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Il valzer degli addii

I conduttori tv, promossi o silurati, hanno salutato il proprio pubblico

Andrea Minuz

Tra discorsi e lacrime da antologia, sul podio la rabbia di Barbara D’Urso. Ma il campione della drammaturgia da congedo resta Michele Santoro

Per la prima volta, come non succedeva da anni, forse da decenni, si aspetta la prossima stagione televisiva con gran trepidazione. Sparigliare le carte, cambiare posto a tutti i conduttori, sparpagliarli sul palinsesto anche delle reti nemiche è in effetti l’unica strategia possibile per non morire. Prima ancora di farsi concorrenza tra loro, Rai, Mediaset, Discovery, La7, hanno tutti bisogno di tenere in vita quel manipolo di spettatori che si contendono a colpi di talk. E se non puoi farteli amici, almeno confondili. S’immagina già lo sgomento del povero telespettatore, magari ignaro del tempestoso mercato estivo: “E che ci fa Berlinguer a Rete 4? E Myrta Merlino a ‘Pomeriggio Cinque’? Dov’è la Palombelli? Ah! ecco Fazio, me l’hanno messo quaggiù”. Si darà insomma almeno una chance alle prime puntate dei nuovi programmi, se non altro per vedere l’effetto che fa. Anche se poi son gli stessi di sempre, vecchi en travesti, giusto il trucco rifatto e un nuovo logo della scuderia. E così tutti gli addii di questi giorni, polemici, risentiti o lacrimosi, diventano anche dei magnifici promo per la prossima stagione. Tanti modi per dirsi addio in questa pazza estate di telemercato incandescente: dal finale di partita di Fazio e Littizzetto alla lettera di Lucia Annunziata, dal #RaiLivesMatter delle ultime puntate di Serena Bortone e Gramellini al silenzio glaciale di Berlinguer, fino all’intervista incazzosa di Barbara D’Urso su Repubblica, nuovo house organ delle vendette incrociate del trash. 

 

Dopo questo mercato estivo, daremo almeno una chance alle prime puntate dei nuovi programmi, se non altro per vedere l’effetto che fa

   

Conviene partire da qui. Perché nel finale di stagione di “Pomeriggio Cinque” Barbara D’Urso aveva salutato come sempre, “amiche mie, amici miei, ci rivediamo a settembre”. E invece no. Manco per niente. Neanche la chance del commiato, neanche un addio tra gli applausi del suo amato pubblico come tutti gli altri, un “sono stati quindici anni bellissimi” e quelle cose lì che si dicono nell’ultima puntata, magari con un bel montaggione di madeleine trash, una passerella di creature dursiane, che restano agli atti come uno spaccato lisergico di questo paese (andando a braccio: il rosario recitato con Salvini, il Ken italiano, la donna barbuta, le paranormal activity di Ivana Spagna, l’invenzione di Mark Caltagirone, mille servizi sui “vip che non arrivano a fine mese”, Conte in collegamento sul Coronavirus col sottopancia “tra poco Morgan alla macchina della verità”, le teorie di Renato Panzironi, chioma fluente tipo Sordi in “Sono un fenomeno paranormale”, guru di “Life120”, che allungava di tre centimetri le gambe dei suoi adepti, fino alle memorabili pizze in faccia al Dottor Lemme, farmacista bioscultore, dietologo dei vip, a capo dell’Accademia di Filosofia Alimentare, autore di “L’uomo che sussurrava ai ciccioni”, fondatore di un progetto dietologico-eversivo con Briatore e Manuela Arcuri testimonial, basato sull’idea che le calorie sono un complotto del Sistema sanitario mondiale). Ecco, forse tutto questo meritava un lungo addio come si deve. Almeno come quello concesso a Fazio.

 

Per la D’Urso, neanche il montaggio di madeleine trash (a braccio: il rosario recitato con Salvini, il Ken italiano, l’invenzione di Mark Caltagirone)

  

