Unsplash   

un pubblico di senatori a vita

La tv si è mummificata

Andrea Minuz

Repliche su repliche, palinsesti vuoti e una chiacchiera perenne. Il piccolo schermo è diventato il paradiso della terza età

Ma chi la guarda più la televisione! Mi dicono sempre quelli che mi chiedono “che pezzo stai scrivendo questa settimana?”. Anche se poi passano giornate intere a commentare sui social uno spot dell’Esselunga, un “affondo” di Gruber a Meloni, un fuorionda di “Striscia”. D’accordo, il potere travolgente di non guardare la tv non è mica una novità. C’è stato un tempo in cui per darsi un tono si doveva dire, sottolineare, rimarcare di non vedere mai la tv, di non essere al corrente di cosa succedeva lì dentro, di non averla proprio in casa. Ora è diverso. Non c’è alcuna rivendicazione etica. È un fatto. Una caduta libera accelerata dallo streaming, dai social e frenata per un annetto dal Covid, che ci ha tappato in casa davanti alla tv a seguire le dirette di Conte. Giovani e giovanissimi che non sanno cos’è la tv. Adulti che non ne possono più o non la guardano per non sentirsi vecchi. E poi loro, gli anziani, l’oro della tv. Numeri alla mano, incrociando rilevazioni auditel, analisi di mercato, dati Istat e altre cose del genere si calcola che tra non molto l’età media dello spettatore della tv generalista italiana sarà di 81, 82 anni. Una fascia protetta. Un pubblico di senatori a vita della tv. 


A dire il vero non c’era bisogno di scomodare numeri e statistiche. Ormai da anni gli spot parlano chiaro. Un’impennata inarrestabile di pannoloni per adulti, pancere per reumatismi, poltroncine montascale, motorette elettriche per sfrecciare ai giardinetti, adesivi per dentiere, vip che sgomitano per essere testimonial Amplifon (ultimo Claudio Bisio), salvavita, telefoni con tasti grandi come piastrelle, vasche con seduta, caregiver e assistenti vocali per la terza età. Un mondo. E già ci è capitato di notare qui quanto anche urla e impennate stridule di Mario Giordano a perforarci i timpani siano da mettere in relazione con l’esigenza di farsi sentire per bene da un pubblico di una certa età. Come il Portogallo seduceva i pensionati stranieri con spiagge e scogliere a picco sull’Atlantico, le nostre Cayman “quota cento”, la tv coccola i suoi anziani fedelissimi, ultima risorsa prima dell’Armageddon finale, tenendoli al riparo da ogni novità. Resta con noi, non ti deluderemo. Tutto sarà come sempre. È la mummificazione della televisione. Un sonno eterno per preservarla dalla distruzione. Share congelati, chiacchiere sull’abisso, personaggi che invecchiano con noi, un diluvio di repliche, reprise, rifacimenti dall’oltretomba.  


D’accordo, ci sono gli approdi sicuri: l’exploit annuale di Sanremo per la Rai, Maria De Filippi per Mediaset, “Ballando” su Rai Uno. Poi però una marea immobile di programmi che si contendono un manipolo di spettatori resistenti. Tele-morenti, come li chiama Dagospia. Il dato anagrafico è però anche un alibi gigantesco per non farsi venire idee nuove. Fare “la stessa tv da trent’anni” (come ha detto Teo Mammucari sbattendo la porta a Mediaset) con la scusa che il pubblico sta invecchiando e vuole sempre le stesse cose. Ogni giorno i dati auditel sciorinano briciole (“pippitel” li chiama sempre Dago). A “Storie italiane” Eleonora Daniele affronta le “polemiche di Ballando”, a “Citofonare Rai 2” Paola Perego e Simona Ventura affrontano le “polemiche di Ballando”, programma in cui figurano come concorrenti. Siamo oltre la tv autoreferenziale, la tv che parla della tv. Siamo in un gioco di specchi che moltiplica e deforma lo stesso format in rivoli di polemiche per riempire i vuoti del palinsesto. Il dato generale da osservare non è il micro su-e-giù dello share, ma la diminuzione complessiva dell’audience, che è invece inarrestabile, anche se si continua a minimizzare. Fazio si sposta dalla Rai a Discovery e si grida al miracolo. Ma sono gli stessi spettatori di prima, solo passati da una rete all’altra (ci si può casomai esaltare per la temerarietà dello spettatore che arriva fino al canale nove sul telecomando).


