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Fine di un epoca

Addio stagione d'oro delle grandi serie. Torna la tv da cui siamo fuggiti

Mariarosa Mancuso

Sono cambiate le modalità di produzione e fruizione delle serie tv e ora, mentre la golden age televisiva appare sempre più un'epoca lontana, si recuperano modelli di business obsoleti che si pensavano ormai superati 

Puniti. Per aver parlato troppo di golden age televisiva. Che c’è stata, eccome. Se non vi piacevano “I Soprano” (il mafioso che va dalla strizzacervelli, perché si sente abbandonato dalla anatre che sguazzavano nella piscina di casa) c’era “The Wire” (il microfono nascosto, con il filo, per estorcere confessioni). C’era perfino “Six Feet Under”: la famiglia scombinata, ma impeccabile sul lavoro, che gestiva le onoranze funebri Fisher.  La golden age c’è stata, e pure la Peak tv. Quando abbiamo capito che la televisione, una tempo scarsa, era diventata troppa per poterla seguire. E anche troppa per poterla fare bene. La prima volta che si aprirono le barriere d’entrata, soprattutto grazie alla Hbo che trasmetteva via cavo e aveva come slogan “It’s not Tv, it’s Hbo” arrivò gente come David Chase e Alan Ball (lo sceneggiatore premio Oscar per “American Beauty”). Prima, passare dal cinema alla tv voleva dire “fine della carriera”. Ora invece Steven Spielberg e Tom Hanks univano le forze per il dramma bellico “Band of Brothers”. Gli sceneggiatori, non più costretti dalle regole della tv generalista, erano più bravi e sofisticati. Messi sotto esame dal pilot, la puntata campione senza la quale neanche le tv via cavo spendevano soldi. Se piaceva, e veniva ordinata la stagione, c’erano gli indici di ascolto e di gradimento dopo ogni episodio a segnarne il destino. Dice David Chase, in un articolo dell’Economist intitolato “Una golden age televisiva sta perdendo il suo splendore”: “Nella tv generalista, il pubblico sa sempre cosa i personaggi stanno pensando. Io volevo che i miei personaggi dicessero bugie”. E così fu, con “I Soprano” che genialmente faceva cozzare l’omertà mafiosa con la regola “dire tutto, ma proprio tutto quel che passa per la testa”.


Netflix, e poi le altre piattaforme streaming, spinsero più avanti quel che la tv via cavo aveva iniziato. Ora sembra normale, ma quando l’intera stagione di “House of Cards” fu resa disponibile, non scatenò solo il binge viewing (diciamo indigestione da troppi episodi). Cambiò il modo di scrivere: le puntate ravvicinate non avevano più bisogno di un colpo di scena che durasse una settimana nella memoria. Sembra poco, ma per questo oggi le serie si possono smettere quando si vuole. E magari non riprendere più: i personaggi sono deboli e le svolte di solo plot – quelle che i giornalisti non devono svelare – vengono a noia. Lo sciopero degli sceneggiatori ha fatto saltare una stagione (gli attori ancora non hanno trovato un accordo). Ma già prima gli investitori chiedevano alle piattaforme di fare profitti, non di aumentare gli abbonati. E con duemila nuovi programmi nel 2022, la metà destinati allo streaming, pare impossibile crescere ancora. Gli sceneggiatori lamentano la mancanza di coraggio dei committenti, sembra di essere tornati ai tempi della tv generalista. Per completare l’effetto pre golden age si torna alla vecchia programmazione settimanale, chiedendo fedeltà agli spettatori (o abbonati). La nuova tv ricupera vecchi schemi e piani di business che sembravano superati. La pubblicità, per esempio, che certo riduce le spese per l’abbonato. Ma proprio la mancanza della pubblicità aveva dato allo streaming una bella spinta. Prima c’era posto per programmi di nicchia. Con centinaia di milioni di abbonati Netflix e Prime ora viaggiano verso il mainstream. Lo sport, per esempio. Come al cinema, spadroneggiano i “franchise”, diciamo le saghe e i sequel. Hbo aveva resistito, ha mollato su “Sex and The City”. “Pubblico ampio” è la nuova parola d’ordine: proprio la tv da cui siamo fuggiti.

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