Pamela Anderson (LaPresse)

Ascesa, caduta e rinascita

Il documentario su Pamela Anderson, senza moralismi né risentimento

Andrea Minuz

Ultima dea della tv, prima reginetta del web, l'attrice si diverte ancora. “Pamela: A Love Story” è da pochi giorni su Netflix

La conosciamo fin troppo. Reginetta di Playboy, bagnina di culto in “Baywatch”, specializzata nella corsa in slow motion tra le spiagge di Santa Monica e Malibu, moglie dello scapestrato Tommy Lee, con memorabile sextape incorporato, molto orgogliosa delle sue tette rifatte. Ogni epoca ha le sue muse, Pamela Anderson è toccata a noi. Siamo cresciuti, invecchiati, cambiati con lei. Dai poster in cameretta alle visite a Julian Assange, dai salvataggi in mare per decantare le chiappe all’impegno ambientalista, la tutela del Mediterraneo, l’attivismo animalista, Pamela Anderson ha vissuto tante vite in pochi anni, come i suoi innumerevoli matrimoni. E’ stata anche l’ultima icona sessuale costruita ancora nella coda lunga delle Marylin, delle Jayne Mansfield, delle BB, insomma una cosa del Novecento, rilanciata in salsa blockbuster, con molto silicone.

 

L’ultima icona sessuale costruita nella coda lunga delle Marylin: come eravamo misogini, superficiali, ma come facevamo? Facevamo

 

Lo schema era sempre quello: la “bionda esplosiva” con una carica erotica incontrollabile, all’apparenza un po’ scema, collezionista di divorzi, attratta dal “vero macho”, burbero e innamoratissimo, che puntualmente la corca di botte. Il modello Pamela Anderson era già fuori tempo massimo all’epoca di “Baywatch”. Poi è stato archiviato, rimosso, come qualcosa di cui oggi vergognarsi: oh mio Dio come eravamo maschi, misogini, superficiali, allupati, ma come facevamo? Facevamo. 

 

Sembra essere soprattutto questa la funzione della nouvelle vague di documentari che rivangano vicende passate o vite di personaggi più o meno famosi. Tornare sulle gesta di Wanna Marchi per constatare quanto fossimo scemi a comprare alghe e scioglipancia, o sul caso Emanuela Orlandi per sentirci tutti un po’ orrendamente complici, o su Tiziano Ferro bambino obeso e bullizzato nell’indifferenza generale, o su Whitney Houston sbiancata per farle vendere più dischi. Il documentario come rivalsa e vendetta. Una seduta di analisi collettiva che con perfidia mescola la nostalgia per i bei tempi andati e il senso di colpa per “come eravamo”. Una madelaine indigesta. Un gigantesco backstage di soprusi e sofferenze dietro lo sfavillante luccichio della fama: credevate di conoscermi bene, invece non sapevate nulla di me. Non poteva mancare anche un documentario su Pamela Anderson.

 

La prendevamo in giro come una caricatura, una Jessica Rabbit bagnino, un pagliaccio con le tette a sfera, e intanto lei soffriva, non guadagnava come avrebbe dovuto, provava a recitare sul serio, a difendere la sua famiglia dallo sputtanamento globale del sextape, primo video virale della storia, all’alba di internet, snodo decisivo del collasso della nostra idea di “privacy”. “Pamela: A Love Story” è da pochi giorni su Netflix, uscito con il libro che però ha un titolo più roboante, “Love, Pamela: A Memoir of Prose, Poetry, and Truth” (su Instagram Pamela Anderson è stata anche una pioniera dell’accoppiata versi + tette, e ha composto tra l’altro un’elegia per la morte di Hugh Hefner). Nasce come risposta a “Pam & Tommy”, miniserie Hulu dello scorso anno, uscita in Italia su Disney+, con Lily James nei panni di Pamela Anderson. La serie ruotava intorno alla vicenda del sextape, dal furto delle videocassette al processo, con momenti davvero molto trash, come un monologo di Tommy Lee col proprio pene (allungato con protesi per corrispondere il più possibile al vero: pare che il batterista dei Mötley Crüe riuscisse a suonarci il clacson del suo yacht, non è cosa da tutti). Interpellata più volte sulla serie, che non ha mai voluto vedere, Pamela Anderson ha preferito rispondere con un documentario.

