Che brutto tempo che fa alla Rai
Catalizzatore di discorsi politici e di vecchi modi di intendere la tv, la rete pubblica paga il gigantismo di una struttura che non ce la fa a tenere il passo della modernità. Il caso Fazio e i ribaltoni spiegati dal principe della critica, Aldo Grasso
A ogni ribaltone Rai, lo cercano tutti. Nel giro di nomine, contronomine, dimissioni, estromissioni ci si dimentica sempre che al fondo c’è una cosa chiamata televisione, col suo pubblico, i suoi assetti, il saperla o non saperla fare. Dopo le reazioni del governo e dell’opposizione, dopo i tweet bambineschi di Salvini, dopo gli editoriali di partito, per avere un punto di vista non intossicato bisogna sentire cosa ne pensa Aldo Grasso, principe della critica televisiva. Sulle pagine del Corriere, Grasso ha rivendicato subito il diritto di difendere Fabio Fazio, proprio perché non gli ha mai risparmiato critiche (critiche a una tv troppo “perbene e ossequiosa, melensa, sentimentaloide, corretta e a volte un po’ marzullesca”). Era però anche una tv che funzionava, che si è allevata un pubblico e inventata uno spazio che prima non c’era. Si può insomma difendere Fazio, senza amare troppo la televisione che fa, tantomeno infilandosi nel coro delle orazioni funebri, dell’“editto bulgaro” e di chi scopre le truci logiche della lottizzazione nella primavera del 2023.
“Tanto per cominciare, Fazio non è stato messo in mezzo a una strada. Si capisce che era affezionato alla Rai, questo è ovvio. E’ lì che si è costruito il suo pubblico. Si capiscono anche le ragioni della sua apprensione: quello della tv generalista è un pubblico che non transita facilmente da un canale all’altro”
“Tanto per cominciare”, dice Grasso, “Fazio non è stato messo in mezzo a una strada. Non so nulla delle cifre che prenderà, ma di certo non ci rimetterà. Si capisce che era affezionato alla Rai, questo è ovvio. E’ lì che si è costruito il suo pubblico. Si capiscono anche le ragioni della sua apprensione: quello della tv generalista è un pubblico che non transita facilmente da un canale all’altro, come i giovani con le piattaforme” (ecco, per esempio, nei giorni seguenti, gli specchietti su Repubblica e il Corriere, “dove si trova il canale Nove”, come tutorial per anziani alla ricerca di Fazio sul telecomando). Insieme alla lottizzazione, che vale per tutti, bravi e meno bravi, c’è però l’idea ormai radicata che un posto in Rai è per sempre. “Sì, certo”, dice Grasso, “questo è un altro problema, non c’è solo l’ingerenza della politica ma la presunzione che si possa disporre della Rai in modo permanente. L’idea del ricambio generazionale, la possibilità che possa addirittura arrivare uno più bravo di te non sfiora mai nessuno in Rai. Lucia Annunziata è stata presidente della Rai, dopo un ruolo di vertice del genere potresti anche cambiare aria, invece no, torna indietro e si riprende un programma”. E’ il fascino imperituro del posto fisso e delle dinastie Rai, come gli Agnes o gli Angela per i documentari. E’ il “familismo della Rai”, come lo chiama Grasso, “ben rappresentato fino all’altro ieri da quella regola per cui rinunciando a un pezzo di pensione potevi fare entrare figli e nipoti, una cosa intollerabile per un ente pubblico, ma normale in Rai”.
In questa storia comunque non c’è solo la Rai che perde Fazio, c’è anche Discovery che porta avanti una campagna acquisti iniziata con Crozza. “Un’operazione di rafforzamento, per provare a fare una televisione semi-generalista, anche se con Crozza speravano di fare molto di più, speravano in una maggiore visibilità, mentre appunto bisogna ancora spiegare dove sta il canale Nove. Secondo me c’è stato anche qualche errore di strategia”. Quale? “Prendere Travaglio, Gomez, fare accordi con Loft Tv, la tv del Fatto Quotidiano, sono scelte già di per sé divisive, e anche Crozza in questo senso li ha delusi perché arrivato sul Nove si è per così dire radicalizzato, è diventato più ideologico. La mia impressione è che loro sperassero in un format più classico, un appuntamento fisso in cui si poteva riconoscere una fetta di pubblico più trasversale. Invece è diventato un programma di imitazioni che parla solo a chi la pensa come lui, se poi aggiungi Travaglio….”.
