L'autobiografia della nazione
La dura legge di Striscia, tra scoop e fuorionda che non perdonano. Parla Antonio Ricci
I 35 anni del Tg satirico (e i 40 di “Drive In”). Giambruno, la televisione, i deepfake, le inchieste che fanno “tremare i palazzi”. Chiacchierata con l'ideatore di Striscia la notizia
Per festeggiare i suoi trentacinque anni, “Striscia la notizia” si regala un fuorionda che spazza via anche Hamas e Israele dalle prime pagine dei giornali (e forse anche lì si potrebbe risolvere tutto con due o tre fuorionda fatti bene, chissà). Gli americani hanno il Watergate, “gola profonda”, “All the President’s Men”. Noi abbiamo “Striscia”. E nel bene o nel male le inchieste che “fanno tremare i palazzi” o le mura di casa di un presidente del Consiglio qui hanno la silhouette del Gabibbo, “la voce della veggenza”. Che televisivamente tradotto significa: arrivarci prima degli altri. Di fronte alla creatura di Antonio Ricci nessuno può dirsi innocente. Non è questione di arte cospirativa, di ricatti, truffalderie, dossieraggi, ma di sintonia, empatia e piena complicità con il paese. E così il fuorionda tricologico, squalliduccio e piacione di Giambruno è anche, prima ancora che terremoto politico, “sogno delle italiane”: liberarsi di un gran fanfarone dentro casa, incassando una standing ovation, come nel finale di “Ufficiale e gentiluomo”, ma senza Richard Gere (e qui poi anche consenso nei sondaggi, identificazione maxima, transpolitica, transpartitica).
In quante insomma vorrebbero liberarsi del proprio Giambruno! Manderanno tutte una mail alla redazione di “Striscia”: vi prego levatemelo dalle palle anche a me. Tutti ora cercano Antonio Ricci. La legge di “Striscia” non perdona. Ma dei suoi colpi da maestro lui non parla. Del resto, “Striscia” è diventato “Striscia” dopo lo scoop di Sanremo ’90. Conduttori: Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci. Il Tg di Ricci svelò il podio prima della serata finale (i Pooh, Toto Cutugno, Minghi-Mietta con “Trottolino amoroso”, e anche Masini, vincitore di “Sanremo giovani”). Fu la svolta. Il pubblicò da lì iniziò a fidarsi più di “Striscia” che di tutto il resto.
La credibilità in questo paese si gioca su Sanremo. Ma Antonio Ricci non svelerà mai, nemmeno sotto tortura, come ha avuto la soffiata. Lo so già, e infatti non glielo chiederò. “Non c’è un gran disordine, c’è un discreto ordine”, mi dice facendomi entrare nel suo ufficio, nel cuore degli studi Mediaset, a Cologno, negli hangar di “Striscia la notizia”. Sono gli unici edifici colorati del campus. Svettano subito nel grigio dei casermoni aziendali sorvegliati dalla grande Torre Mediaset. Il campus è attrezzatissimo: negozi, libreria, mensa-ristorante, una palestra, vialetti come in un centro residenziale. Si potrebbe vivere qui dentro senza mai uscire, come Tom Hanks in “The Terminal”. Davanti agli edifici di “Striscia” c’è un graffito col Gabibbo tra repliche psichedeliche di tapiri e azzurre onde del mare intorno. Un’oasi di relax. All’ingresso un gran tapiro di legno a ingranaggi, con le foto di tutti i conduttori, poi altri tapiri, più piccoli, sparsi nell’atrio, in quella che ora si chiama “piazza Gianfranco D’Angelo” (inaugurata un mese fa, in onore del primo conduttore di “Striscia” e icona di “Drive In”). Sulla scrivania del suo ufficio fogli sparsi ovunque, scalette, regali da aprire, pile di libri, cataloghi, scatoloni come stesse per traslocare (Ricci vive in un residence, non ha mai preso casa a Milano, registra le puntate e torna sempre ad Alassio). C’è una Madonna coi baffi, metà gadget di Lourdes, metà “Mario Bros”, regalata da sua figlia (e qualche promemoria da genitore sulla lavagna: “6 agosto concerto Madonna… concerto Black Eyed Peas…”). C’è un rotolo di carta igienica con la faccia di Fratoianni stampata sopra, souvenir della querelle sul caso Soumahoro, quando “Striscia” rivelò che Fratoianni sapeva tutto della Lega Braccianti. “Avevo letto una sentenza in cui un rotolo di carta igienica con la faccia di Renzi sbandierato da Travaglio era stato archiviato come ‘diritto di satira’, e allora ho fatto anche Fratoianni”. Ricci è davvero molto cortese, gentile, e mi regala un rotolo, non si sa mai. Da qualche anno ha trasformato gli studi di “Striscia” in un parco a tema: stanze e corridoi colorati con disegni e citazioni varie, un Gabibbo coi baffi alla Dalì in un paesaggio liquefatto e altre cose così.
