Le figlie di Montalbano
Lolita Lobosco e le altre consolano il palinsesto orfano di Camilleri. Indagini fra un aperitivo e una ripresa col drone
Finite le puntate di Montalbano, finiti i libri, le repliche, i restauri in 4k, le anteprime al cinema, risalito l’albero genealogico, dal giovane Montalbano agli zii e le cognate, non restava che un’ultima mossa: la transizione di genere. Montalbano si moltiplica in un diluvio di ispettrici, poliziotte, commissarie, investigatrici private, procuratrici della Repubblica. Personaggi metà letterari, metà televisivi, creature scaturite dall’esplosione della galassia Camilleri, un po’ per gender balance, un po’ per colmare quel vuoto incolmabile lasciato in prima serata. Le chiameremo “le montalbane”. Le più montalbane di tutte sono naturalmente il vicequestore di Bari, Lolita Lobosco, un Montalbano con le Louboutin e il toyboy, e il sostituto procuratore Imma Tataranni, un Montalbano madre di famiglia che s’aggira tra i sassi di Matera. Le montalbane servono a elaborare il lutto. A mantenere viva la montalbanomania. Come quando morì il Commissario Cattani, ma “La piovra” continuò, andò avanti altre sei stagioni senza di lui, anche se le fan erano disperate, scrivevano ai giornali lettere di protesta, potevate salvarlo, poteva farsi frate, poteva fuggire in Venezuela, invece che morire ammazzato da Cosa nostra come un cane. Con alle spalle quindici stagioni spalmate in venticinque anni e tantissime repliche andate comunque in prime time, la fine di Montalbano è stata tutto sommato meno traumatica.
Quando andò in onda il primo episodio, “Il ladro di merendine”, Mark Zuckerberg iniziava il liceo, non c’erano gli smartphone, Grillo era solo un comico e D’Alema faceva il presidente del Consiglio. Ma in tutti questi anni l’Italia di Montalbano è rimasta sempre quella. Immobile, assolata, bloccata nella sua congeniale mediterraneità. Una Sicilia entrata nel repertorio della cultura popolare come un parco a tema, una Disneyland della Trinacria che ora si delocalizza, apre succursali a Matera, nei minuscoli borghi della Lucania, a Bari, a Castel del Monte di Andria o tra le spiagge di Monopoli, “le Maldive d’Italia”. Il vicequestore Lobosco e il sostituto procuratore Tataranni si contendono l’eredità e lo share del loro padrino, e a ogni puntata ci si domanda chi sia più Montalbano delle due, se la barese sexy e conturbante o la lucana schietta, forte e un po’ stropicciata. Naturalmente la detective donna ha tutta una sua traduzione consolidata, spesso giocata sul fiuto, sul “sesto senso femminile” prestato per l’occasione alla risoluzione del caso. Una detective per hobby, come la “signora in giallo” Jessica Fletcher. Con la professione però tutto si complica. Ispettrici e vicequestori devono conciliare i ruoli di madre, moglie, fidanzata. Se sono single o vedove eccole circondante da amiche e mamme che le implorano di “sistemarsi”. Le montalbane devono imporsi in un mondo di uomini, risolvere il caso, acciuffare i criminali, magari preparare la cena e trovare il tempo per il marito, l’amica e l’amante. Insomma, un lavoraccio. Le montalbane servono anche a ricordare che Montalbano, se non altro, ha la fortuna di essere maschio.