 

“Pamela: A Love Story”, su Netflix, una risposta a “Pam & Tommy” dell’anno scorso, serie che ruota intorno alla vicenda del sextap

 

Il momento era propizio. Nella primavera del 2021, in pieno Covid, ha venduto la sontuosa villa di Malibù, disegnata da Philip Vertoch, per ritirarsi nella vecchia casa di famiglia, dove ha conservato diari, appunti, una marea di videocassette (e qui viene qualche sospetto: dopo quel che è successo, avremmo smesso di riprenderci in continuazione con la videocamera). E’ stato un ritorno alle radici. Un ricongiungimento con il passato in questa specie di ranch adagiato nei pressi di Vancouver, dove è nata e cresciuta cinquantasei anni fa, prima di finire nelle grinfie di Playboy, poco più che ventenne. Il documentario parte da qui. La ex-bagnina di “Baywatch” ci accoglie nella sua magione, immersa nella natura canadese, davanti a un mare molto diverso da quello californiano, tutta vestita di bianco, senza trucco: una Pamela Anderson in versione Joni Mitchell. Una signora alla mano che oggi scherza sulle sue tette, “non è il caso che ve le faccia vedere, non sono più quelle di un tempo” (Pamela Anderson parla delle sue tette in terza persona, come fossero – e in effetti lo sono – un pezzo aggiunto, un’entità, un oggetto autonomo oramai immortalato in un pantheon di “segni” degli anni Novanta, insieme al Gameboy, il Tamagotchi, le tute Adidas, i maglioni sbrindellati di Kurt Cobain o il sax di Bill Clinton). 

 

La storia è nota. Una storia di ascesa, caduta e rinascita, proprio come piace agli americani. Con Pamela Anderson che lo scorso anno si mette in gioco nel mondo del musical, nel ruolo di Roxie Hart in “Chicago”, e contro ogni pronostico sbanca anche Broadway. L’inizio è assai disgraziato. Litigi in famiglia, padre ubriacone, traumi, violenze, molestie. Poi la svolta. La ragazza della sperduta provincia canadese si lancia all’avventura della grande città, come in un feuilleton di Balzac. Diventa famosa per caso, entra nello scintillante mondo di Playboy, si trasforma letteralmente in un’altra persona. “Quando sono arrivata a Los Angeles tutti facevano interventi al seno e ho deciso di farlo anche io”. Vediamo le foto di Pamela adolescente e a stento la riconosciamo. Una ragazza carina come mille altre. Nessun segno che lasciasse presagire una futura dea del sesso, la bagnina bombastica di “Baywatch”, il sogno erotico di moltissimi maschi del pianeta. Per una giovane ragazza mai uscita dal Canada, Playboy è un gigantesco Luna Park. “C’era massima libertà, era pieno di artisti, filantropi, ragazze bellissime”. Hugh Hefner le apre le porte dello show-biz, e Pamela Anderson sarà sempre riconoscente per quelle quattordici copertine della rivista, cosa non scontata in tempi di caccia al patriarcato. Nel 2012 firmerà anche la prefazione di “Playboy’s Greatest Cover”. 

 

Poi arrivano i formidabili anni di “Baywatch”. La generica playmate, una tra le tante, viene spostata al centro della scena. Pamela Anderson diventa “C. J. Parker”, professione bagnina. Un successo planetario. Numeri incredibili. Oggi “Baywatch” è diventato un oggetto di adorazione camp, talmente trash, improbabile e insensato da rasentare l’arte. Ma all’epoca era un fenomeno di costume, è proprio il caso di dire, davvero pazzesco. Il telefilm più visto al mondo. Da noi andava in onda su Italia 1, alle 18.30. Milioni di adolescenti incollati alla tv all’ora dei vespri sognavano di vivere in un’eterna vacanza in California tra moto d’acqua, pick-up della Nissan, muscoli, addominali, tette e culi. Neanche i fan più sfegatati ricordano le trame delle puntate o gli snodi narrativi di una stagione. Tutti però abbiamo impresso quello sfolgorante costume rosso fuoco cucito addosso a Pamela Anderson, diventato nel frattempo “pantone”, uno standard internazionale dei colori: c’è il rosso pompeiano, il rosso Valentino, il rosso Baywatch. Le sue corse sulla spiaggia col salvagente in mano erano naturalmente il climax del telefilm. Si guardava la puntata aspettando la sgambettata in ralenti sull’arenile, come con la fatidica doccia nei film della Fenech. Su Italia 1 si organizzavano i primi binge-watching.

 

Le “maratone Baywatch” andavano avanti fino a notte fonda. C’era qualcosa di ipnotico nel vedere in loop le corse in slow motion di tutti quegli hard-bodies californiani che rotolavano sulla spiaggia: roba da performance, da installazione alla Biennale, da film di Andy Warhol con la stessa inquadratura e lo stesso gesto mandati avanti per tredici ore. Il fenomeno “Baywatch” era incontrollabile. Da noi spuntavano Pamela Anderson un po’ ovunque, soprattutto a Ostia, a Fregene, a Sabaudia, dove una bagnina bionda con la quarta o la quinta era il nuovo richiamo degli stabilimenti alla moda. “Ho rubato il posto a Pamela Anderson”, confessava anche Pamela Prati, “mi hanno scelto al suo posto per fare la testimonial di uno spot sulle prugne della California” (lo spot però non ce lo ricordiamo, l’avrà girato con Mark Caltagirone). 

