Il Foglio Weekend
Antonio Ricci e gli splendidi 40 anni di Drive in
Lo show di Italia 1 cambiò la televisione italiana ormai quarant'anni fa. Antonio Ricci, gli anni Ottanta e la tv berlusconiana
Come nome, “Drive In” ai più giovani ricorderà forse quegli accrocchi per vaccinarsi in macchina che si vedevano durante l’era Covid, ma per noi boomer degli anni Ottanta è una cosa molto molto importante. La trasmissione debutta il 4 ottobre 1983 alle 20:30 su Italia 1 alla stessa ora in cui su Canale 5 va in onda Dallas. “Italia 1 non la guardava nessuno”, racconta al Foglio Antonio Ricci, inventore di quello e di tanti programmi che hanno fatto la storia, a margine di un workshop proprio sul quarantennale del Drive In tenutosi ieri all’università Cattolica di Milano per il master dei Media e audiovisivi, che si è trasformato in una reunion tra post millennial occhialuti e volti che forse loro non hanno mai visto: Enrico Beruschi, Carmen Russo, Nino Formicola alias Gaspare del duo Zuzzurro e Gaspare. E poi Carlo Freccero e Barbara Palombelli per un applaudito “dibbbattito”.
Tutto parte dall’equivoco-Drive In. Come i film dei Vanzina, il programma nasceva come satira, ed è stato preso invece alla lettera, come inno, di quegli anni. “Prendevamo in giro gli anni Ottanta, la Milano da bere, gli anni reaganiani, l’inizio della finanza”, dice Ricci. “Avevamo l’americano vestito da Dallas, e venne pure il vero piccolo Arnold”. “Era il nostro American Graffiti, col richiamo ai vecchi cinema statunitensi all’aperto, ma i personaggi erano quanto di più contemporaneo esistesse”, dice Freccero, che all’epoca era capo del palinsesto di Canale 5 e Italia 1 (“e siccome sono masochista mettevo Dallas contro il suo simmetrico”). “Nell’81 avevo visto Indiana Jones al festival di Venezia e capii che era cambiata per sempre la velocità dell’audiovisivo”, dice ancora Freccero. “Drive In andava in quella direzione. Velocità. Tagliare. Flusso narrativo senza stacchi. No liturgia del bravo presentatore. Il tormentone come ritornello. Drive In è il tipico prodotto post moderno”, teorizza Freccero. “Usa gli archivi per inserirli nella contemporaneità. Penso a Memphis e al design e alla moda di quegli anni, quando l’Italia si apre al mondo ma il mondo apre all’Italia”. Il richiamo al movimento di design Memphis sembra assurdo ma invece è giustissimo. Perché alla base di Drive In e della tv ricciana ci sono i colori. “Volevo tinte molto sature, volevamo la morte del grigio e il trionfo dei colori a contrasto. Un’estetica da cartone animato, da Topolino. E pensavo di esserci riuscito, ma non riguardandolo mai, solo dopo due anni mi accorsi che invece la tv abbassava la gradazione; mi spiegarono che quando usavi dei colori così estremi l’esposimetro automaticamente li spegne, li riporta alla normalità dell’emissione”. Che sembra una grande metafora di qualcosa. “Poi dopo sono riuscito a superare questo problema”, e infatti il mondo successivo di Ricci tra satira e saturazione è un mondo di colori densissimi, Striscia sembra Roy Lichtenstein e il sito del programma, in cui c’è moltissimo materiale eterogeneo, dalle ricette di cucina al documentario sul Drive In, sembra un appartamento disegnato da Sottsass, magari quello di Karl Lagerfeld a Montecarlo (località dove risiede Ezio Greggio).