L’effetto déjà-vu è certo fortissimo in Lobosco, che nasce come dichiarata diramazione montalbanica. Smessi i panni del commissario di Vigata, Luca Zingaretti diventa produttore, acquista i diritti dei romanzi di Gabriella Genisi, creatrice di Lolita Lobosco, quindi passa il testimone a sua moglie, Luisa Ranieri. Una fiction-factory tutta in famiglia. Come il tandem Castellitto-Mazzantini al cinema. Difficile respingere le somiglianze (“Lolita Lobosco non è la versione femminile di Montalbano, non ha nulla a che vedere con la serie interpretata da Luca Zingaretti, il mondo di Camilleri non è replicabile”, dice sua moglie). L’ispirazione, la “replicabilità” sono invece palesi, come dice la giallista Gabriella Genisi, barese, vari romanzi alle spalle, e il ciclo di Lolita Lobosco avviato nel 2010 con Sonzogno. Il primo romanzo è “La circonferenza delle arance”, un titolo che suonava già assai camilleriano: “Quando ho visto Montalbano in tv sono rimasta folgorata”, spiegava in un’intervista all’epoca del lancio della nuova serie, “e mi sono immaginata un commissario donna che come lui avesse un forte legame con il territorio e un approccio empatico ai casi”. Detto fatto. Ecco il mare, l’azzurrità, i colori intensi ma più pop, meno accecanti, meno metafisici. Ecco la stessa lentezza meridiana, ma con molti più droni, musiche a effetto, riprese in continuo movimento (la sorrentinizzazione della regia delle fiction meriterebbe un approfondimento a parte). E poi il camioncino con le cime di rapa, i vicoli, la piazzetta, le pause-caffè in centrale, tutto il solito indaffaramento statale, il plico, l’incartamento, il dottore è fuori stanza. Come in Montalbano, un’ampia veranda terrazzata e un’atmosfera assai vintage. Lolita Lobosco gira per Bari e dintorni con una Bianchina rossa tirata a lucido, già oggetto di selfie turistici quando la riconoscono nei raduni d’auto d’epoca (pare sia di proprietà di un gommista di Trani che l’ha data in prestito alla serie). Anche la pelata di Giovanni Ludeno, che tra le altre cose è stato André Agassi a teatro, e qui si chiama Antonio Forte, braccio destro e amico di Lolita Lobosco, pare messa lì come segno di continuità, omaggio, citazione, richiamo esplicito al commissario Montalbano. Del resto, nei primi romanzi di Gabriella Genisi, Lobosco telefona a Montalbano per farsi dare delle dritte sui casi. Ma per certi crossover il pubblico di Rai 1 forse non è ancora pronto. Vedremo.
Manca, è chiaro, la lingua di Montalbano. Quell’impasto italodialettale che ha fatto la fortuna dei romanzi e della fiction, “caso isolato di sperimentalismo espressivo condotto non in chiave esoterica ma di intrattenimento piacevole”, come ebbe a dire Vittorio Spinazzola, tra i pochi critici letterari a prendere subito Camilleri sul serio. Sul set di Lolita Lobosco c’è invece il “dialect coach”. A lui il compito di curare tutte le sfumature dell’accento barese della napoletana Luisa Ranieri. Il risultato è così così. Migliorato nella seconda stagione, ma sempre macchietta. Ha fatto arrabbiare un po’ tutti, baresi e non, insofferenti a quel birignao folcloristico, meridional-televisivo, senza alcun rapporto né con l’italiano, né col dialetto locale. Ma come ha notato Aldo Grasso, è già un miracolo che nei vicoli di Bari vecchia non parlino tutti romanesco (però c’è il fidanzato di Lolita, Filippo Scicchitano, romano, che raddoppia le consonanti, ci sono agenti di polizia che inspiegabilmente canticchiano stornelli di Frascati). Più di ogni altra cosa però, la continuità tra Montalbano e Lobosco è garantita dall’ossessione gastronomica. La proverbiale passione del Commissario di Vigata per arancini, caponatine, cannoli, caciocavallo stagionato, ritorna in Lobosco sotto forma di cozze crude, focacce, panzerotti, orecchiette fatte a mano, melanzane fritte, panate, rifritte. Ma ci sono anche gli “spaghetti all’assassina” preparati direttamente da lei, quindi rilanciati nei blog di cucina, dove è già tutto uno “scopri le ricette di Lolita Lobosco”. Fino al tripudio del panino col polpo mangiato sul lungomare di Bari in una delle ultime puntate, o del frittatone di “scammaro” che nella serie diventa però letale, anche perché è un piatto napoletano, non pugliese (in Lobosco si muore anche di avvelenamento da specialità gastronomiche locali, del resto mangiano in continuazione). Se in Camilleri, come già in Sciascia o in Chandler, l’inchiesta poliziesca sembra più che altro un pretesto per avviare un’indagine psicologica, dando spazio più che al groviglio del caso criminale alle vicende personali dei personaggi, in Lolita Lobosco le indagini sono lunghe, complesse, ma sembrano più che altro un intralcio tra un pranzo da mamma e un aperitivo al porto con bollicine e crudi di pesce. E’ la fiction nell’epoca delle film commission. Va bene la suspense, l’enigma, il puzzle, ma prima di tutto viene la valorizzazione di luoghi, paesaggi, prodotti locali. Un po’ di poliziesco, un po’ di “Linea verde”. La mamma di Lolita Lobosco gestisce infatti un Bed & Breakfast, (ma non sta su Airbnb). “Avevo trasferito Lolita Lobosco a Padova”, dice Gabriella Genisi, “l’avevo anche promossa questore. Ma perdeva forza, come una lumaca senza guscio. Dopo tre pagine l’ho fatta tornare a Bari, rinunciando alla promozione”. La cosa che riesce meglio in queste fiction, come già in Montalbano, è difatti trasformare le montalbane in tante “testimonial del territorio”.
