino Placido l’aveva capito subito: “Quando appare lui in video”, scriveva ai tempi di Samarcanda, “si ha l’impressione di ritrovarsi davanti a Gigi er bullo, noto personaggio del folklore romano, che minacciava tutti e non spaventava mai nessuno”). Ma insomma c’erano tutti. Anche Freccero collegato dal salotto di casa, con la linea che si bloccava e non prendeva bene e rendeva ancora più situazionista e ricco di détournement il suo intervento a braccio. E’ stata una bella serata. Una rimpatriata. Utile anche per capire che, volendo, abbiamo una sinistra-sinistra più putiniana di Putin. Come Moni Ovadia, che sposando le tesi sul nazismo ucraino, rilanciava divertito le tesi di Lavrov su Hitler ebreo, mentre Putin, quarantotto ore dopo, chiedeva scusa a Israele.
Magari il problema fosse la confusione tra aggrediti e aggressori. Il problema è che in tutta l’educazione antifascista che ci siamo dati abbiamo saltato la lezione sulla differenza tra democrazie liberali e autocrazie. E tutto sommato, non ci dispiace fare un po’ il tifo per le seconde, magari mascherandoci da pacifisti.
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