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cronaca di una prima volta

Scontro di civiltà a Sanremo tra oscillanti e urlatori. Due passi all'Ariston

Salvatore Merlo

Al Festival esistono solo tre tipi di persone: chi sosta davanti al teatro, chi dietro e chi entra. Marshall McLuhan ci avrebbe forse scritto un trattato, e Sidney Lumet, chissà, ci avrebbe fatto un film

Sanremo, dal nostro inviato. Dopo un po’ si capisce che a Sanremo esistono soltanto tre tipi di persone: quelli che sostano davanti al teatro Ariston, quelli che sostano dietro al teatro Ariston, e quelli che entrano al teatro Ariston. Questi ultimi, talvolta, sono pure famosi. O almeno lo credono loro. C’è la signora in ghingheri che viene da Larderello, provincia di Pisa, e ha pagato mille euro per sedersi in galleria e vedere Mattarella seduto in platea (o meglio, ha pagato mille euro per non vedere proprio nulla: dalla galleria infatti non si vede un tubo). C’è poi quella che fra dita e seni avrà un milione di gingilli addosso, e infatti sembra una cassetta di sicurezza ambulante. La loro irritazione comincia subito già all’ingresso. Poiché c’è molta gente (ed è ovvio che la coda non usa) è tutto un disordinato ondeggiare e tumultuare, con scambi di cortesie come “e dica alla sua signora di tenere le mani a casa” (l’incriminata nuotava a rana per arrivare prima). Ma questo è dentro.

 

Fuori invece ci sono quelli che non hanno impegnato l’argenteria per comprare il biglietto. Questi oscillano a grappoli annoiati davanti alle transenne. Talvolta esultano al passaggio del sosia di Pavarotti o di Liz Taylor, che in effetti è il massimo del brivido. Va tuttavia evidenziato che questo genere di “oscillanti”, attenzione, sono una categoria diversa da quella degli “urlatori” che invece, alle spalle del teatro Ariston, si sgola al passaggio di ogni furgoncino nero coi vetri oscurati che s’infila nel retropalco. Il furgoncino passa, e quelli urlano. Chiamano. Invocano. Ma chi? Per quanto se ne sa questi minivan potrebbero persino essere vuoti. O pieni di nullità, che forse è la stessa cosa. D’altra parte la versione delabrée dello star system italiano, per non dire amatriciano, prevede la caccia al famoso. O meglio al semi-famoso, poiché Mina e Patty Pravo, per dire, non passano da queste parti da un po’. Così, mentre quelli sul retro si sgolano davanti a un minivan coi vetri oscurati, ecco che su via Matteotti, a un passo dal teatro Ariston, passa davvero un cantante in gara. L’occasione sarebbe unica. Ma poiché il tizio dinoccolato è noto pressoché soltanto alla mamma, non lo riconosce nessuno. E proprio quando il tizio crede che finalmente gli stiano per chiedere un autografo, ecco gli si fa appresso un coetaneo dalla faccia masticata: “Oh, non è che c’hai un euro che devo pagare il parcheggio?”. 

 

Ecco. Marshall McLuhan ci avrebbe forse scritto un trattato, e Sidney Lumet, chissà, ci avrebbe fatto un film. Fama e suggestione. È fondamentale sottolineare che a Sanremo la parola “Ariston” viene pronunciata con una sorta di mesta, solenne gravità, scuotendo impercettibilmente la testa. In realtà si tratta di un teatro piccolissimo e per niente evocativo, dove gli spazi sono compressi e anche gli artisti o presunti tali, insomma i vip e i semi-vip, sono ammassati l’uno sull’altro. In pratica il retropalco sembra una stazione ferroviaria di periferia durante gli sfollamenti di Ferragosto, con le sue carovane di carrelli traboccanti arredi di scena e strumenti musicali, cavi, cantanti con le palpitazioni, funzionari Rai con gli occhi arrossati e i denti stretti, operatori (romani) che sbadigliano a quattro ganasce. Tutti compressi in pochissimi metri quadrati. Uno sull’altro. Prima di entrare in scena persino Roberto Benigni condivide un budello di corridoio con un ragazzo tatuato che si scaccola (domanda del giornalista ignorante: ma chi è? “Come chi è? E’ famosissimo”).

 

Proprio accanto al palcoscenico ecco che si apre uno sgabuzzino. Ci tengono le scope e il mocio? “No, quello è il camerino di Amadeus”. Come in ogni spazio estremamente promiscuo, ogni cosa avviene con grande fremito. “Domani e sabato sarà terribile”, ci dice allora un importante funzionario della Rai il martedì sera. Sembra uno dei granatieri di Napoleone alla vigilia di Austerlitz. Mercoledì e sabato Mediaset “controprogramma”, ci spiegano. Insomma Pier Silvio Berlusconi fa concorrenza a Sanremo con Maria De Filippi e poi con il “Grande Fratello”. “Ma perché, scusi, prima Mediaset non faceva concorrenza al Festival?”. Alché il funzionario Rai non risponde. Serra le labbra. Poi fa l’occhiolino. E infine, sempre muto, comincia a girare la mano a mestolo. Come a dire: ci siamo intesi. E ovviamente sembra un film con Lando Buzzanca, mancano soltanto la coppola e il fricareddu. Il problema sono gli ascolti. La pubblicità. Qualcuno, all’ufficio palinsesti Rai, sentenzia: “Mediaset potrebbe rubarci tre punti di share”. Sarà vero? E anche se lo fosse? Boh.

 

Poco prima dell’ingresso di Chiara Ferragni sul palco cominciano a girare voci incontrollate, tipo la partita di pallone durante i film di Fantozzi: “Ferragni va sul palco nuda”. Ohibò. Nuda nuda? “Con le parti intime coperte da dalle toppe”. Toppe? “Sì toppe. Toppe sulle quali sono scritte delle frasi scurrili, gli insulti che ha ricevuto sui social”. Ecco. Al momento in cui scriviamo questo articolo “il fatto nudità” non è ancora avvenuto. Ma elettrizza tutti. “E’ una denuncia sociale. Civile”, spiegano. Roba seria. D’altra parte lo spiega anche il direttore di Rai 1, Stefano Coletta: “Per me il Festival è l’espressione della libertà per ciascuno di portare sul palco il proprio mondo”. Le cose importanti insomma. Dev’essere per questo che sabato non hanno voluto Zelensky in video. E Ferragni? “Cercherò di portare me stessa”, risponde lei. Chissà che sarebbe successo se avesse scelto di portare un’altra.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.