“L’uscita di Fazio è anche una mossa contro Mediaset, favorisce un canale in concorrenza diretta. Sembra fatta solo per accontentare le smanie e i capricci di Salvini”. “Ci si chiede perché fare fuori Fazio e non, ad esempio, Berlinguer o ‘Report’”. “E’ comunque sulla fiction che si giocherà la battaglia più interessante”
Fazio a Discovery serve quindi a riequilibrare una tv che si è spostata, forse suo malgrado, verso un target ideologico. Ma è anche l’ennesima operazione di Beppe Caschetto, già manager di Crozza, “con il canale Nove”, dice Grasso, “che rischia di diventare TeleCaschetto”. Insomma, questa di Fazio è una vicenda davvero bizzarra. Non si spiega solo con le leggi della solita lottizzazione. Tanto per cominciare, un governo con dentro Berlusconi va a rafforzare un competitor di Mediaset. Quindi una manovra contro “l’egemonia della sinistra” che diventa invece un dispetto al Cav. “Sì”, dice Grasso, “l’uscita di Fazio è anche una mossa contro Mediaset, favorisce un canale in concorrenza diretta, quindi una cosa davvero inspiegabile. Sembra fatta solo per accontentare le smanie e i capricci di Salvini. In più, con il nuovo corso che si apre, qualche retequattrista potrebbe finire in Rai, sbilanciando e indebolendo di nuovo l’assetto di Mediaset. L’uscita di Fazio è anche l’ultimo tassello di un percorso davvero anonimo, quello di Fuortes, che non ha cambiato o lasciato nulla, e che non era così legato ai partiti. Mi ha stupito poi Marinella Soldi, anche lei voluta da Draghi, una con una formazione anglosassone” (e che veniva per l’appunto da Discovery), “una che conosce il mercato televisivo, che non ragiona con le bandierine che devono piazzare i partiti, ma che pure si fa scappare Fazio. Ecco, una cosa del genere a Discovery non gliel’avrebbero mai fatta fare. Ma c’è anche dell’altro”. Cosa? “Ci si chiede perché fare fuori Fazio e non, ad esempio, Berlinguer o ‘Report’, programmi sicuramente più discutibili, non così forti negli ascolti, con un taglio ideologico più evidente rispetto all’entertainment pacato di Fazio. Qui ci sono due risposte possibili: la prima è che i giornalisti in Rai non li puoi toccare, sono iperprotetti, metterti contro di loro non conviene. L’altra è che a Fratelli D’Italia, come anche ai Cinque stelle, non dispiace una trasmissione con Orsini ospite fisso. Adesso al governo devono stare con Zelensky, ma fino all’altro ieri stavano quasi tutti con Putin, e qual casino che si fa nella trasmissione di Bianca Berlinguer, con le sparate di Orsini o di Mauro Corona, tutto sommato non dispiace a nessuno”. Insomma, bisogna pur tutelare i tanti pacifisti putiniani d’Italia, un elettorato molto trasversale e un pubblico assai caro a Bianca Berlinguer (immortalata a suo tempo da Grasso con il memorabile, “aveva un cognome ma non ha saputo farsi un nome”). “Quanto a Report, si sa, è una trasmissione protetta dai Cinque stelle, Ranucci è molto amato dall’avvocato del popolo, e si risolve così anche il problema della mancata copertura legale del programma che denunciava Gabanelli”.
La conferma di Report è stata sbandierata come una vittoria della Resistenza, le barricate intorno al pluralismo e all’indipendenza del giornalismo, “Report non si tocca!”, come scrivono sui social i Cinque stelle, contro tutte le caste ma strenui difensori del partito dei giornalisti Rai. Ecco allora la Rai di Roberto Sergio e dell’ideologo Gianpaolo Rossi, due veterani di viale Mazzini ma anche due outsider, soprattutto Rossi, con un curriculum che mette insieme la scuola di Colle Oppio e quella di Francoforte, Marcuse e Pasolini, il think-tank della Link University, un po’ di Putin e il manifesto di Enrico Michetti per un rinnovato splendore di Roma.
