L'intervista
Osho, la satira di destra: ribelle e futurista
Sta lavorando a una serie tv sull’impresa di Fiume: “Ma quale fascismo, è stata una baraonda libertaria”. L’amicizia con Meloni, il “suprematismo della sinistra”, “far ridere” l’unica ambizione. Chiacchierata con Federico Palmaroli
La notizia che Stand By Me sta lavorando a una serie tv sull’impresa di Fiume, che potrebbe andare in onda sulla Rai, ha già fatto scattare gli allarmi democratici. “Ma quale fascismo e fascismo. E’ solo ignoranza. Non si può sovrapporre l’occupazione dannunziana al regime di Mussolini. Fiume è stata una rivolta contro l’ordine costituito. Una baraonda libertaria. Una Woodstock ante litteram, con D’Annunzio al posto di Jimi Hendrix. Il primo Sessantotto della storia”. Vignettista satirico del Tempo, di “Porta a Porta” e Tg1, Federico Palmaroli – in arte “Osho” – sta lavorando agli otto episodi che racconteranno il tentativo di annettere Fiume al Regno d’Italia. Sedici mesi tra il 1919 e il 1920. Quando il nostro paese, pur vincitore della Prima guerra mondiale, mostrava tutti i sintomi di una nazione che l’aveva persa, fino al punto di deformare la vittoria, nella febbre del rancore, in una “vittoria mutilata”, da vendicare. “Vorrei che si conoscesse quello che è accaduto, ormai più di cento anni fa, al di là dei pregiudizi e delle ideologie che hanno filtrato gli eventi in tutti questi anni”. L’idea di raccontare in tv questa storia è di “Osho”, cinquantenne, diventato celebre con le vignette in cui i protagonisti sono spesso politici che parlano come persone della strada, in romanesco, nella felice arte dell’incongruenza. Otto puntate sul modello di Heimat, del regista tedesco Edgar Reitz. “Dopo la fine dell’esperienza di Fiume”, racconta Palmaroli, “molti ragazzi andarono a finire nel regime fascista, ma molti altri si schierarono contro. Perciò è sbagliato ridurre tutto alle categorie di destra e sinistra, perché le categorie lì saltarono del tutto”.
Dice Palmaroli che vorrebbe vivere nella cittadina in provincia di Gorizia da cui partì la spedizione dannunziana verso Fiume solo per il nome che ha: “Ronchi dei Legionari”. Invece lo incontro a casa sua, nel meno eroico quartiere Flaminio di Roma. “Mi affascina il fatto che l’impresa non fu solo militare, ma radunò artisti e intellettuali di ogni tipo, i quali sperimentarono un altro modo di vivere. Per esempio, un personaggio fenomenale come l’aviatore Guido Keller praticava il nudismo, si nutriva principalmente di frutta e fondò insieme a Giovanni Comisso la rivista Yoga, l’unione degli spiriti liberi tendenti alla perfezione. Si alzò in volo per lanciare un pitale sul Parlamento in protesta contro il governo italiano. Altro che impresa nazionalistica e basta. Fiume è stata anche un microcosmo di libertà in cui tutti gli oppressi del mondo poterono allora riconoscersi. Ma in cui, credo, tutti possono riconoscersi anche oggi”. Il dettaglio significativo è che Palmaroli ha votato per il Movimento sociale italiano, ma, all’impresa di Fiume, non si è appassionato seguendo le iniziative di partito, illuminato dalla luce della fiamma tricolore, bensì leggendo un libro uscito all’inizio degli anni Duemila, Alla festa della rivoluzione (il Mulino) di Claudia Salaris, storica che da giovane è stata indiana metropolitana, militante nell’ala creativa del Settantasette, cioè di estrema sinistra. “E’ stata una lettura che mi ha entusiasmato, perché ha sovvertito tutti i luoghi comuni che anche io avevo in testa”.