Dai droni sul lungomare di Bari a quelli sopra i sassi di Matera il passo è breve. I capelli rossi, l’abbigliamento improbabile, molto animalier, colori acidi, stivaloni gialli, sono i segni distintivi della montalbana lucana, il sostituto procuratore Imma Tataranni, subito diventata “icona camp” per il suo look (“per vestirla mi sono ispirata a Madonna, David Bowie e Raffaella Carrà”, dice la costumista Paola Marchesin). Rispetto a Lobosco, un po’ fidanzata un po’ single, indecisa, tormentata, qui siamo in piena famiglia tradizionale: marito dipendente della regione, figlia adolescente, suocera. Anche qui un dialect coach per mettere a punto l’accento materano, che però presenta forti affinità con quello barese, e alla fine sia Lobosco, sia Tataranni o altri parlano tutti allo stesso modo, un generico meridionalese da procura di Trani. Anche qui c’è un toyboy che turba le notti di Tataranni. Anche qui le indagini si fondono con usi e costumi locali e ricette, soprattutto le polpette di mollica di pane al sugo. E’ la via italiana all’Actors Studio: per entrare nei panni del personaggio si passa dalla cucina. Imma Tataranni, dice l’attrice Vanessa Scalera, “non potrebbe esistere senza Matera, le case che si fanno largo tra i sassi, gli antichi borghi lucani e le vallate dove va a interrogare i sospettati”. Ma rispetto a Montalbano qui il tono si smorza. Anche perché, a differenza che in Sicilia, terra da sempre assai fertile d’omicidi, in Basilicata succede poco o nulla: anche i morti ammazzati, le cosche, il “malaffare” lucano sembrano sempre un po’ sottotono, fiacchi, svogliati. C’è anche una “visione del mondo” di Imma Tataranni compilata appositamente dalla sua creatrice, la scrittrice Mariolina Venezia. Tataranni immagina una società ideale dove tutto è regolamento, tutto è sorvegliato. Leggi immaginarie, decreti, editti, licenze, “dal patentino per diventare madre, agli incentivi per chi è capace di starsene zitto, alla lettera di motivazione per i turisti che vogliono visitare i Sassi di Matera”. La sua entrata in scena poi è sin troppo eloquente. Nella prima puntata, Imma Tataranni è in vacanza a Metaponto. La vediamo stesa sul materassino, in acqua, al largo, solo che invece di prendere il sole in relax controlla la spiaggia e spia i bagnanti col binocolo. Tataranni non dispiacerebbe a Travaglio e Davigo. Strano che ancora non abbia un blog sul Fatto, strano che nessuno l’abbia intervistata su intercettazioni e abuso d’ufficio.
Quando invece ci si sposta nell’“alta Italia”, come nella Val d’Aosta di Rocco Schiavone, le ispettrici diventano algide, fredde, emotivamente distanti. Hanno gli occhi chiari. Mangiano molto meno, o le vediamo meno a tavola. Ecco Miriam Leone, commissario della squadra mobile di Torino, Valeria Ferro, in “Non uccidere”. Ecco Vittoria Puccini, vicequestore di Venezia che indaga su crimini tremendi in “Non mi lasciare”. Ecco Cristiana Capotondi in “Bella da morire”, ispettrice di Lagonero, oscuro paesino lacustre del centronord, località d’invenzione, come la Vigata di Camilleri (nella realtà siamo nei dintorni del lago di Bracciano, ma l’atmosfera è nebbiosa). Le montalbane vanno al nord. Provano a fare tesoro della grande lezione del noir svedese, garanzia per un poliziesco di qualità, meno pop, più esistenzialista. I bestseller di Camilleri lasciano il posto ai megaseller della trilogia di Stieg Larsson, modello per un giallo globale, più da piattaforma che da Rai Fiction. Le montalbane del nord ambiscono alla categoria Netflix, “programmi tv con una protagonista femminile forte”, insieme a eroine della Marvel, come “Jessica Jones”, o Alicia Florrick, l’avvocatessa di “The Good Wife”, che potrebbe anche essere una Giulia Bongiorno della Cbs. Per ora si resta però nell’autonomia differenziata. Dentro l’arcipelago di un giallo italiano che si divide in due grandi categorie: col sole o senza. Il nostro algoritmo è in fondo molto più semplice.
Politicamente corretto e panettone