Come sarà questa nuova Rai tolkieniana? “E’ sempre interessante vedere l’innesto dei personaggi di destra che dovranno per forza di cose andare in Rai”, dice Grasso, “si parte sempre dal solito Buttafuoco, che molti anni fa aveva ideato e condotto un bel talk, ‘Sali & Tabacchi’, che poi gli chiusero, ma era davvero un bel programma. Poi c’è Giuli. Poi Marcello Veneziani, che però ha una faccia davvero poco televisiva, un po’ truce. Poi dovranno mettere su l’opera omnia del Vate, Gabriele D’Annunzio raccontato da Giordano Bruno Guerri. Però il grande immaginario della Rai si gioca sempre sulla fiction”, prosegue Grasso. “Ricordo ai tempi di Ciampi, c’era questa idea della fiction condivisa… era la Rai di Saccà e lui risolse tutto con agiografie a getto continuo: storie di personaggi che coprivano tutto il pantheon dell’arco costituzionale e così accontentavi tutti”. Anni meravigliosi, biografie scolastiche e sfrenatamente trash a ripetizione, De Gasperi, Madre Teresa, le Cinque giornate di Milano, il Grande Torino, Meucci, Bartali, Falcone, Einstein, una prosecuzione col canone del pantheon veltroniano. “Però oggi mi pare complicato ripartire da una cosa del genere”, prosegue Grasso, “la fiction Rai è migliorata parecchio, si è assestata sui generi più consolidati, il giallo, il crime, il poliziesco, è difficile immaginare una fiction condivisa o divisiva su queste cose, ma è comunque qui, sulla fiction, che si giocherà la battaglia più interessante”.
Puntuali come le rate del mutuo, arrivano sempre dopo ogni grande ribaltone le grandi domande esistenziali sulla Rai. Partiti a parte, a cosa serve oggi? “La Rai è ancora una grande azienda, forse troppo, cioè spropositata rispetto al mercato italiano, ed è naturalmente un catalizzatore di discorsi politici e di vecchi modi di fare e intendere la tv. Andrebbe snellita, andrebbe sintonizzata sulle esigenze del servizio pubblico. Ma questo lo si dice da decenni. L’altra sera, per esempio, non c’era una diretta sulla tragedia dell’Emilia-Romagna. Nulla. In nessuno dei principali canali Rai. C’era invece su Rete4. Ecco, questo per il servizio pubblico è assurdo. La Rai paga il gigantismo di una struttura che non ce la fa a tenere il passo della modernità”. E qui va dato atto a Campo Dall’Orto di averci provato forse più di tutti, e di aver lasciato in eredità una piattaforma come RaiPlay che, strano a dirsi, funziona. Di sicuro meglio di quella di Franceschini, It’sArt. “E’ vero”, prosegue Grasso, “affiancare la piattaforma è stata una grande mossa di Campo Dall’Orto, ma dovrebbero investire in tecnologia, perché RaiPlay comincia già a essere obsoleta, quello delle piattaforme è un mercato che evolve in continuazione, non lo so se Sergio e Rossi investiranno di più sui contenuti, per recuperare la parte mancante della destra, e dunque fiction su D’Annunzio e agiografie varie, o se avranno l’intelligenza di investire in tecnologia”.
Ma la tecnologia non scalda i cuori come la narrazione, sfoderata anche da Fazio per spiegare la sua uscita di scena. Parola emozionale di cui non se ne può più. “Una parola tossica, orribile”, dice Grasso, “era bella magari all’inizio, c’era questa irruzione dello storytelling, studiavamo la serialità americana, ma poi abbiamo subito iniziato a usarla a sproposito, per qualsiasi cosa. Come quelli che invece di parlare di ‘problemi’ dicono che c’è ‘una problematica’, soprattutto quando si parla di Rai, certo la Rai è tutta una problematica”.
Quando gli si chiede la cosa migliore che c’è in Rai, Grasso però non ha dubbi, “il canale più bello della Rai è Rai Cultura, che è l’alibi del servizio pubblico, il canale che dà un senso alla missione statale, e proprio non si capisce come mai uno come Edoardo Camurri non possa andare su Rai Uno”. Forse perché non dice mai “narrazione”.