E poi la velocità. “Più che velocità è ritmo”, dice Ricci. “Volevo un programma solo di comici. Pativo i balletti e gli ospiti del varietà classico” dice lui, che si dichiara seguace di Enzo Trapani, leggendario regista ribelle Rai, l’anti-Antonello Falqui. A Drive In invece “sketch da 15, 20, 30 secondi. Lo spettatore non si era mai trovato davanti a un bombardamento del genere. Tutto era compresso. Tutto condensato in un ritmo infernale. Per fortuna ogni 12 minuti c’era la pubblicità, a cui si arrivava con un blocchetto di alleggerimento. Se uno guardava lo show senza le interruzioni pubblicitarie stava male. Abbiamo anche provato a fare dei finti spot tra quelli veri, ma non funzionavano”. Drive In e Italia 1 diventano la corsia di sorpasso della tv commerciale. Per tenere quel ritmo indiavolato “cinquanta situazioni diverse, per una durata di un’ora e mezza”, dice Ricci. “Con due piani, uno schermo su cui scorrevano finti film fatti però alla perfezione, girati da Mariano Laurenti, finte pubblicità, finti telegiornali e telenovelas o vere comiche, e Benny Hill. Sotto, gli sketch ‘dal vivo’. Li registravamo durante tutta la settimana, mica come oggi che in una giornata porti a casa il programma”. A me han sempre colpito quei ragazzi bellocci un po’ tutti uguali, dall’aria vagamente americana e stralunata, che ridono a caso, tipo personaggi di Bret Easton Ellis, e facevano folla a incorniciare gli sketch. “Il pubblico era un vero e proprio personaggio”, dice Ricci. “Erano i ragazzi ridenti degli anni Ottanta. La risata era molto importante. Ce n’erano diversi tipi. Quella a testa indietro, quella a testa in avanti, il regista Beppe Recchia diceva: ‘testa in dietro!’ e tutti eseguivano. Poi c’era la risata registrata, fortissima, su tutto, specialmente con battute che non facevano ridere. Simboleggiava la falsità del momento, la Milano da bere. Avevo messo in giro l’idea che m’ero procurato delle vere risate americane dagli anni Quaranta, quindi risate di gente morta, i morti ridevano dei vivi e i vivi ridevano di loro stessi”.
Per realizzare tutti gli sketch c’è una redazione, una cosa mai vista prima. Composta da vignettisti, comici, pubblicitari. Una factory. Che agisce generalmente in posti impropri, in camerini o in residence a tarda notte. Curioso che uno dei programmi più milanesi dell’epoca fosse registrato a Roma. “Alla Dear, ma solo per il primo anno”, dice Ricci. E come andò a Roma? “Stavamo tutti in un residence”. Depressione, come tutti i nordici televisivi che finiscono nei residence romani? Dai pezzi grossi Rai al caso limite di Dino Risi, suicida ai Parioli. “No, niente depressione, anzi. A me i residence piacciono, anche a Milano vivo in residence, nella ridente Milano 2; mai preso casa. Ai tempi si lavorava dalle 11 alle 20, poi si andava a cena, e e poi dopo cena a manetta, si scriveva fino a notte fonda”. Pare di vederli, a Milano 2.
Perché Drive In è anche e soprattutto una carrellata di silhouette della comédie humaine milanese. Il brodo di coltura del Drive In nasce negli stessi anni e pesca nello stesso bacino dei comici milanesi che poi finirà negli “Yuppies” dei Vanzina: Boldi, Greggio, Vastano. Alcune figure potrebbero essere tranquillamente di oggi: come il bocconiano parcheggiato a Milano interpretato proprio da Vastano. “Studente-calabrese-di-famiglia-benestante-al-quinto-Anno-fuoricorso-della… sospiro e aspirazione di Vibo Valentia…Bocchhhhhoni. Si informi di come ci trattano all’Università di Arcavacata!”. Il bocconiano frequenta corsi come “Storia dell’economia medievale del leasing”, e oggi potrebbe essere uno degli studenti che vanno a sciabolare nelle sciampagnerie, o altri “mostri” del nuovo corso di Milano. Gli influencer, gli immobiliaristi-influencer, i cuochi influencer… “Ma anche gli archistar, i trapper”, dice Ricci.
