televisione
I format geniali di Michele Guardì e gli altri dinosauri: il varietà che allunga la vita
Pingitore, Costanzo, Ricci e gli altri autori che hanno fatto la storia della televisione tra cantanti, ballerine e tanta provincia. Una tv senza eredi
Fedele come un carabiniere, uomo di una sola azienda, emittenza grigia e Grand Commis della tv di stato, Michele Guardì sta per compiere i suoi primi ottant’anni. Martin Scorsese li ha festeggiati con un party a Casa Cipriani, nel Battery Maritime Building di New York. Il nostro “Wolf of Viale Mazzini” se li gusta invece con un gran tour di interviste e celebrazioni nella sua tv. “Sua” perché Guardì in Rai è il padrone di casa anche nelle trasmissioni dei colleghi, un po’ come il Cav. quando piombava ai Telegatti e tutti scattavano sull’attenti, diventavano subito suoi ospiti. Già visto a “La vita in diretta” e “Domani è un altro giorno”, dove ha rievocato “mezzo secolo vissuto in Rai”, domenica scorsa Michele Guardì era da Mara Venier. Disteso, riposato, in ottima forma e con un libro in promozione. Il suo secondo romanzo. E’ ambientato nella sezione Dc di un paesino siciliano degli anni Settanta, col maresciallo dei carabinieri, il parroco, il farmacista, il barbiere, la “fimmina” illibata ma forse no. Una versione letteraria delle figurine che da oltre trent’anni animano la piazzetta dei “Fatti vostri”, sua creatura televisiva prediletta. Guardì si prepara a una vecchiaia alla Camilleri, carriera in Rai prima, bestsellerista poi, con immancabile giallo folkloristico, “un giallo divertente, con implicanze regionali molto belle, anche con tante curiosità sul mio paese”, spiegava tutto pimpante nel salottino della Venier.
Il varietà sarà anche scomparso però allunga la vita: ottant’anni Guardì, quasi ottantanove Pierfrancesco Pingitore, santo patrono del Bagaglino, anche lui in splendida forma. Pippo Baudo è uscito di scena, ma ne ha comunque ottantasette, e fu richiamato come riservista a “Domenica In” a ottant’anni. Maurizio Costanzo ne fa ottantacinque quest’estate, mentre coi suoi settantatré anni, Antonio Ricci è ancora solo uno dei tanti boomer in circolazione (come Loretta Goggi, a breve in onda con un programma tutto suo, “Benedetta Primavera”, altra reprise del caro vecchio varietà). Antonello Falqui ci ha lasciato a novantaquattro anni, e Gino Landi è scomparso poche settimane fa, poco prima di compiere novant’anni (ma è ancora vivo Vito Molinari, regista del primo programma Rai, poi autore di varietà e dell’edizione del ’62 di “Canzonissima”, quella dello sketch di Dario Fo e Franca Rame sui lavoratori edili, in piena vertenza sindacale, grande scandalo nazionale, polemiche sui giornali peggio che Zelensky a Sanremo, e picco di notorietà per la coppia).
Sono i dinosauri della tv. La tv che fu diretta emanazione della prima Repubblica. La tv filtro sociale del paese che oggi recupera questo ruolo una volta l’anno, col Festival di Sanremo.
Una tv costruita intorno al primato del varietà in tutte le sue declinazioni possibili, prima di farne un cadavere da dare in pasto a reality e talent, riducendolo a cosa da dilettanti. Una tv divertente, leggera, a volte bellissima (come quella di Antonello Falqui, ormai nel pantheon della pop art italiana, santificata anche dalla Fondazione Prada), altre assai scema, precocemente trash, pecoreccia, ma vista da tutti, senza distinzioni di età, gender, classe, target. Una tv che finirà con loro. Perché autori e spettatori di questa televisione sono uniti da un patto generazionale: cresciuti insieme, invecchiati insieme, entrambi senza eredi. E’ la televisione del telecomando “tradizionale”, come la famiglia, quello col tastierino numerato, la sequenza da uno a nove ben visibile. Un simbolo del passato che non passa, tutelato ora dall’AgCom come baluardo della resistenza allo streaming e agli assistenti vocali. Ma anche questa “battaglia del telecomando” non durerà a lungo. E i dinosauri della tv guardano con distacco il naufragio, l’inabissamento del mezzo televisivo tra i reperti del Ventesimo secolo. Sanno che quello che è capitato a loro non ricapiterà più a nessuno, e infondo va bene così, après nous le déluge.