È una tv di momenti mummificati. Anche nei programmi che in teoria sarebbero pensati per “i giovani”. Grande momento mummificato è per esempio la cacciata-di-Morgan da qualcosa, qualsiasi cosa, in genere “X-Factor”.  Anche perché di “X-Factor”, format ormai sopraffatto da TikTok e Instagram trasformati in talent permanenti, se ne parla solo per le uscite scomposte di Morgan. Morgan chiamato per dopare gli ascolti, Morgan che incredibilmente non si rivela pacato e sereno ma fa appunto Morgan, Morgan quindi cacciato via (e poi “voci su un possibile ritorno di Morgan”). Morgan - X Factor come quelle relazioni tossiche, ti amo, ti lascio, torniamo insieme. Quindici anni così. Una specie di “giorno della marmotta” televisivo. Un evento che si ripete in loop, con l’unica novità questa volta di una conferenza stampa di Morgan fatta su WhatsApp, con cui se non altro si rivela più incline alla sperimentazione dei produttori di X-Factor. Simbolo della mummificazione sono le repliche di Montalbano. Si calcola che alcuni episodi della creatura di Camilleri siano stati mandati in onda venticinque volte per vent’anni, spalmandoli su Rai Uno, Rai Due, Rai Premium. Le repliche di Montalbano vanno fortissimo. E non è dato sapere se il pubblico in effetti se ne accorga. Montalbano è immutabile, mummificato in un tempo indefinito tra gli anni Settanta e oggi, idolo degli anziani per definizione, con la sua allergia ai computer, l’odio per “questi minchia di social network”, i fogli ingialliti sui tavoli, gli appunti sui pizzini, il ferro battuto, i mobili in legno massello, le donne forti, robuste, mediterranee non incazzate col maschio bianco cisgender. Le repliche televisive non sono più nutrimento del palinsesto estivo. Si usano ormai tutto l’anno. Quando non sono repliche sono remake, rifacimenti, riprese di vecchie idee e vecchi programmi.


Tutto in tv ha ormai un sapore antico. Jerry Scotti condurrà “La ruota della fortuna”. Carlo Conti rifarà “Rischiatutto”. È tornata dopo trent’anni la Gialappa’s. È tornato il venerdì sera “Ciao Darwin”, “programma senza vergogna”, come dice Repubblica, grande palestra di patriarcato e cameratismo maschile, tanto per spazientire un altro po’ le femministe, che però avranno altro da fare che guardare la tv. Bonolis e Laurenti riportano il pubblico indietro di venticinque anni, quando nessuno diceva “cat-calling”. “Ma vi rendete conto che ho  62 anni!”, confessa il conduttore aprendo la trasmissione, un po’ scherzando, un po’ immalinconendosi sul serio lui per primo (figuriamoci noi). “Ciao Darwin” ha fatto poco più dello share di alcune sue repliche estive del 2020 (anche qui domandiamoci: ma il pubblico se ne sarebbe accorto se anziché una nuova edizione avessero mandato in onda le repliche, magari invecchiando giusto un po’ con photoshop Bonolis e Laurenti?).


Mentre ancora bisogna capire come sarà smaltito Pino Insegno, al posto di “Avanti popolo!” di Nunzia De Girolamo, che sbaracca a dicembre prolungando così una mesta agonia, tornerà “Petrolio”, vecchio format di Rai Tre, con Duilio Giammaria. A breve sarà rilanciato “in un’edizione riveduta e corretta” (che vor di’?), e però con grande astuzia si è già presentato con un gran biglietto da visita: uno “speciale sulla longevità”. Tutto il circuito dei talk, dal gossip alla politica, si regge su ospitate promozionali. L’occasione per presentare “il mio ultimo libro, disco, programma, film” è diventata però accettabile solo a patto di “mettersi a nudo”. Di rievocare traumi, lutti, commuovendosi davanti a un montaggione di repertorio e vecchi ricordi. Marchetta con lacrima. E si sa che con l’età si diventa tutti più sentimentali. Il genere funziona sempre, soprattutto la domenica. Lì dove la mummificazione televisiva si rivela in tutto il suo splendore. Tutti si celebrano, si premiano, si abbracciano, strizzatine d’occhio, sottintesi, complicità. A “Domenica In” grande tributo a Laura Pausini. Mara Venier chiama Biagio Antonacci al telefono, best friend di Laura, “Biagio ho finito l’olio!” (Antonacci fa l’olio buono). Pausini parla della sua tachicardia. Partono carovane di medley, trent’anni di carriera e filmati d’epoca. Il papà che l’ha tenuta coi piedi per terra. Foto di papà. Foto del matrimonio. Foto col marito. Sospiri. Una valle di lacrime. “Laura mi stai dando davvero tantissimo oggi” (15,90 per cento di share). Mara tira fuori il cd e il vinile in uscita. Non vedevamo un compact disc in televisione da trent’anni. A “Verissimo” in controprogrammazione, ecco Romina Power in Malawi, la sua Africa. Anche qui repertorio, villaggi, savana, elefanti, bambini che cantano “felicità”, Romina Power commossa. Più che interviste sembrano la risposta della tv generalista ai documentari di Netflix e Amazon. Pathos anche per l’ospitata di Vespa che, come ogni anno, inizia il tour promozionale del suo libro (“non è solo del suo ultimo saggio che il giornalista ha parlato; intervistato dalla Toffanin, Vespa ha rivelato una serie di aneddoti molto intimi sulla sua vita privata, e il rapporto con suo fratello, recentemente scomparso”). 