La fine dell’èra D’Urso era invece affidata a un perfido scatto rubato ai funerali del Cav. Lei in raccoglimento mistico, pizzo nero e mani giunte, e poco più in là Myrta Merlino con lo sguardo assente, una accanto all’altra, separate in split screen da Gad Lerner in primo piano, anche lui pietrificato. Subito diventata nei giorni a seguire l’immagine del ribaltone tra le due conduttrici, come uno spin-off di “Succession”. “Dolore, rabbia, sgomento” sono ora i suoi sentimenti dominanti, dice Barbara D’Urso incorniciata in un paginone di Repubblica, lì dove un tempo si era abituati a vedere più che altro Fazio o Annunziata indignati contro la perfida lottizzazione. L’intervista è bella, non solo per i prevedibili sassolini dalla scarpa, i retroscena, la ricostruzione dettagliata e circostanziata, come da verbale dei carabinieri, di telefonate mancate, appuntamenti, spostamenti e appostamenti, ma perché diventa anche un piccolo trattatello sul “trash”. Un’etichetta che lei, Barbara D’Urso, ha sempre respinto o non capito, annebbiando così ancora di più i contorni di una parola-ombrello buona un po’ per tutto (come quando a Monica Vitti, all’epoca in cui era musa di Antonioni, chiedevano sempre cosa fosse questa benedetta alienazione, “eh io che ne so”, rispondeva lei, “a casa mia non s’è mai usata, l’avete inventata voi, anzi a dire il vero io la odio”). Così anche Barbara D’Urso da Repubblica ora domanda a noi: “Ma che cos’è il trash? Io da anni conduco ‘Pomeriggio cinque’ col tailleur, occupandomi rigorosamente di cronaca, e perché continuano a dirmi trash?”. Che è come dire, signori miei, qui sono i casi di cronaca impazzita che arrivano in redazione già sotto forma di trash, non è mica colpa nostra (sarebbe d’accordo forse anche Tommaso Labranca, lider maximo delle teorie sul trash). E poi la motivazione anche economica, “col budget che man mano si riduceva chi chiamavo?”, perché coi soldi che finiscono, il pecoreccio è sempre dietro l’angolo. Quindi il rinvio al mittente: “Anche i giornalisti che lavorano con me sono trash? Vedo su Canale 5 cose molto trash: non solo non vengono fermate, ma vengono esaltate”. Difficile darle torto. Specialmente se lei esce in nome della bonifica dal trash e poi entra Bianca Berlinguer.

L’addio alla Rai è invece il format televisivo dell’estate. L’unico in grado di fare concorrenza a “Temptation Island”. Come davanti ai “falò del chiarimento” nei tristi tropici defilippici, prendiamo i pop-corn e seguiamo i destini incrociati dei conduttori Rai: gelosie, tradimenti, congiure, sospetti aziendali, mentre intorno aleggia la tentazione dei grandi seduttori, Mediaset e Discovery, che vogliono strapparli alle loro case, ai loro affetti, ai loro palinsesti. A notte fonda ecco Mannoni e Giovanna Botteri, quasi in lacrime al Tg3. La scena è straziante. Lei ha capito qualcosa, ma non regge il colpo: “Ti prego, non lo fare! Non siamo preparati, non possiamo lasciarti andare!”. Ma dobbiamo essere forti. Il momento è quello che è. Dobbiamo lasciarlo andare. Mannoni rassicura la corrispondente (“Giovanna tu continuerai ad andare in onda”), poi dice e non dice, lascia intendere, allude, ci gira intorno, non vuole farci soffrire: “Per ora andrò in vacanza, diciamo in vacanza… poi non lo so, qualcosa succederà, forse nulla”, stare insieme è finito, abbiamo capito, ma dirselo è dura. Come gli addii degli amanti, come il lungo addio e l’addio ai Monti, anche l’addio alla Rai è una pagina ricca di pathos e malinconia. Un momento di raccoglimento e commiato, un’ultima puntata trasformata in epitaffio televisivo, magari con lettera declamata trattenendo un segreto pianto, poi un gran punto di domanda su quel che sarà, e messaggi criptici a colleghi, capistruttura, dirigenti, referenti di partito delle correnti e sottocorrenti nella nuova, spietata Rai tolkeniana. Un clima da esilio, con dentro molto Checco Zalone: il dramma del posto fisso che svanisce, lo spettro del ricollocamento, il palinsesto che inghiotte l’impiegato Rai e lo risputa chissà dove, magari in altra sede, in altra struttura sicuramente scomoda, impervia, lontana da tutto, lontano da casa, come l’arcipelago Sbarvald al circolo polare artico in “Quo Vado?”.  Nella Rai vissuta come guerra di rione e vittoria di contrada, l’esilio e l’addio scaldano i cuori sin dai tempi del famigerato editto bulgaro. Mai però così tanti, tutti insieme, a cascata uno dopo l’altro, inghiottiti da una vacanza che sa di malinconia, “dunque andate, dunque ci lasciate, per paesi tanto a noi lontani, è finita qui la rossa estate”, diceva Pascoli. 

 

L’addio alla Rai è il format che fa concorrenza a “Temptation Island”: Mannoni con Botteri quasi in lacrime, Serena Bortone “We’ll meet again”

 