Tra i dinosauri della tv, Michele Guardì è certo uno dei più spumeggianti, ancora saldamente al comando, inamovibile, col suo pubblico di fedelissimi. L’epica del Bagaglino e dei suoi derivati, “Biberon”, “Crème Caramel”, “Champagne”, è invece tramontata per sempre, come quella dei cinepanettoni. Il “Salone Margherita”, raro esempio di café chantant all’italiana, se l’è ripreso la Banca d’Italia per metterlo in vendita “senza base d’asta”. Lo usa come spazio espositivo per la propria collezione di opere d’arte, con pezzi di De Pisis, Prampolini, Turcato. Pingitore, anche lui in giro per televisioni col romanzo in promozione, è però fiducioso: “Il varietà viene da lontano, è sempre morto e sempre risorto”. Una linea genealogica da Marinetti a Valeria Marini. Al Salone Margherita, cento anni fa, si celebravano i “varietà futuristi” che finivano a botte, scazzottate, lancio di ortaggi. Il varietà andrà avanti anche nell’era di TikTok, dice Pingitore. Chissà. La televisione di Guardì, rassicurante, sempre uguale a sé stessa, democristiana senza più la Dc, è invece ancora un punto fermo. Acquattata con tenacia nel fortino di Viale Mazzini, indifferente ai ricambi generazionali, ai diciannove direttori generali che gli sono sfilati davanti, allo streaming, allo spacchettamento dei contenuti televisivi. Da almeno vent’anni, Guardì viene raccontato come l’uomo più potente, ricco e influente della Rai. Un Re Mida che trasforma in oro tutto quello che tocca, programmi, carriere, nomine. L’impressione è che gli piaccia lasciar montare la leggenda, un po’ come Andreotti che non smentiva, non confermava, semmai si divertiva di volta in volta a essere Belzebù, Molok, Sfinge, Gobbo, Papa nero.
All’alba degli anni Duemila, negli ultimi sprazzi della golden age televisiva, pare che Guardì guadagnasse cifre folli (due miliardi e mezzo di lire l’anno). “E’ vero”, replicava lui, “però pago anche un miliardo e trecento milioni di tasse: le pago tutte e sono sempre sereno”. Un vero servitore della tv di stato. Un cantore del New Deal di Ettore Bernabei, come Frank Capra lo fu per Roosevelt. Di Casteltermini, provincia di Agrigento, ex consigliere comunale Dc, fanfaniano, della corrente di Gaetano Trincanato, ma col mito di Kennedy, ex avvocato, Guardì lasciò i tribunali grazie a un incontro fatale con Pippo Baudo. Forte di un po’ di esperienza nel cabaret, mollò tutto e andò a ingrossare le fila dei siciliani milanesizzati. Da lì non s’è più fermato. Diventa braccio destro di Antonello Falqui (“Giochiamo al varieté”, “Al Paradise”), poi crea “Unomattina” e una gran fetta degli ultimi quarant’anni di tv, da “I fatti vostri” a “Scommettiamo che?”, spostando naturalmente la sua corte a Roma. Nel varietà di Guardì resta ben poco della lezione di Falqui. Siamo già dentro un’altra televisione, all’alba delle pay-tv, dopo la Legge Mammì, nella confusione oramai indistinguibile di servizio pubblico e tv commerciale. L’italianissima tv di Guardì fonda il proprio successo su un format tedesco, che da noi diventa “Scommettiamo che?”, prima serata del sabato sera, con Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci. E’ il varietà come “contenitore”. Una roba che col varietà non c’entra più nulla (“il varietà si fonda su comici e ballerine”, diceva Falqui, “non ci devono stare i libri, le foche e i reduci”). Le “skill” sono ormai altre: arrampicarsi su una fune di carta igienica, montare tre chili di maionese in due minuti, salire in quindici su un triciclo, bere aranciata da una cannuccia di due metri. Un po’ “Giochi senza frontiere”, un po’ anticipazione di “Ciao Darwin” ma senza tette e culi in bella vista, perché in Rai non sta bene. Il giorno della strage di Capaci, “Scommettiamo che?” andò in onda lo stesso, scatenando le proteste degli spettatori. Ma lo share era pazzesco, la macchina non si poteva fermare, anche se a ripensarci oggi sembra una follia.