Salaris racconta che l’impresa di Fiume è stata la prima liturgia della politica di massa, dove si sono sperimentati alcuni riti che il fascismo poi farà propri: il recupero mitico della romanità, i saluti (“Eia eia alalà” e “A noi”), i motti (“Me ne frego” e “Ardisco ma non ordisco”), il culto dei caduti e dei martiri, ma soprattutto i discorsi che D’Annunzio pronuncia quasi ogni giorno dalla ringhiera del palazzo del governo (anticipatori di quelli mussoliniani dal balcone). Ma Salaris sostiene che, per comprendere i fatti di Fiume, occorre liberarsi dalle lenti del Ventennio e utilizzare piuttosto il concetto coniato da un anarchico americano di nome Hakim Bey, un classico del pensiero politico libertario, molto utilizzato nella dottrina cyberpunk, il concetto di “Zona temporaneamente autonoma”, ovvero un luogo nel quale confluiscono, sospendendo il tempo storico, tutte le incandescenze del momento, e che a Fiume portarono all’esplosione simultanea del ribellismo, della festa, dell’utopia, del vitalismo, dell’anarchia, dell’idealismo, del carnevale politico. “Se avessi la macchina del tempo”, dice Palmaroli, “è lì che andrei a vivere”. Sessualità libera, anche omosessuale, promiscuità gaudente, cocaina e alcol, la musica come esperienza di cambiamento sociale, stordimento e gioco. “Sono tutti ingredienti del fascino di quella vicenda”. Che non rispecchiano affatto, però, la concezione della vita della destra oggi al potere. Se ci sbirciasse dentro il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, l’impresa di Fiume gli apparirebbe come un mega rave che trasgredisce tutti i divieti da lui pensati per impedire i festival di musica techno: da sgomberare all’istante, altro che prima serata in tv. E poi: della famiglia tradizionale? Non c’è traccia. Del decoro? Men che meno. Dunque, oltre agli allarmi democratici, anche tutte le sirene conservatrici dovrebbero squillare al cospetto dell’impresa di Fiume. “In effetti, non assomiglia a nulla di ciò che conosciamo”.
Federico Palmaroli è convinto che raccontare questa impresa significhi “liberarla dall’oblio in cui è stata confinata dalla cultura di sinistra”, nonostante egli stesso l’abbia conosciuta leggendo un libro di una studiosa tutt’altro che di destra. E si arriva così al cuore politico della questione. “Nessuno vuole sostituire un’egemonia a un’altra. L’intenzione è piuttosto quella di integrare, al racconto fatto in questi anni, elementi diversi. Per unire, non per dividere”. E però usa un concetto forte, Palmaroli: parla di “suprematismo della sinistra”. Per dire che spesso la sinistra si sente superiore, non solo antropologicamente, ma forse anche razzisticamente, alla destra. Portando come esempio sé stesso. “Quando ho dichiarato di aver votato a destra ci sono state persone che hanno reagito dichiarando che smettevano di seguirmi perché ero diventato politicamente inaccettabile. Il preconcetto è che se fai delle cose intelligenti devi essere per forza di sinistra. Non è pensabile tu sia di destra. Perciò, appena ho detto chi ero, alcuni si sono sentiti delusi e traditi, come se li avessi ingannati”
Oltre Fiume, “casa Osho” è un tempio di venerazione futurista. Al centro del soggiorno ha la riproduzione di un quadro di Giacomo Balla, dal titolo Genio futurista. Sopra la poltrona su cui è seduto c’è un manifesto contro “il bridge e i giochi stranieri” a favore delle carte italiane, in particolare “la matta”. Lui stesso è un testimonial futurista. All’avambraccio destro ha tatuati due ritratti di Filippo Tommaso Marinetti, come omaggio al creatore del futurismo: uno replica il ritratto psicologico fatto dal pittore Fortunato Depero, Temporale patriottico, l’altro una fotografia. “Anche Marinetti andò a Fiume per dare il suo appoggio a D’Annunzio, sebbene se ne andò abbastanza presto”. Molti seguaci futuristi accorsero al fianco del Vate. Perché l’impresa fiumana e il futurismo condividevano la medesima idea politica di fondo, ovvero la convinzione che toccasse agli artisti andare al potere. Tanto che il manifesto utopistico marinettiano – Al di là del comunismo – presenta delle affinità con la carta del Carnaro, la costituzione di Fiume scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris insieme a D’Annunzio. “Una carta avanzatissima”, dice Palmaroli, “che già presentava alcuni elementi che la Costituzione repubblicana riprenderà molti anni più tardi”.
