L'intervista
Balassone: "Fazio ha lasciato una Rai consumata. Ma la Rai di Meloni non è in grado di tappare quel buco"
"A Viale Mazzini c'è uno stato di monumentalizzazione che è l'anticamera del cimitero", ci dice l'ex vicedirettore di Rai Tre. Ora la sfida è riempire lo spazio di Che tempo che fa: "Non so se la destra sia in grado di farlo: i suoi valori di riferimento non parlano alla comunità"
“Le persone vanno via dalla Rai soltanto perché fuori trovano offerte più convenienti”. A sentire Stefano Balassone, vicedirettore di Rai Tre ai tempi di Angelo Guglielmi, la dipartita di Fabio Fazio da Viale Mazzini fa luce più sui guai della televisione pubblica che su un tentativo di epurazione. “Diciamo che in altre situazioni forse avrebbero insistito per tenerlo, ragionando sul palinsesto, sul ruolo o sul compenso. Ma stavolta Salvini aveva bisogno dello scalpo e hanno fatto il resto le condizioni fisiologiche a cui si è ridotta la Rai in ragione del suo rapporto consumato con la politica”, dice Balassone, che per curriculum e analisi conosce molto bene la realtà di Viale Mazzini e il sistema dei media in generale. Sintesi: “In una squadra oltremodo infiacchita c'è qualcuno che ha tirato un gol in rete”.
Per Discovery è un bel colpo: si aprono possibilità interessanti e perché no, magari nascerà un Letterman Fazio show, immagina l'ex consigliere di Viale Mazzini mettendosi nei panni di quegli allenatori che non hanno più una squadra. Per la Rai invece è un colpo al contrario, perché mette in luce tutta la ruggine che blocca gli ingranaggi. “Nel prime time, a parte qualche alzata di genio della fiction, c'è un piattume che tende a essere inesorabilmente sempre più piatto. E le risorse che fuoriescono non sono sostituite, è successo con Floris ma non solo”. Il problema però non è tanto l'insostituibilità dei personaggi ma che “la dirigenza Rai ha dimenticato come si fa”, che l'azienda non è più “fertile”. Un motivo c'è: “Manca il rapporto tra editori e autori. Quando gli editori non sono soggetti ma oggetti, come nel caso della Rai, non c'è confronto e non c'è nulla da fecondare. Non si possono scoprire e far crescere talenti, perché per farlo c'è bisogno di un ambiente dove mettere in gioco se stessi con virtù e limiti: è così che nascono i conduttori di successo, perché nessuno nasce imparato”.
Eppure non è sempre stato così. C'era una Rai diversa e Balassone torna indietro di qualche decennio per raccontarla. “Penso agli ultimi fuochi della tv lottizzata dai partiti, quando questi sì erano truppe grosse e ingombranti ma avevano dentro pezzi cospicui di realtà: erano capaci di dare vita a una tv competitiva dall'interno. La soluzione di spartire l'azienda come se fosse una holding con dentro imprese concorrenti una con l'altra era sicuramente orrenda dal punto di vista manageriale, ma canalizzava delle potenzialità e delle voglie di espressione. Erano i primissimi anni 80 e dopo quelli si è vista solo una calma piatta prolungata che ha spinto la televisione pubblica su un piano inclinato. L'accelerazione c'è stata quando la tv generalista si è trovata non più sola e ha cominciato a perdere il pubblico d'élite che si è spostato sulle piattaforme”.
Oggi invece non si intravedono fattori interni competitivi capaci di smuovere qualcosa. Per questo Fabio Fazio che se ne va mette in luce più il buco che lascia che la possibilità di nuovi progetti. “Vedremo cosa succederà a ottobre, ma credo che a perderci in questa situazione sia l'azienda”. Anche perché, è il ragionamento, il tema non è tanto quello di sostituire un volto ma ciò che intorno a quel volto si è costruito negli anni. E qui oltre agli ingranaggi manageriali arrugginiti va considerata anche la metamorfosi politica all'interno dell'azienda: “Si creerà un buco che la Rai di Meloni non è in grado di tappare. Attorno a Fazio si è raggrumato un rito seral-domenicale. C'è un pubblico anziano ma anche curiosi di vario tipo, amalgamati dal fatto di riconoscersi in una funzione comunitaria della comunicazione, in una serie di valori che valgono per tutti. Non so se la destra sia in grado di replicarlo, né tantomeno se abbia qualcuno capace di interpretare qualcosa dello stesso tipo in chiave diversa rispetto a quella del progressismo liberal. Perché a me sembra – continua – che il quid della destra italiana sia piuttosto un particolarismo individualista che al massimo può detestare dei contenuti, ma che tutto fa tranne che fidelizzare un pubblico specifico”. Visti così, anche i servizi indignati che vanno in onda in prima serata su Rete 4 sono “agitazione alla Petrolini o il raduno di una tribù a-valoriale”.
Sul fondo resta il pantano in cui è finita l'azienda. “C'è uno stato di monumentalizzazione di format e conduttori – dice Balassone – che è l'anticamera del cimitero”. Un'azienda a un passo dalla sepoltura. “L'unica cosa possibile nell'interesse del paese sarebbe che la Rai venisse resa dal Parlamento soggetto anziché oggetto, ma il problema nasce dal Parlamento stesso che non vuole togliersi dalle mani il giocattolo. Se continua così finirà col romperlo”.