il commento
Chi ha paura di #Barbablù. È ora di fare il punto sul MeToo nostrano
Da Romeo e Giulietta traumatizzati ai coordinatori per scene di sesso. Mentre arriva in Italia il film su Weinstein (mezzo flop in America), resta la domanda: come accerti i colpevoli?
Il #MeToo è finito, con Harvey Weinstein condannato a 23 anni di carcere? Altro indizio: il film “She Said” ha incassato in America molto meno del previsto, narrando le giornaliste del New York Times che hanno scoperchiato il vaso di Pandora. Il riferimento classico sarebbe da evitare, fa confusione: nella mitologia greca Pandora aprì lo scrigno che Zeus le affidò con la raccomandazione di tenerlo sempre chiuso, dentro c’erano i mali del mondo: pazzia, malanni, vecchiaia, dolore, vizio, gelosia. La femmina curiosa fece quel che non doveva, noi ne paghiamo le conseguenze. Intanto “Pandora” è diventato il pianeta felice dove sgambettano gli Avatar nei film di James Cameron. E i gioielli con quel nome danno un brivido a chi ha fatto il liceo classico. Pochi, pochissimi, anzi nessuno (e del resto sono studi che non consentiranno, un domani, di comprare neppure una catenina).
In Italia, a che punto siamo? “She Said” di Maria Schrader, con Carey Mulligan e Zoe Kazan sarà nelle sale il 19 gennaio – titolo “Anche io”. Da Vallardi intanto è uscito il libro di Jodi Kantor e Megan Twohey, premiate con il Pulitzer senza riuscire a imporre nella memoria i loro nomi, sottotitolo “Ti senti di dichiararlo?”. Il #MeToo nostrano è finito, è a metà strada, non è mai cominciato davvero? Bisogna riprendere il “balance ton porc” delle francesi, molto avversato da Catherine Deneuve: la morte in culla di qualsiasi flirt, corteggiamento, allegria per la differenza? Va notato che ora le differenze son perlopiù tristi e rivendicative, realisticamente illustrate nel film “Bros” di Nicholas Stoller, sedicente prima commedia romantica gay (ma allora i cowboy?). C’è da organizzare a New York un museo lgbtq+ e il comitato non fa altro che litigare; il B come bisex, soprattutto, si sente sempre terribilmente trascurato e strilla.
Madonna chiuse la faccenda ritirando qualche anno fa un premio in completo oversize maschile (peraltro sexissimo, disegnato da Marc Jacobs). Vittima di violenza denunciata senza mai fare il nome del presunto colpevole, disse che così si sentiva finalmente a suo agio. Poi è tornata a strizzarsi nei corpetti con strascico e nuvole di tulle rosa. In Francia tutto è ripartito lo scorso novembre, sbattendo il mostro sulla prima pagina di Libération, pure con il dito di una mano graffiata e insanguinata (poi dicono i giornali scandalistici). Sofiane Bennacer, così si chiama il presunto colpevole. Mai condannato finora: il quotidiano punta su tre donne che parlano di violenze sessuali e fisiche, e su indagini in corso per “viols et violences sur conjoint” (all’interno di una coppia, torna il famigerato e giuridico “congiunto”).
Congiunta è anche Valeria Bruni Tedeschi, regista di “Forever Young”. Ha voluto fermamente nel cast il giovane Bennacer, con cui poi si è fidanzata (servono i nomi di tutti i maschi che si sono portati a letto le giovanissime muse? non dovrebbe essere questa la parità?). Sapeva o non sapeva? Attrici e tecnici sapevano, una notte fuori dal set, alla Maison des arts di Créteil, periferia di Parigi, sono comparse le scritte “produzione complice”, “c’è un lupo nell’ovile”, e per i più tonti “Sofiane Bennacer attore-stupratore”.
Indignata, la regista invoca la presunzione d’innocenza. Libération abbonda di accuse mai portate in tribunale, di “sentito dire”, di maltrattamenti o forse solo diversità di opinioni all’interno delle coppie. Il polverone sollevato è moltissimo. Alla prova dei fatti restano quasi solo le minacce “io conosco tutti e ti rovino” (la carriera futura, le presunte vittime facevano la scuola di teatro o l’avevano appena finita).
Per levarsi dall’imbarazzo, i César che nel 2000 erano stati travolti dalle proteste – dentro il teatro e fuori con il gruppo Osez le féminisme – contro Roman Polanski, vincitore con il film “L’ufficiale e la spia”, hanno aggiunto una postilla al regolamento. I sospetti violenti possono essere candidati e pure vincere. Ma in assenza: non si facciano vedere però nella sala della premiazione, il prossimo 24 febbraio a l’Olympia.
