la storia
La miracolosa longevità di “Un posto al sole”
La fiction che ha reso protagonista Napoli è in onda da quasi 27 anni. Le intuizioni di Minoli, la fedeltà degli attori che invecchiano in scena e quella del pubblico
Era quasi mezzanotte quando Elvira Sellerio, tormentata da un pensiero che non la faceva dormire, telefonò a Giovanni Minoli. Lei consigliere d’amministrazione della Rai “dei professori”, presieduta dal trentino Claudio Dematté; lui direttore di Rai 2, poi di Rai 3 e responsabile dei format, ma in quel momento soprattutto privilegiato confidente dell’editrice palermitana.
Gli racconta che a viale Mazzini hanno deciso: per fare cassa bisogna vendere il Centro di produzione Rai di Napoli, ma per deliberare occorre l’unanimità del cda. E lei, unico consigliere meridionale, è a dir poco contraria (“dovranno passare sul mio cadavere”). Però ci vuole una proposta: “Tu, Gianni, ce l’hai?”. Lui ce l’ha ed è un tantino ambiziosa (eufemismo per folle): “Trasformiamo il Centro di Napoli nel motore industriale della fiction seriale italiana”. Rassicurata comunque, la signora dell’editoria può finalmente addormentarsi mentre il sonno è passato a Minoli, il quale comincia a elucubrare quella notte stessa l’idea che lo solletica da tempo: gliel’hanno data i produttori australiani della Grundy con la fiction a lunga serialità Neighbours. Nel quinto continente è un successone, ma Napoli è lontana. Chissà se è possibile importare quelle piccole storie di vicinato e se si adatteranno al pubblico italiano. E soprattutto, come realizzare il progetto mancando ogni specifica esperienza tecnica, autoriale e produttiva.
Ci avrebbero creduto in pochissimi a metà degli anni Novanta, come pochissimi erano quelli che s’interrogavano sul futuro della Rai generalista quando i prodotti premium, dalle partite di calcio alle primizie cinematografiche, sarebbero diventati probabile appannaggio delle tv a pagamento.
Venne concepita così, quella notte, la soap opera Un posto al sole, gramsciana “saga nazional-popolare” par excellence ma con l’esito inimmaginabile di uno share così alto e costante da durare fino a oggi, quasi ventisette anni dopo la prima puntata, che andò in onda il 21 ottobre 1996 su Rai 3.
La prima matrice del successo, che all’inizio provocò liti furiose tra Minoli e il produttore australiano Wayne Doyle, fu il riadattamento del format originale alla dimensione sociale napoletana con l’imposizione di un produttore esecutivo che conoscesse la realtà locale. Per partire e per reggere il ritmo di cinque puntate a settimana fu necessaria l’invenzione di una squadra numerosa e dedicata, che sarebbe diventata il primo nucleo di una industria in cui da allora a oggi hanno lavorato migliaia di persone. “Bisognò risolvere anche enormi problemi sindacali”, ricorda Minoli, “perché alla lunga serialità serve una impostazione tayloristica, che ci obbligò a cambiare le tipologie contrattuali. Il Centro di produzione diventò così anche un’isola di sperimentazione sindacale, che sarebbe stata impossibile senza l’intelligenza e la disponibilità del personale”.
L’audience premiò da subito l’azzardo e suscitò nel tempo diversi tentativi di imitazione: il più riuscito fu CentoVetrine, la soap opera di Mediaset ambientata a Torino, che resse quindici stagioni per un totale di 3.318 puntate. Cancellata nel 2015 per il calo progressivo di share, sopravvisse con una coda mattutina su Canale 5 fino all’estate 2016. Molto più sfortunato e di breve durata l’esperimento di Agrodolce, realizzato per Rai 3 negli studi di Termini Imerese e girato in esterni sulle coste siciliane: 230 puntate in onda tra le estati 2008 e 2009 con un picco del 9,8 per cento di share, ma gli ingranaggi produttivi non risposero alle attese narrative.
