Copetina della serie The Curse

La recensione

Tutto può succedere in una serie immaginata e scritta da Nathan Fielder e Benny Safdie

Mariarosa Mancuso

"The Curse" su Paramount è una serie contemporanea per quello che è un reality edilizio con protagonisti Emma Stone e Nathan Fielder 

Tra gli anni 70 e gli 80, quando Stephen King usava lo pseudonimo Richard Bachman per dare una possibilità ai romanzi in soprannumero – neanche i lettori fanatici gli compravano in un anno più di due titoli – pubblicò “Thinner”. Ennesimo delitto perpetrato contro un grande scrittore del Novecento, in Italia diventò “L’occhio del male”. Era una maledizione, certo. In originale voleva dire “dimagrisci fino a sparire” – i tre millimetri al giorno che nel romanzo di Richard Matheson alla lunga costringevano il protagonista a dormire della casetta del gatto qui sono pochi grammi.

Dall’11 novembre scorso su Paramount, dieci episodi per episodi settimane, la maledizione di “The Curse” è più generica. “Ti maledico”, scagliato da una ragazzina che vende bibite a un giovanotto che – seguito da una telecamera – prima le allunga cento dollari (pezzi più piccoli nel portafoglio non trova) poi se li riprende mormorando “vado a cambiarli”. E non torna più. Il gesto maldestro però rimane immortalato (e se nella troupe sei antipatico a qualcuno la maledizione potrebbe raddoppiare).

Tutto può succedere, in una serie immaginata e scritta da Nathan Fielder e Benny Safdie, qui anche attori a fianco di Emma Stone. Benny Safdie spesso lavora con il fratello Josh, alla coppia dobbiamo “Good Time” con Robert Pattinson e “Diamanti grezzi” con Adam Sandler (vale anche come lista di ricuperi: il primo a noleggio su Chili e il secondo su Netflix). Nathan Fielder, canadese, ha inventato e condotto per quattro anni la reality-serie “Nathan for You”: aiutava i negozietti e i negozianti sul punto di chiudere a rinnovare il business. Come si attirano i clienti nella gelateria deserta? Si inventa il gusto “cacca”, i giornali ne parleranno e i clienti faranno la fila. Questo è l’assurdo piano, con degustazioni e altre piacevolezze in stile Borat.

Menti sveglie e brillanti costruiscono una serie contemporanea, tra la coreana “Lo scontro” di Lee Sung Jin e il film di Ruben Ostlund “The Square”, Palma d’oro a Cannes nel 2017 (il bis è arrivato nel 2022 con “Triangle of Sadness”). Qualcosa che già non puzzi di cantina. O di cassetto dove stanno in attesa le serie che somigliano a tutte le altre, e che saranno prodotte proprio perché somigliamo a tutte le altre. Ricordate l’audacia della prima serie di “Black Mirror”, prima che, piallata dall’algoritmo di Netflix, riciclasse episodi di “Ai confini della realtà”?

In “The Curse”, Emma Stone e Nathan Fielder girano un reality edilizio. Rinnovano case malandate e le rendono neutre, o quasi, dal punto di vista energetico: “Salviamo il mondo un kilowatt alla volta”. Gentrification in una cittadina del New Mexico, si sarebbe detto prima dell’onda verde. Brutta parola, tanto più che siamo vicino a una riserva indiana. Che fare? C’è già un casinò, e un quadretto che mostra due indigeni, una slot machine, e un giocatore svenuto: “Incredibile che ci siano voluti 400 anni per sconfiggerli”.

La cattiva coscienza – Emma Stone è figlia di genitori che affittando tuguri hanno fatto i soldi –  impone di valorizzare la cultura dei pochi indigeni rimasti. Vengono chiamati gli artisti – anzi i “native artist” – sempre pronti a dare il peggio. Una specie di Marina Abramovich riceve a uno a uno gli spettatori sotto una tenda, affetta tacchino e lo offre, se lo mangi urla. Un altro costruisce piccoli totem con scatolette rubate, ognuna in un negozio diverso. “Tutti i visitatori sono stati perfetti”, sentenzia la nativa americana con l’affettatrice, soddisfatta alla fine della performance. Siamo noi ormai a temere il giudizio di chi si dichiara artista. Non viceversa.