 

Pamela Anderson era il simmetrico opposto di Kate Moss. Emaciata, scavata, magrissima, la modella inglese era un’icona blasé e maledetta, ispirazione per le ragazze upper class che sfogliavano Vogue e ascoltavano l’indie-elettronico e il britpop. Ma le borgatare volevano essere Pamela Anderson. “Volevo rifarmi il seno come lei e avevo messo in croce i miei genitori”, scriveva al Corriere una “ragazza della periferia di Roma est”. “Ma al Policlinico Umberto I c’era una lista d’attesa infinita, così sono andata in una clinica privata. Io le volevo grandi, grandissime, visto che dovevo spendere tutti questi soldi che almeno fossero giganti. Sognavo di risvegliarmi dopo l’intervento come Pamela Anderson. Invece fu orribile. Erano una più grande dell’altra, mi facevano male, mi vennero delle infezioni, mi sono rioperata tre volte, un disastro”. Pamela Anderson invece se le riduceva. Non si capiva se per qualche problema di rigetto, o se per adeguarsi al nuovo trend dell’“autenticità”, che iniziava a farsi strada anche nella moda.

 

Quando nel 1996 sbarca a Cannes per tentare il grande salto nel cinema, per dimostrare che oltre a correre sulla spiaggia sapeva anche recitare, sembra un alieno. Le vere attrici sono severe, altezzose, senza trucco, senza curve, senza sorriso, molto dolenti per il peso dell’arte che trascinano sul red carpet. Pamela Anderson sulla Croisette è un disegno di Milo Manara. Un fumetto. Come il personaggio del suo film, “Barb Wire”, che si rivelerà un vero disastro, troncando sul nascere la sua carriera cinematografica, tranne qualche cameo più o meno geniale, in “Scary Movie 3” o in “Borat”. 

Nel documentario fa una certa impressione vedere come la sfottevano nei late-show americani al tempo del famigerato sextape. L’idea era che fosse tutta una trovata pubblicitaria. Del resto, Pamela Anderson e Tommy Lee si filmavano in continuazione. Come Kim Kardashian o i Ferragnez, ma senza i social. Erano ancora convinti che tutto quel materiale sarebbe rimasto nel cassetto. L’idea di privacy era invece destinata a scomparire per sempre di lì a breve. Fu chiaro a tutti, prima durante e dopo il processo, che nessuno, nella nuova èra di internet, sarebbe più stato in grado di controllare la propria immagine. Pamela Anderson è stata un esperimento. La cavia. Il numero zero. Ci ha traghettato dall’èra televisiva a quella dei video virali. Ha spianato la strada ai sextape di Paris Hilton e Kim Kardashian, quest’ultimo decisivo per far decollare la carriera della prima reginetta di Instagram. Quella di Pamela Anderson invece inizia a crollare lì. Così sostiene lei. 

E’ anche vero che chiuso “Baywatch” per mancanza di spettatori non era facile piazzarla da altre parti. Quell’epoca era finita. Nella metropolitana di Londra si censuravano i suoi poster in costume da bagno. Una casa di cosmetici la sostituì come testimonial, preferendole una drag queen. La sua bellezza era “out”. Eccessivamente femminile. Troppe tette. “Il consumatore è stufo di queste ovvietà”, scrivevano nel comunicato i responsabili della linea di cosmetici, “l’immagine della Anderson è piccolo borghese e superata”. “Ero certa che avrei ottenuto lo spot”, commentava lei, “l’idea di essere battuta da un travestito è umiliante”. Era il 1999. Nello stesso anno il Wall Street Journal le dedicava un articolo in prima pagina: “Quando la storia finanziaria di internet verrà finalmente scritta, il nome di questa attricetta di serie B apparirà tra i mostri sacri, accanto al fondatore di America Online, Steve Case”, ricordando però che “tutti su internet si erano arricchiti con quel video, tranne lei”. Il succo della sentenza era che finire sulla copertina di Playboy o nel video hard più scaricato della rete era un po’ la stessa cosa.

 

Alla fine del documentario resta la tentazione di vedere nella sua storia la prova di un incredibile resistenza. Strano non si sia ritirata in un convento o non sia morta per overdose di barbiturici. A differenza di molte bionde hollywoodiane che l’hanno preceduta, Pamela Anderson sembrava invece sempre consapevole di ciò che le stava accadendo. Persino quando si sposa sulla spiaggia di Cancun, in bikini, dopo una notte tra ecstasy e champagne con Tommy Lee, incontrato in discoteca la sera prima. “Ecco come l’ho affrontato. Non so voi, al mio posto, cosa avreste fatto, ma io sono sopravvissuta in questo modo”, dice Pamela Anderson. Non c’è risentimento. Non è un documentario sulle conseguenze nefaste del successo. Non è colpa del patriarcato, della misoginia, del tritacarne dello show-business se le cose sono andate così. Del resto, sono andate assai meglio di come se le poteva immaginare la ragazzina di un villaggio di settemila abitanti, buttato davanti l’oceano, nel distretto della Columbia Britannica. Sua madre trova in fondo la morale migliore: “Io non sono mai finita su Playboy, ma solo perché nessuno me l’ha mai chiesto”.

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