Il miracolo non soprannaturale di Un posto al sole ha contribuito con la sua longevità al nuovo racconto globale di Napoli quanto o più del cinema e della letteratura, anche se ci volle tempo prima che i napoletani stessi se ne convincessero. Minoli ricorda i giri a vuoto degli inizi in cerca di un sostegno per completare il budget: il sindaco dell’epoca, Antonio Bassolino, rispose che non c’era bisogno di quella produzione; l’Unione Industriali non lesinò gli incontri, ma non credette all’opportunità di “vendere” l’immagine della città che si riproponeva senza oleografia, però attraverso le inquadrature splendide di Palazzo Palladini a Posillipo (nella realtà Villa Lauro), il condominio dove nacquero, e s’intrecciano, le vicende della soap. “Il solo che ci credette subito”, dice Minoli, “fu l’amministratore delegato delle Ferrovie, Lorenzo Necci, il quale elargì il contributo a condizione di inserire nella fiction il personaggio di un pendolare che viaggiava su un treno efficiente e pulito”. Arrivarono dopo i complimenti di Umberto Agnelli, che paragonò Un posto al sole alla fabbrica di Pomigliano, e di Fedele Confalonieri: “Questo è servizio pubblico. Spendere i soldi del canone per fare formazione professionale”. Quasi ogni napoletano conosce qualcuno che negli ultimi decenni ha collaborato a quest’industria della fiction e sono dodicimila gli aspiranti attori provinati e archiviati.
Il tempo non soltanto è galantuomo, ma è un abitudinario. E l’industria non soltanto è fatta di profitti, ma di sentimento. Un posto al sole è una industria sviluppata attorno all’emotività di personaggi che quotidianamente crescono e invecchiano con e come i telespettatori, su una linea biografica in cui è possibile anche l’uscita di scena, un’assenza prolungata o il ritorno, l’avvento di facce nuove talvolta effimere talaltra durevoli, mentre salta uno stereotipo caro agli snob: Un posto al sole non è soltanto il pane delle casalinghe, ma vanta un pubblico maschile e trasversale, a volte colto o giovanissimo, distribuito ugualmente fra il nord e il sud, sparso anche all’estero. Fidelizzato addirittura attraverso le generazioni.
Ormai sono già tre. Lo racconta Marina Tagliaferri, l’attrice romana che dopo una brillante carriera teatrale si è consolidata tra i personaggi storici della fiction nei panni di Giulia Poggi, assistente sociale femminista ma nutrita di sentimenti antichi: “C’è chi mi ha raccontato che mi vedeva quando aveva una bambina piccola, la quale intanto si è sposata e ha fatto un figlio con cui guarda a sua volta Un posto al sole”. I personaggi invecchiano ma è come per i membri di una famiglia: a furia di frequentarli ogni giorno, ti accorgi degli anni solo quando ci rifletti. Oppure quando, dopo tanto che non li vedevi, tornano all’improvviso nella fiction e stravolgono l’immagine serbata nella memoria: accade in questa stagione, che ripresenta dopo più di vent’anni Luca De Santis con cui Giulia visse una relazione sentimentale. Per l’attore Luigi Di Fiore non è il makeup, ma il passaggio naturale del tempo che rende autentica, più che credibile, la trasformazione sul set. “Se rivedo una puntata dove c’è Giulia Poggi di vent’anni fa non penso a lei, ma a me com’ero perché il suo volto è mio. Non c’è schizofrenia: Marina e Giulia, attrice e personaggio, non si sono sdoppiate ma compenetrate”. Persino quando Marina ha prestato al set il suo cagnolino Bricca, che è stato scritturato nella fiction. Scrive Borges: “In fin dei conti, al risveglio, non c’è nessuno che non incontri se stesso. E’ quello che ci sta accadendo ora, solo che siamo in due”.
Nessun disagio anche per Patrizio Rispo, che impersona Raffaele Giordano, portiere da sempre di Palazzo Palladini: “Dal pubblico non siamo più percepiti come attori di una fiction, ma come se i personaggi che interpretiamo fossero reali. Quando m’incontrano per strada io sono Raffaele, mi abbracciano e mi baciano come un parente che vedono tutte le sere. Mi dico sempre che sono un sano bipolare”, ironizza Rispo. “Sono il frutto di Patrizio e Raffaele e a questo punto non m’immagino più come sarei se non ci fosse stato Raffaele. Sarei però sicuramente una persona meno ricca, perché con il mio personaggio ho toccato tante corde di passione, di sofferenza o di divertimento che hanno finito per allargare la mia vita”.