In Italia a suo tempo tutto era cominciato secondo copione. Denunce indignate, nomi esposti al pubblico ludibrio sui giornali e processi mai arrivati in tribunale – sì, ogni tanto scadono i termini, ma tante memorie ritardate cozzano con l’idea del “trauma capace di segnare una donna per la vita”. Stiamo parlando di attrici e di proposte indecenti, non di cassiere stuprate nello sgabuzzino del supermercato, con la minaccia del licenziamento.
Critica e pubblico hanno mostrato di gradire, dando fondo all’indignazione, e ora arriva il bis grazie all’Associazione Amleta, con l’hashtag (che se non ce l’hai proprio non sei nessuno) #apriamolestanzediBarbablù. Sveliamo le malefatte e rendiamo giustizia alle attrici (e agli attori, ha aggiunto una mano pietosa) che ai casting, alle prove, nei camerini e dietro le quinte subiscono tentativi di seduzione e maltrattamenti.
Le attrici di teatro hanno preso la parola, sulla scia delle colleghe francesi, con l’ampio programma: “Contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo”. Le attrici suddette sono 28 (dice il sito in varie lingue) “distribuite su tutto il territorio nazionale”. La precisazione burocratica stringe il cuore, ricorda i testi che servirono per lanciare ItsArt, lo streaming italiano d’arte e cultura che avrebbe dovuto fare concorrenza a Netflix. Voluto da Dario Franceschini – già ideatore della Biblioteca degli Inediti dove collocare i manoscritti che gli editori italiani, piuttosto generosi a giudicare da certi titoli in libreria, non pubblicano perché impubblicabili.
“Discriminazioni, stereotipi, sessismo, abusi, gender gap, gender pay gap, gestione dei fondi pubblici: questo è il problema!” (grassetto e citazione da Shakespeare nel manifesto di Amleta, copiato e incollato). #Quellavoltache – corrispondente italiano nel #MeToo e #balancetonporc – non ebbe granché successo, e allora riproviamoci con Barbablù.
Nella favola di Charles Perrault, l’uomo ricco e brutto (anche per la barba dallo strano colore, si era nel 1695, i punk sono arrivati dopo) sposa una moglie dopo l’altra, e sempre rimane vedovo. All’ultima moglie affida le chiavi del castello, raccomandando di non aprire mai una certa porta, e parte in viaggio. Curiosa e annoiata, la fanciulla apre la porta proibita. Una stanza delle torture, dove le precedenti signore erano state fatte a pezzi.
La storia aveva attirato l’attenzione di una scrittrice brava come Angela Carter, che in “La camera di sangue” ribalta le favole classiche, oltre a Barbablù, Cappuccetto rosso e la Bella e la Bestia. Le sue protagoniste trovano sempre il modo di cavarsela, con astuzia e perfidia. Come le mamme e certi libri di Natalia Aspesi ci avevano insegnato a fare. Davanti all’assalto, scappa, ridi, dici “tutto qui?” (che sarebbe anche la risposta giusta per le dick pic, vediamo se la suscettibile suscettibilità maschile in materia ha il coraggio di mandare un altro scatto). Le intenzioni, dichiarate in un’intervista del 1985, non coincidono con quel che le maestre democratiche o le femministe vorrebbero sentire da una scrittrice che lavora sulle fiabe: “Mi interessava il contenuto latente delle fiabe tradizionali, e quel contenuto nasconde una sessualità violenta”.
Le stanze di Barbablù del teatro e del cinema italiano, mettendo da parte le sofferenze soggettive che sono appunto soggettive, non sono un bello spettacolo (non lo sono neanche certi film noiosi, e il teatro inteso come punizione degli spettatori). Le testimonianze raccontano i palcoscenici, i camerini, i casting italiani come un film con Alvaro Vitali – nessuno si offenda, è un genere. Basta con l’illusione che il carattere italiano fosse ben descritto nel “Gattopardo”, romanzo e film: cambiare tutto perché tutto resti com’è. E neanche “Il sorpasso” di Dino Risi illustra con precisione il carattere italico, popolo e artisti. Siamo piuttosto sul versante “o me la dai o scendi”, nelle sue molte variazioni.
Per esempio, il porno messo per dispetto (o a mo’ di suggeritore, “ragazza vedi se ti viene in mente qualcosa”). Per esempio, le letture del copione fuori orario, con agenti e colleghi che chiariscono all’ultima e ingenua arrivata come funziona il casting di scambio. Per esempio, la mano sul diaframma – fondamentale per la respirazione – che scivola giù nelle mutande. Per esempio, roulotte speciali per le attrici arruolate come “amanti dei politici” – sempre generici, per carità, mai i nomi e i cognomi, le stanze si aprono per accusare la categoria.