“Striscia” è il sogno erotico di ogni vero telegiornale. E si tende a dimenticare che anche quello di Antonio Ricci è un tg, più vero del vero. Una macchina complessa da far girare ogni giorno. Centocinquanta persone tra redazione, ufficio stampa, autori, tecnici, trucco, parrucco, sartoria, e poi naturalmente il gruppo di inviati, una trentina circa, ognuno con la sua squadra di operatori. A questa macchina complessa, Antonio Ricci, che è stato il preside più giovane d’Italia, ha dato una struttura scolastica. Si lavora tanto, ma poi ci sono vacanze estive di tre mesi, e ferie a Natale e Pasqua. Come a scuola. Si replica quel modello di socialità sperimentato a scuola, quando era preside, perché “la socialità e un ambiente di lavoro in cui sei a tuo agio sono la prima cosa”. Ma è d’accordo con l’idea di togliere i voti a scuola? “Sì, certo, però io davo del lei a ragazzini di dodici anni” (e ritorna un po’ preside quando mi dice che a casa Ricci non si è mai vista la televisione mentre si mangia, non sta bene, non si fa, mi sento anche in colpa, avendolo fatto e facendolo abitualmente). Al piano terra c’è anche un museo. Il museo di “Striscia la notizia”. Nessuna trasmissione ha un museo tutto per sé. Un muro di piccoli schermi manda in loop trentacinque anni di “Striscia”, un po’ installazione alla Triennale di Milano, un po’ acquario aziendale dei dipendenti. E poi oggetti, documenti, foto, bozzetti, gadget. L’universo di “Striscia” è la nostra Marvel, coi supereroi che stanano i cattivi. Invece dei superpoteri hanno una sturacessi in testa, come Capitan Ventosa. Gli inviati sono i “martiri della notizia”. E nel museo ci sono le reliquie: tapiri sfasciati, stampelle, referti ospedalieri, la maschera di protezione di Staffelli dopo la rottura del setto nasale, quando Fabrizio Del Noce gli scaraventò il microfono in faccia. E’ l’ossario di “Striscia”.
Antonio Ricci ha da poco ricevuto il “diploma di Patafisico”, che è lì, in bella mostra ai piedi della scrivania. Gliel’ha consegnato Ugo Nespolo. E di tanti premi e riconoscimenti è forse quello cui tiene di più. Entra così anche lui nel pantheon della patafisica con Umberto Eco, Boris Vian, Max Ernst, Queneau, Calvino, Marcel Duchamp. Antonio Ricci è “l’Alfred Jarry della televisione” aveva detto Bernard Noel qualche anno fa (“inventeur, entre autres, de programmes de télé qui ont changé le visage de l’Italie pendant les années 1980 et 1990: Drive in et Striscia la notizia”). “La scenografia di Striscia è piena di segni e simboli patafisici, per esempio delle enormi guidouilles, le merdres che l’Ubu Roi di Jarry ha disegnate sulla pancia. E poi tutto è doppio: due conduttori, due veline, due soli, sotto la scrivania un’onda a forma di punto interrogativo, una simbologia che coltiva e celebra il dubbio”. Non importa che il pubblico di “Striscia” ci faccia caso (ovviamente no). E prima che dalla patafisica, “Striscia” scaturisce dal trash di fine anni Ottanta: Sgarbi, Funari, le risse e le urla in tv. “Si trattava di fare controinformazione e spettacolo”, dice Ricci, con questo verbo anni Settanta che suona un po’ strano appiccicato sul Gabibbo. Ma a “piazza Gianfranco D’Angelo”, su un tapiro sta scritto che bisogna “rovesciare l’utopia pedagogica delle Brigate Rosse, bisogna colpirne cento per educarne uno… forse” (Antonio Ricci si è laureato con una tesi su “Francesco Jovine e la figura dell’intellettuale da Gramsci e Croce”, il relatore era Enrico Fenzi, dantista e petrarchista, poi brigatista nella colonna genovese delle Br, indicato come unico intellettuale passato alla lotta armata).