Interessante è che anche il futurismo rientri, secondo Palmaroli, nelle culture soffocate dal “pensiero dominante”. Per liberarlo, rivela – ed è una notizia – “stiamo preparando una grande mostra sul futurismo alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma”. Ho un momento di smarrimento: davvero ce n’è bisogno? La prima mostra sul futurismo in Italia è del 1986, a Venezia, quando al potere c’erano i socialisti di Craxi; e a New York, il Guggenheim ne ha fatto un’altra eccellente nel 2014. Chi l’avrebbe soffocato, dunque, il futurismo? “Non le élite culturali, che ne conoscono senz’altro il valore. Ma a scuola Marinetti non si studia – io, almeno, non l’ho studiato – e a livello generale c’è l’idea falsa che il futurismo sia un’altra branca del fascismo”. Marinetti però voleva distruggere i musei. “E sbagliava, perché senza i musei noi oggi non conosceremmo nemmeno la sua opera”. Amava la velocità. “Se sapesse come si imbottigliano oggi nel traffico le auto, probabilmente cambierebbe idea”. Considerava la guerra l’igiene del mondo, rigeneratrice della forza nazionale. “Ed è innegabile che dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia si sia rialzata dalle macerie creando il boom economico. Ma certo non è un buon motivo per augurarsi una guerra”. Ma “Osho” andrebbe in guerra? “Solo se dovessi difendere qualcosa che mi è caro veramente”. La patria non basta? “Oggi mi sembra un concetto macchiato dalla prossimità con lo stato che tassa troppo e opprime più che proteggere le persone”. Dunque sì o no? “Mettiamola così. Mi auguro che, prima che chiamino me, ce ne siano mille altri in fila per andare in guerra”.
Amico personale di Giorgia Meloni, “conosciuta quando ancora aveva percentuali da Italia viva”, appena gli dico se si sente un “artista di destra” risponde che si sente “più di destra che artista”. Perché, anche quando hanno iniziato a pagarlo, le vignette le ha sempre considerate un “hobby”, qualcosa che fa per divertirsi. Mentre, a proposito del suo essere di destra, si definisce “un sansepolcrista”. Cioè? “Più vicino ai programmi d’ispirazione socialista che a quelli anti operai”. Diciamo di destra sociale. Ma “Osho” ci crede alla storia, accreditata da Meloni, secondo cui molti artisti nascondono di essere destra per lavorare di più e meglio? “Avoja”. Esteticamente potrebbe essere anche di sinistra, Palmaroli. Barba, capelli lunghi, studiata trasandatezza generale: ecco, forse solo la camicia bianca stonerebbe in un centro sociale occupato. Gusti democratici: “Dei vignettisti in circolazione ammiro moltissimo Makkox. Gli invidio la straordinaria capacità di disegno”. Ma soprattutto è un amante di Zerocalcare. “E’ un genio”. Un genio? “Sì, un genio”. Non lo dice tanto per i fumetti, che non legge in generale, ma per le serie tv su Netflix. “Mi piace anche il tono della sua voce. Oltre il modo in cui racconta per immagini. Si percepisce dalla lingua che usa che è un grande osservatore della realtà. Ogni parola è esatta. Nemmeno una sillaba fasulla”. Può essere “Osho”, allora, lo Zerocalcare di destra? “Avrei già pronto il nomignolo dispregiativo: Nerocalcare”.
Manca solo la satira in questa storia di Fiume che vedremo in tv forse già nel 2024. “Credo sia impossibile da innestare in un contesto in cui tutti sono accesi da fedi intransigenti”. Mentre oggi che si sono solo credenze momentanee la satira che può fare? “Far ridere. E’ la mia unica ambizione”. Colpendo tutti? “L’unico davvero capace di colpire a destra e a sinistra è Crozza. Tutti noi altri diamo addosso a quelli che ci piacciono di meno. Io il Pd. Altri Fratelli d’Italia. Anche se non lo riconosceranno mai. Perché si ammantano dietro il sacro principio della satira libera, che deve fare male”. “Osho” non vuole fare male? “No”. Perché è buonista? “Perché non sono feroce”. E non vuole neanche far pensare? “Mi auguro che, il giorno in cui una mia vignetta dovesse far riflettere, di avere accanto un amico che mi dica: ‘Vieni, andiamo a casa. Andrà tutto bene’”. Di recente Fausto Bertinotti gli ha fatto mille complimenti. Nulla è più di sinistra che prenderla per il culo. Invece la destra sa ridere di sé come la sinistra? “Credo meno. Per il fatto che è meno abituata al potere e dunque a stare nel mirino”. Lei è anche laziale. “Ho scelto la Lazio e la destra perché amo essere in minoranza, sentire il brivido dei pochi contro i molti”. Ma se la destra è maggioranza ovunque. “Per ora”. E se le dovessero dire che la serie che farà è fascista? “Potrei dire, per gioco, ‘Me ne frego’”. Oppure, seriamente? “Un più sereno: ’sti cazzi”.
Politicamente corretto e panettone