E poi la cronaca nera che diventa politica. Qui la fuffa si inferocisce dentro edifici teorici e schemi comunicativi irricevibili (una moratoria, vi prego, su “cultura dello stupro”, non se po’ senti’, basta). La scorsa settimana grande ammucchiata sul patriarcato, e va bene, era inevitabile. Cominciava Gruber con Giorgia Meloni che è “la massima espressione del patriarcato”, grande cavallo di battaglia del post-femminismo gruberiano. Formigli rispolverava la dottoressa Viola, tanto dal Covid al virus del maschilismo siamo lì. “Esiste un brodo, un magma, un liquido in cui sguazza il maschio?”, domandava poi a Paolo Crepet, che sta vivendo una sua terza o quarta giovinezza televisiva. “Lei nota un cultura patriarcale diffusa nel territorio?”, chiedeva invece Floris a Gratteri. Gratteri diceva no, casomai molta maleducazione. E allora Floris passava a Santoro, “Michele ti sposto dal patriarcato alla polemica sulla famiglia tradizionale”, e Santoro strizzava l’occhio, teso, concentrato, come in un quiz (“il concorrente Michele Santoro da Salerno risponderà a delle domande su patriarcato e famiglia tradizionale”). Dal dibattito televisivo, seguendo tutti i talk, tutti gli approfondimenti e gli speciali sul caso, un ignaro spettatore che magari ancora si confonde tra il patriarcato delle femministe e quello di Venezia retto da monsignor Francesco Moraglia, non capiva se Giulia è stata uccisa dal patriarcato o dalla “fine del patriarcato”. Se, cioè, siamo di fronte a un Impero del Male al suo apice o a un’ultima reazione violenta e rabbiosa, da intendere quindi come segno di debolezza, mancandogli a questo patriarcato il terreno sotto i piedi. Massimo Cacciari diceva che no, il patriarcato è in crisi da duecento anni, dunque sta vivendo una splendida decadenza. “Il patriarcato sta finendo”, replicava invece Lucetta Scaraffia, che potrebbe essere anche una prossima hit estiva di Fedez, J-Ax e Annalisa.

C’è stato un tempo in cui guardavo la televisione per divertirmi, prendendola sul serio proprio per divertirmi ancora di più. Ora capita di rado. C’è in effetti davvero qualcosa di cadaverico nell’atto stesso di accendere la tv, prendere il telecomando, girare a caso tra i canali. Una cosa che non ha più a che fare con la noia (che è un pezzo decisivo dell’immaginario e del piacere televisivo) ma con uno strano horror vacui. Sto leggendo in questi giorni “Sabato champagne”, gran bel romanzo d’esordio di Alice Valeria Olivieri. Un libro su quella tv con cui lei, poco più che trentenne, è cresciuta. Un coming-of-age che si snoda tra la vergogna di vedere “Uomini e donne” di nascosto, il pomeriggio, a Ghezzi e Ambra che duettano a “Non è la Rai”, fino a Mark Caltagirone, “Temptation Island”, le lacrime pomeridiane di Toffanin, la tv ripetitiva e mummificata di oggi. Mi sorprende che anche una scrittrice ancora giovane abbia già questa saudade per una tv che sta scomparendo. Un rimpianto per la sua golden age, qui soprattutto gli anni Novanta. E su questo romanzo aleggia infatti dalla prima all’ultima pagina l’ombra del Cav. “Il più grande dono che Berlusconi avrebbe potuto fare a suo figlio Pier Silvio”, scrive Olivieri, “era regalargli la sua inesauribile allegria. Ma i tempi sono cambiati precipitosamente e così non è stato”.

Ecco il titolo, allora, che viene fuori proprio da lì. Da quel champagne du samedi con cui Berlusconi presenta ai francesi l’arrivo di La Cinq, nel 1985. Una festa, una goduria sbruffona, anche sotto sotto una truffa canagliesca à l’italienne. Sabato champagne! La televisione che ci piaceva, non mummificata, non immobile, piena di bollicine. Quella che fatichiamo a ritrovare oggi.