Il guru, il maestro di Antonio Ricci è stato Enzo Trapani. “Io sono l’allievo. Trapani era un genio. Uno che ha reinventato la televisione, però era anche abbastanza matto”. Si dice che Trapani arrivasse in studio con la pistola e la tirasse fuori durante le prove. “Non lo so, mi hanno detto però di averlo visto più volte pettinarsi con la pistola”. La stessa con cui si sparò in bocca, morendo dopo nove giorni di coma, il 6 novembre del 1989. “L’idea di Striscia mi è venuta sotto la doccia, ragionando sul fatto che Vespa aveva detto che la colpa dell’attentato di Piazza Fontana fosse di Valpreda… ecco questo non andava bene, ci voleva uno spazio dopo il Tg che desse un’idea diversa, che gettasse quantomeno un dubbio”. Ma il dubbio oggi è la norma. Davanti a un’immagine non diciamo più “potrebbe essere falsa” ma “potrebbe essere anche vera”. I terrapiattisti, insomma, non fanno controinformazione. “Certo”, dice Ricci, “infatti i nostri hater più radicali sono proprio quelli: il complottista, per definizione, non è ironico, e di fronte allo scherzo, alla boutade, all’ironia, si blocca, non capisce”. E ancora: “Noi siamo stati i primi a fare i deep-fake. Il deep-fake serviva per gettare il dubbio. Ricordo che in una conferenza stampa ne feci vedere uno con Renzi, spiegando che questa cosa era nuova, e naturalmente anche molto pericolosa. Poi dopo la prima puntata ho letto un pezzo di Massimiliano Panarari su La Stampa in cui tutti i pericoli che esorcizzavo venivano messi in bocca a noi. Gli era anche sfuggito un pezzo sui rischi del deep-fake, uscito subito dopo la conferenza, sul suo stesso giornale”. I deep-fake che ballano e cantano li fanno Highlander Dj e sua moglie e hanno un gran successo. Ma la tecnologia evolve. La sperimentazione sull’intelligenza artificiale in questo paese la fa “Striscia la notizia”, altro che Amato alla commissione Algoritmi. Ricci prende il telefono, mi fa vedere il deep-fake di Vannacci per il promo. “Si parte da una foto, poi col software aggiungi il labiale, le espressioni. Ora sto sperimentando l’intelligenza artificiale sui servizi: un servizio fatto nello stile di Jimmy Ghione, oppure di Staffelli”. Forse entreranno in sciopero anche loro, come gli sceneggiatori di Hollywood.
Quando è morto Berlusconi, lo hanno cercato i giornali di tutto il mondo, ma Ricci non si è fatto trovare. Ai funerali però c’era il Gabibbo, seduto sui banchi del Duomo. Un meme girato sui social, “e che ci stava”, dice Ricci, “poi qualcuno ci ha anche creduto, convinto che il Gabibbo, che peraltro lì è enorme, con la testa gigantesca, potesse andare ai Funerali di Stato, potesse entrare in Chiesa”. Ma è vero che De André voleva venire a “Striscia” e travestirsi da Gabibbo? “Sì sì, De André amava le canzoni del Gabibbo, però era troppo grosso per il costume, me l’avrebbe rotto”. È incalcolabile il numero di segnalazioni ricevute da “Striscia la notizia” in questi trentacinque anni, la media di tremila a settimana. C’è di tutto: quello col vicino di casa molesto, chi denuncia l’abusino edilizio del cognato, il mitomane, il matto, e specie all’inizio, quando le segnalazioni arrivavano sulla segreteria telefonica, non pochi aspiranti suicidi. Invece di chiamare un parente, un amico o i carabinieri chiamavano “Striscia”. “Ne abbiamo salvati parecchi, però non lo raccontavamo sennò scattava l’emulazione. Poi quando siamo passati alle mail la cosa è scemata. Ti dovresti sedere, aprire il computer, scrivere, ‘Caro Striscia la notizia mi sto per suicidare, eccetera’”. Trentacinque anni o quasi di mail a “Striscia la notizia” sono un’autobiografia della nazione. Da conservare per quegli storici del futuro che vorranno farsi un’idea di come eravamo (ma nel museo c’è una torre di plexiglas che raccoglie e ammassa tutte le querele, le denunce, le cause di Ricci. Una bella installazione anche per un museo interattivo del Tar del Lazio).