Giulia, Raffaele e gli altri sono anche il nostro specchio. Se dal televisore potessero guardare noi come guardiamo loro s’accorgerebbero, quando uno spettatore ha disertato la soap opera per molto tempo, di quanto è cambiato tornando davanti allo schermo. Sono loro il nostro specchio anche per certe trame biografiche. Non è come nelle fiction americane in cui i protagonisti si contendono clamorosi patrimoni e corone di bellezza: a Palazzo Palladini le vicissitudini somigliano nel bene o nel male alle nostre, mai troppo rosa e mai troppo nere (anche se nelle oltre 6.200 puntate non sono mancati l’omicidio, la camorra, gli stupri, la droga, il bullismo, l’usura, la ludopatia). L’incastro fra il tempo della fiction e il calendario reale è tra i segreti del successo. Così lo spiega la giovane studiosa bolognese Antonietta Chirico nel saggio Un posto al sole: la produzione di una longeva soap opera italiana: “Sapendo quando andranno in onda le singole puntate, gli sceneggiatori riescono a far coincidere il tempo della trama di finzione con quello degli spettatori, ad esempio nel periodo natalizio, in quello degli esami, dell’inizio delle vacanze etc. Più in generale è importante che il tempo, scorrendo, dia allo spettatore il senso della quotidianità: le vite si evolvono anno per anno, la generazione dei figli cresce mentre quella dei protagonisti storici gradatamente invecchia”.
Nel ‘98, quando è nata Chirico, Un posto al sole aveva già due anni e il suo volume, uscito a marzo scorso, è solo l’ultimo di una nutrita serie di libri dedicati alla fiction o che in qualche modo ne derivano, tra cui quelli di Marina Tagliaferri (Un posto… a tavola), appassionata di cucina, e di Patrizio Rispo (Un pasto al sole), che ha aperto anche una pizzeria, la Tucci’s, dove ogni domenica si mette dietro ai fornelli. Sulla pasticceria ne sa qualcosa in più Germano Bellavia ossia Guido Del Bue nella soap, dal fisico cospicuo e dal carattere lieve, cresciuto nel negozio di famiglia celebre a Napoli per cassate e pastiere. Quando stava alla cassa doveva sopportare, vieppiù crescendo la popolarità della fiction, vieppiù clienti che lo chiamavano Guido.
L’industria della finzione si carica di sentimento e ne imbeve pure la vita. Per gli sceneggiatori di Un posto al sole, osserva Chirico, “la lotta costante è quella della credibilità: c’è un’attenzione molto forte a mantenere i personaggi il più possibile credibili e coerenti, ma si presenta anche la necessità di forzare talvolta gli eventi e di conseguenza anche le personalità”. Rispettando, nelle cinque puntate settimanali, le tre linee narrative secondo cui generalmente si articolano: il romance, il drama e la comedy.
E poi c’è Napoli. Che non fa solo da sfondo, ma è di più: “Spesso penso sia la vera protagonista di Un posto al sole”, dice Raffaele alias Patrizio. “C’è chi viene a visitare la città dall’estero o impara l’italiano perché è uno spettatore della fiction. Ci guardano dappertutto e abbiamo un pubblico affezionato anche nelle carceri, perciò stiamo attenti a trattare in maniera edificante i problemi della violenza e dell’illegalità. Ma poi, per la Campania, siamo probabilmente l’industria più importante, quella che ha formato migliaia di persone tra maestranze, scenografi, sceneggiatori, attori. Perciò le produzioni internazionali vengono sempre più spesso a girare qui. E s’innamorano di Napoli”.
Mai litigi come quelli tra Minoli e gli australiani della Grundy furono più fruttuosi. Se il format originale non fosse stato riscritto sulla misura napoletana non sarebbe durato tanto a lungo. Nell’industria ci vuole sentimento affinché il tempo, da galantuomo, sganci il premio: “Alla Rai si preferiva più comprare che produrre, perché comprare è facile ed è pure suscettibile di margini di trattativa. Produrre invece significa rischiare sull’intelligenza del contenuto e assumersene le responsabilità”, conclude Minoli.
E benedetta sia quella telefonata a mezzanotte.
Politicamente corretto e panettone