Ancora, dal repertorio: “C’è una scena di nudo nel copione, fammi vedere le tette”. Trucchetto di bassa lega, ma proprio bassissima, che però fa il paio con le attrici che si spogliano e poi dicono “era un nudo, certo; ma artistico, poetico, innocente” e via con i luoghi comuni. Uno più sfacciato dell’altro. L’ultima volta, fanno testo gli articoli sui giornali, pare lo abbia detto una fanciulla che produce “contenuti di nudo artistico” a pagamento su Onlyfans (che proprio a quello serve). E accusa di molestie un giornalista che vorrebbe vedere la merce gratis, prima di scrivere sull’arte di spogliarsi a pagamento.
Chi si concede per professione, qualunque essa sia. Chi si concede per hobby. Chi lo fa per non studiare agli esami universitari, troppa fatica anche con i crediti facili. Non solo esiste il desiderio, ma ognuna del suo corpo fa quel che vuole. Neanche le femministe possono negare che le tette e il culo, in certi casi, possano accorciare la distanza tra un’attrice mediocre e il ruolo agognato. In epoche meno puritane, i giovani attori americani qualche giretto nello studio di un fotografo che li spogliava lo facevano, salvo poi cancellare le tracce.
Joan Crawford girò qualche film porno, uno era intitolato guarda caso “The Casting Couch”, il sofà del produttore. La madre voleva cacciarla di casa, ma la figliola tornò sventolando il contratto firmato con la Mgm: abbastanza soldi per mantenere senza sforzi la famiglia tutta. Quando diventò famosa comprò e fece sparire le copie del filmetto (che ogni tanto rispuntava fuori, vero o prodotto con la tecnica deepfake). Vogliamo parlare di scrittori? Andate un po’ a vedere la fotografia “quanto costa? lo compro e non si disturbi a impacchettarlo” che Henri Cartier Bresson scattò al giovane Truman Capote nel 1947, t-shirt morbida e sguardo sbieco da sotto il ciuffo.
Molestabilissimo. Non lo sarà mai più, e morendo nel 1984 si è risparmiato questo clima. Era chiaro allora che teatro o cinema non davano le stesse garanzie di moralità della carriera impiegatizia. Ma il puritanesimo funziona anche in retrospettiva, senza che la prima reazione di noi tutti sia una risata, maddai! Dopo 55 anni – non c’erano gli smartphone ma neppure le segreterie telefoniche – il Romeo e la Giulietta di Franco Zeffirelli – oggi Olivia Hussey ha 72 anni, Leonard Whiting 73 – hanno deciso di denunciare il Maestro. Comportamento scorretto, sostengono: loro avevano sedici anni e si fidavano. Quanto scorretto, dal film non si capisce: l’attrice aveva capelli lunghi che arrivavano alla vita, e con qualche marchingegno stavano fermissimi, escluso che una tetta potesse fare capolino, o solo intuirsi. Di lui ricordiamo una schiena, un fondoschiena forse, ma era un film che si mostrava nelle scuole. Roba da giustificare oltre 50 anni di sofferenze? O è il dolore di non essere riusciti a fare poco altro nel cinema?
#apriamolestanzediBarbablù può ora contare sul sostegno del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano: i fondi ministeriali saranno negati alle produzioni teatrali, cinematografiche e televisive colpevoli di violenze e maltrattamenti. Serviranno inoltre codici di condotta, referenti di fiducia per accogliere denunce, provini pubblici, “intimacy coordinator” (parola delle donne che chiedono, sarà sicuramente trovata una formula nella nostra bella lingua) per le scene di sesso. Resta la grande domanda. Come si accertano i colpevoli? Le donne hanno sempre ragione? La loro parola, oltre a essere ascoltata, non può essere messa in dubbio?
Netflix ha fatto sapere di aver già tutto: corsi su cosa va considerato “molestia”, linguaggio non offensivo, numero di telefono per denunciare violenze e discriminazioni (tutto peraltro già satireggiato nella quarta stagione di “Boris”). Prossima tappa per fare la festa a Barbablù, il festival di Sanremo. A cominciare da Chiara Ferragni, le conduttrici sono già al lavoro. Rifiniscono (o si fanno rifinire) il discorsetto da pronunciare come la poesia recitata a memoria, in piedi sullo sgabello. Una predichetta con i “mai più” al posto giusto, le parole commosse per le vittime, gli scatti d’orgoglio “Noi Donne” (proprio lo pronunciano, con le maiuscole). Una per ogni serata. Barbablù si è già tinto la barba di un altro colore e scapperà, per la paura che gli fate.
Politicamente corretto e panettone