Come Pippo Baudo, anche Guardì è stato un talent scout infaticabile: oltre a Fabrizio Frizzi, Alberto Castagna, il Massimo Giletti prima maniera, Tiberio Timperi, Adriana Volpe, Elisabetta Gardini, la celebrazione di Magalli, e altri ancora. Sono figli suoi. C’è un po’ di Guardì nel post-varietà di questi anni, nella tv del dolore da Alda D’Eusanio a “C’è posta per te”, in quella dei freak e anche nei talent (“Nientepopodimenoche”, ideato da Guardì nel 2001, era una gara per aspiranti conduttori televisivi con giuria di esperti, vinse Michele La Ginestra). Si dice che Guardì abbia inventato le piazze televisive, la quotidianità, “l’uomo della strada che faceva più notizia del divo”, come ama ripetere lui. Sarebbe più corretto dire che le ha riproposte in versione edulcorata, strapaesana, da “presepe italiano”, mentre Santoro, negli stessi anni, le aizzava, le incendiava, le ammaestrava all’antipolitica, e Fiorello le faceva cantare col Karaoke. Sarebbe poi ancora più corretto dire che Guardì le ha riprese da programmi storici della vecchia Rai, come “La piazzetta” e, soprattutto, “Campanile sera”. Furono Mike Bongiorno e Enzo Tortora i primi a portare in tv tutta un’Italia di provincia da neorealismo rosa: in studio c’erano gli “inviati speciali” del paese, mentre nelle piazze i notabili, gli esperti, i professori, i presidi, i geometri, gli eruditi da bar. L’Italia dei borghi, dei piccoli centri, dei paesini sperduti nelle valli veniva investita da un flusso di visibilità e notorietà sin lì impensabile. Grazie alla tv questi posti iniziavano a esistere per davvero.
Anche la piazzetta dei “Fatti vostri” viene fuori da lì. Però è finta, di cartapesta, disegnata con pochi tratti essenziali, modellata sulla Casteltermini mentale di Guardì. Arrivato al trentatreesimo anno di trasmissione, “I fatti vostri” è il format del daytime più longevo d’Europa, ricalcato sul pubblico televisivo più anziano d’Europa (con un’età media dello spettatore Rai che supera i sessant’anni). Una tv da pensionati. E siccome i telespettatori hanno una velocità di invecchiamento superiore a quella tendenziale della popolazione complessiva, Guardì ha sempre giocato d’anticipo. Anziché pensare alla casalinga di Voghera ha immaginato una tv su misura per le sue zie. All’alba dei “Fatti vostri”, spiegava così la formula di tutte le sue trasmissioni: “Al paese ho due zie, zia Rita, che ha 87 anni, e zia Giuseppina, che ne ha 86. Ogni cosa che faccio nella mia vita e nel mio lavoro è sottoposto al loro giudizio. Sono la mia coscienza critica”. Se Antonello Falqui ha portato in tv tutta una scintillante via italiana alla modernità, una cultura cosmopolita che da noi s’era vista pochino, un’estetica elaboratissima, tra il liberty e i film di Fred Astaire, col bianco e nero elegante, il pavimento e il fondale degli studi di via Teulada sciolti nella stessa illusione ottica, Guardì ha imposto l’equazione tra provincia italiana e televisione (che è anche motore dell’universo di Maria De Filippi, “la provincia è dentro di noi”). Come nei dibattiti dei nostri “thirties”: strapaese contro stracittà. Anziani e provincia diventano nelle mani di Guardì un algoritmo implacabile, anche se non replicabile sul lungo periodo, destinato va da sé all’esaurimento scorte. E’ una provincia che è visione del mondo, sistema, microcosmo animato dalla voce del “Comitato”, la voce fuoricampo di Michele Guardì, cifra della sua regia, calata dall’alto per risolvere le beghe di paese, come la voce di Gesù in Don Camillo e Peppone. “Io mi vanto di essere un provinciale”, dice Guardì, “la provincia è quella che spiega nel dettaglio le singole identità. Quando sono arrivato a Roma avendo frequentato molto da vicino l’arciprete e il segretario del partito del mio paese, io vedevo nelle massime autorità, dal Papa ai leader di partito, le identità ingrandite di quei personaggi”.
Guardì ha avuto sempre un pessimo rapporto con la critica televisiva. “Beniamino Placido parlava sempre male di me. Diceva che ero ignorante. Abitava vicino a casa mia. Un giorno mi presentai da lui e gli dissi: Eccomi. Vuole parlare di Kant?” (è la versione Guardì del “vado a letto tardi perché la sera leggo Kant”, a suo tempo scagliato da Umberto Eco contro il Cav.). Oggi sembrano polemiche incomprensibili. La tv generalista è un museo delle cere. Alzare o abbassare l’asticella della cultura dello spettatore è tema che non appassiona più. Non era questo, del resto, lo scopo del varietà. “Il varietà non ha una funzione culturale”, diceva Antonello Falqui in una delle sue ultime interviste, “ma può tentare di stimolare il senso critico e il buon gusto. Io cercavo di straforo di far passare anche cose un po’ ricercate, insieme ai cantanti e ai comici, ma se vuoi insegnare qualcosa e lo fai come lezione non funzionerà mai”. Era una tv che aveva budget e soprattutto tanto tempo a disposizione. Si andava in onda dopo una settimana di prove serratissime, tutto doveva funzionare perfettamente. Costava soldi, fatica, ci volevano idee. Coi freaks, i dilettanti, i casi umani, con la telepolitica che si è mangiata anche il varietà, oggi è tutto più semplice.
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