Serie tv
Da tanto non vedevamo gente così arrabbiata e ben scritta come in “Beef”
Ali Wong e Steven Yeun sono esplosivi nella serie di Lee Sung Jin, che ha tirato un po’ su l’asticella di Netflix dopo un mucchio di uscite poco entusiasmanti. Dietro c’è la casa di produzione che ha appena vinto l’Oscar al miglior film
Probabile che vi sfugga il nome di Ali Wong, comica con tre monologhi strepitosi su Netflix – due su gravidanza e parto, recitati con il pancione messo in bella evidenza da un vestitino stretto e corto. Sconsigliabili alle anime sensibili (o convinte che i pupi li porti, già belli puliti, la cicogna). Steven Yeun era in “The Walking Dead”, ma siccome non tutti gradiscono le storie di zombie, lo si ricorda meglio in “Minari” (di Lee Isaac Chung): famiglia coreana trasferita in Arkansas, per primo lavoro controllano il sesso dei pulcini, questo è maschio questa è femmina. Insieme, sono esplosivi. Di rabbia, di vendetta, di voglia di non darla vinta all’altro, come due bestie che lottano per lo stesso boccone di carne. Accade nella serie “Beef” di Lee Sung Jin. Su Netflix, che ha vinto l’asta per i diritti e ha messo dieci episodi in produzione senza passare dal pilot. Dietro, al solito, c’è la casa di produzione indipendente A24, Oscar per il miglior film con “Everything Everywhere All at Once”. Fondata una decina di anni fa, a New York che è tanto lontana da Hollywood, finora non ha sbagliato un colpo.
E’ riuscita a tirare un po’ su anche l’asticella di Netflix, dopo un mucchio di serie e miniserie poco entusiasmanti. Il titolo italiano – “Lo scontro” – bada alla rissa automobilistica e non a quel che succede dopo. Una catena di ripicche e vendette, tra una ricca con il candido Suv e un povero con il pick-up male in arnese. Un colpo di clacson, un dito medio fuori dal finestrino, un inseguimento sulle aiuole fiorite. Nemici, al di là delle differenze di classe. La spazzatura scaraventata sul parabrezza dell’inseguitore, oscurando la visuale, chiude il primo scontro. La signora con il macchinone – Ali Wong in “Beef” si chiama Amy, cinese di origine – ha una sua azienda di piante. Redditizia, ora in vendita per passare più tempo con il marito e la figlia. Si capisce che muore d’invidia per il giapponese suo sposo, figlio d’artista e scultore a tempo perso – insomma, casalingo: i soldi a casa li porta lei. Il muratore coreano Danny ha problemi più pratici. I lavori che non entrano, i clienti che non pagano, qualche affare non proprio pulito, con le cattive compagnie che sempre mandano a monte tutto.
Lo scontro tra i due – risalgono alle rispettive identità con cellulari e social – riparte con Danny che si presenta a casa di Amy, si offre come tuttofare, chiede del bagno e piscia sul pavimento e i tappetini candidi. Lei in risposta prende la vernice e scrive sul pick-up insulti che terrebbero lontani qualsiasi persona assennata in cerca di un idraulico. La rabbia in California ricorda “Un giorno di ordinaria follia” di Joel Schumacher. Ma Michael Douglas, anche lui furioso per una questione automobilistica, sparava con la camicia a maniche corte. Qui Jordan – l’attrice Maria Bello, in trattativa per comprare la ditta di Amy – vive tra tisane, massaggi rilassanti, fettine di qualcosa sotto gli occhi per ridurre le occhiaie. Più lontani ancora siamo dal “Cane di paglia” di Sam Peckinpah: da tanto su uno schermo non vedevamo gente molto arrabbiata (e ben scritta). A Netflix devono aver azzerato l’algoritmo, dopo aver vinto l’asta e riflettuto sulla cifra pagata. Non aveva senso piallare la sceneggiatura, e far diventare “Beef” una serie qualunque. Da qui la raffinata confezione. Quadri per introdurre i 10 episodi – li ha dipinti David Choe, che nella serie ha il ruolo del cugino Isaac, gran pasticcione nel team Danny. Frasi a effetto per i titoli degli episodi. Ora Werner Herzog, ora la poetessa Sylvia Plath, ora la femminista Betty Friedman, ora Franz Kafka: “Sono una gabbia / in cerca di un uccello”.
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