Un lungo valzer degli addii: Fazio, Gramellini, Lucia Annunziata, Mannoni, Bortone, Andrea Vianello esiliato a San Marino e Bianca Berlinguer, neoretequattrista, che ha tenuto tutti col fiato sospeso fino all’ultimo, fino alla presentazione dei nuovi palinsesti Rai di lunedì. Ogni addio ha il suo stile. Gramellini lascia da patriota. Con un’ode alla Rai, a ciò che potrebbe essere, a ciò che non è ancora. “La parola che scelgo è ‘pubblico’”, dice in chiusura dell’ultima puntata, naturalmente evocata nella doppia chiave di “audience” e “servizio pubblico”. Anche il suo è stato un addio criptico, allusivo, non c’era ancora nulla di ufficiale. Però non erano solo ringraziamenti agli “straordinari collaboratori” e all’azienda, non era un “arrivederci” come quello della stagione scorsa. Ospite in studio, Roberto Vecchioni accennava a un plausibile ritorno in onda di Gramellini, ma nessuno lo seguiva. Tutti facevano i vaghi, tutti sapevano, il destino era segnato. Serena Bortone raduna invece i suoi collaboratori al centro dello studio, come a farle da scudo. Ci sono tutti, manca solo Memo Remigi, uscito di scena dopo il fattaccio della mano morta oltre la schiena di Jessica Morlacchi. Legge una lunga lettera, come nell’addio all’Olimpico di Totti. Parte piano coi ringraziamenti d’ordinanza, poi decolla nell’indignazione e nella rivendicazione di questa trasmissione che “per tre anni è stata uno spazio libbero”. Evoca le “migliaia di ospiti” invitati nel segno dell’inclusione, rivendica gli ascolti, se la prende col “razzismo intellettuale di quella che viene chiamata cultura alta”, sbandiera la “scommessa vinta di portare qui tanta letteratura”. Quasi ogni giorno uno scrittore in salotto, secondo il precetto del maestro, Angelo Guglielmi (“Jonathan Bazzi e Nicola Lagioia, credo non si siano mai visti a quell’ora su Rai 1”, dice Bortone). C’è qualcosa di più fascista che chiudere una trasmissione che porta i libri nella fascia pomeridiana? Forse solo bruciarli in piazza. Si commuove poi nel finale, e le si spezza un po’ il fiato quando chiama in causa tutti noi, “gli italiani che sono molto più avanti di quel che si crede” e allora il tono si fa solenne, epico, da martirologio, “siate liberi, siate autentici a qualsiasi prezzo. We’ll meet again” (un finale che però si era già giocata nell’ultima puntata di “Agorà”, tre anni fa, quando in lacrime salutava i suoi inviati collegati su Zoom, “a chi resta e a chi va soave sia il vento, come in un’opera di Mozart, lunga vita ad Agorà, viva Rai 3, e una cosa è certa: we’ll meet again”). E’ stato certo Fazio che ha dato il via a questo valzer degli addii: la costruzione di un’ultima puntata drammatica, da eroe della patria, l’incazzatura che qui e là si lascia intravedere, però annebbiando tutta nella placida beatitudine di chi sa di essere dalla parte giusta della Storia e con un bel contratto già pronto. Fazio aggiungeva poi un tocco di classe, trasformando la sua uscita di scena nell’affaire Faziò, con quell’appendice su Instagram in cui si immortalava davanti al “J’Accuse!” della prima pagina de “L’Aurore”.  

 

Il tocco di classe di Fazio che ha, trasformato la sua uscita nell’“affaire Faziò”, appendice su Instagram immortalato davanti al “J’Accuse!”

  

Ma l’arconte, il demiurgo supremo della drammaturgia dell’addio televisivo resta Michele Santoro. Imbattibile. Impareggiabile. Col suo continuo andirivieni dentro e fuori la Rai, Santoro ha fissato alcune pagine memorabili, un vero campionario dei tanti modi di dirsi addio. Come dimenticare, per esempio, l’ultima puntata di “Sciuscià”, vent’anni fa. Fu preparata da uno scatto di disobbedienza civile cavalcando il clima che si faceva via via più insostenibile. Prima ci fu Santoro che entrava in studio e nella penombra, solo, come un consumato crooner, intonava “Bella ciao” a cappella. Poi la doppia conduzione con Costanzo e la dirigenza Rai che s’infuriava, anche perché, a parte tutto, non era possibile affidare un programma del servizio pubblico a un dipendente Mediaset (fu però trovata una soluzione: Costanzo sarebbe rimasto sempre seduto, mimetizzato da ospite). Santoro disse addio alla Rai, dopo che anni prima era già passato a Mediaset con “Moby Dick”. Si aprirono le porte del parlamento di Bruxelles. Poi il reintegro e la nuova èra di “Annozero”. Poi di nuovo un addio, forse il più bello tra gli addii santoriani. Con un monologo accorato, Santoro si rivolgeva nell’ultima puntata al presidente della Rai, Garimberti, immolandosi come un eroe risorgimentale (“se la mia andata via serve ad evitare il bombardamento di ciò che rende grande il servizio pubblico, come Fazio, Gabanelli, Dandini, Iacona, allora preferisco andare via”). Poi il rilancio: “Non ho ancora firmato con nessun altro editore”, diceva Santoro aggrottando le ciglia e avvicinandosi alla telecamera, “da domani, teoricamente, potrei essere disponibile a riprendere questo programma al costo di un euro a puntata nella prossima stagione”. Avete capito bene signori, un euro. Come una versione barricadera di Mastrota, le inchieste al posto di pentole e materassi. Il giorno dopo un putiferio. Svettava la metafora di Bersani, indignato per l’uscita di scena: “La Rai non può più stare in piedi in questo modo. Mi scuso coi tifosi della Samp, ma se mandi via Pazzini e Cassano non puoi giocare in serie A”. Non era chiaro chi fosse Pazzini, ma di certo Santoro era Cassano.

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