Sempre quest’anno ecco anche i quarant’anni di “Drive In”. “Una trasmissione in cui mescolavamo alto e basso in senso gramsciano”, dice Ricci. “Una redazione di vignettisti come Staino o Ellekappa, tutti vicini al Pci o alla sinistra libertaria, monologhi anche di Enrico Vaime, una fucina di idee nuove”. Mentre era in onda, “Drive In” incassa gli elogi di Umberto Eco, Beniamino Placido, Giovanni Raboni, Angelo Guglielmi. “Piacevamo a tutta la sinistra, eravamo la trasmissione della sinistra libertaria che rovesciava il cliché della vecchia comicità romana parastatale. Oreste Del Buono ci definiva ‘la trasmissione di satira più libera che si sia vista sin qui; piacevamo anche a Veltroni, e quindi poi tanto di sinistra forse non eravamo”. “Drive In” era l’antibagaglino. Difficile da credere oggi. Da anni va di moda dire che “Drive In” è stato un incubatore del berlusconismo, la start-up della discesa in campo, l’epitome del degrado morale e tutte quelle così lì (spesso confondendo anche le tette all’aria di “Colpo Grosso” con le ragazze fast-food). Libri, saggi, romanzi indignati, convegni: un dogma ora indiscutibile. “Drive In” come problema sociologico nazionale, simbolo di quegli anni Ottanta da demonizzare a scapito dei beati anni Settanta. Cos’è successo? Ricci ha una sua teoria, la teoria di Onna: “Secondo me tutto inizia col discorso di Berlusconi a Onna nel 2009, quello sul 25 aprile. Un discorso da statista, parole storiche, la richiesta di una pacificazione nazionale, eccetera. Un discorso che mette in difficoltà la sinistra. Lì c’è un salto dell’antiberlusconismo che diventa astio puro. Bisogna dimostrare che tutto l’immaginario di Berlusconi è malvagio, che siamo stati plagiati dalla sua tv. Drive In era caduto nel dimenticatoio, ma ora spuntavano articoli come ‘La tv ha cambiato il paese’; ‘Quel Drive In intorno a Villa Certosa’. Se la sono presa con Drive In perché era l’unica trasmissione che ricordavano, e avendola vista da bambini non ricordavano l’ironia, il gioco, i livelli di lettura. E poi c’è anche un altro motivo”.
Cioè? “Nel 2009 nasce il Fatto Quotidiano. Dopo Onna, a Repubblica sapevano che a settembre sarebbe arrivato Il Fatto. E che li avrebbero scavalcati a sinistra, picchiando duro sull’antiberlusconismo. Bisognava correre ai ripari. Altro che pacificazione nazionale”. Qui parte la storia di Drive In, dell’immaginario delle tv commerciali come “immaginario fascista”. L’antiberlusconismo era un target editoriale troppo importante. “Repubblica poi è riuscita a farci credere che De Benedetti è un compagno, questa sì che è potenza dell’immaginario”. Berlusconi invece ha due colpe, dice Ricci: “aver creato i berlusconiani, ma soprattutto gli antiberlusconiani”. La teoria di Onna sta in piedi. Di sicuro, a Berlusconi “Drive In” non piaceva proprio. Stava a cuore semmai a Freccero. “Per Berlusconi la tv era un affare non un immaginario”, dice Ricci. “Il suo sogno era rifare la Rai, una Rai più ricca, con più ritmo, più lustrini, una Rai più americana. Ecco perché ingaggiava Baudo, Corrado e insieme pezzi di cinema popolare, la Fenech, o Alain Delon. Se andava dagli inserzionisti si giocava quei nomi lì, spiegava che avrebbe fatto una tv di classe, ricca, popolare, non si giocava mica Enrico Beruschi o Ezio Greggio”. “Io fino a Onna ero convinto di aver fatto con Drive In un grande programma e basta. Poi è diventato ‘L’origine del male’”, che è il titolo di un bel documentario su Drive In e la tv di quegli anni fatto da Luca Martera, dove in quota “patriarcato/corpo delle donne” c’è un giovanissimo Fabio Fazio al Casinò con le donnine intorno che cantano ‘io-soonoo-la-tua-fiche’.
Nella sua lunga carriera Ricci è stato accusato di qualsiasi cosa. E ora anche questo fuorionda pazzesco, e la famiglia del primo-premier-donna della storia d’Italia che va in fumo. Non è certo un “Drive In” in più o meno che fa la differenza nello sciame di capi d’imputazione. “Tra le cose più assurde però c’è anche Piero Pelù che ha detto che ero l’autore dei discorsi di Renzi…. Io!”, dice Ricci facendo una pausa. Che abbia scritto invece quello di Berlusconi a Onna?