A Roma invece ci sono i grandi nemici, la Rai e la politica. “Davanti a viale Mazzini, Trapani mi disse: ‘Vedi Antonio, qui dentro ci sono ventimila persone che lavoreranno contro di te’”. La satira politica raggiunge livelli mai visti prima. “Era a tutto tondo, non c’erano schieramenti”, ricorda Freccero. “Fu un allentamento notevole delle briglia della censura”, dice Ricci. Era quasi sempre Gianfranco D’Angelo, il mattatore del Drive In (tanto che a Cologno ora c’è una piazzetta intitolata a lui, e una teca in cui è, di spalle, esposto uno di quei suoi gilet di lustrini che facevano tanto, altro tocco assurdo, Michael Jackson). D’Angelo, mancato nel 2021, impersonava una serie infinita di personaggi: dal Tenerone, una specie di pre-Gabibbo, ma buono, di peluche rosa. “Era falsamente buono, era ipocrita in realtà”, dice Ricci. “Era di una razza che avevamo inventato, un batuffoloide, aveva la testa che si infossava nel collo quando si emozionava, diceva come intercalare Pippo! Pippo! Che era stata un’idea di Gino e Michele, di ritorno da una vacanza in Grecia, dove per chiamare le galline dicevano appunto Pippo! Pippo!”.
D’Angelo si sbizzarriva poi coi politici. Ecco Ciriaco De Mita nella meta-imitazione, vestito da antico filosofo, con la toga, “sono Giriago De Mida, indelledduale della magna Grecia” (era la definizione che gli aveva affibbiato Gianni Agnelli). Ecco De Michelis in tutte le salse, con la parlata veneta e il ciuffo ribelle (e non ne era per niente contento. D’Angelo raccontò che De Michelis si lamentò con Berlusconi, che come spesso accadeva non faceva niente, ma poi De Michelis chiese a D’Angelo di andare a chiudere una sua campagna elettorale, e lui non ci andò, che pare un bel gesto). Spadolini che tubava al telefono con Reagan; “taca tu taca tu taca tu” in telefonate romantiche, mentre i politici più intelligenti e “di area” apparivano in persona, a un certo punto proprio Spadolini-D’Angelo fa un duetto col vero Marco Pannella (ma del resto pochi anni prima il presidente del partito radicale italiano, Bruno Zevi, nella sua villa sulla Nomentana aveva fondato TeleRoma56, sensibile al mezzo e ai tempi). Un vero politico insieme al suo imitatore non s’era mai visto. “Spadolini fece il diavolo a quattro”. La vittima preferita delle imitazioni di Gianfranco D’Angelo era però Pippo Baudo, che viene ossessivamente preso in giro. Baudo, intervistato nel documentario “L’origine del male”, di Luca Martera, sul Drive In, è livido, dice che alcune cose erano da denncia. Ai tempi del matrimonio con Katia Ricciarelli, ecco la soprano (interpretata da D’Angelo) che con la frusta fa saltare una serie di parrucchini (“è proprio un amore, me li addestra lei”, dice Baudo che è sempre D’Angelo). “Trasgredimmo a una sua regola, che permette di parlar male di lui, ma solo nelle sue trasmissioni”, dice Antonio Ricci. “Il tutore Pippo si mette a fianco al comico per significare: te la lascio dire, te lo permetto. Non è facile recitare con quel pennellone a fianco. Guai, in una trasmissione non presentata da lui, rompere quel codice d’onore. Baudo usciva di testa”, racconta oggi Ricci. “Noi sapevamo tutto di lui, conoscevamo anche il suo road manager che aveva l’incarico di andare a fare gli shampoo ai parrucchini”. Però Baudo si è prestato al documentario. “Sì, non si è sottratto, ma quelli così basta che gli accendi una telecamera e fanno qualunque cosa”.
Un altro equivoco è che Drive In sia stata un esempio di televisione berlusconiana, anzi l’apice del berlusconismo, l’origine del male appunto per gli intellettuali di sinistra. “Adesso si sono pentiti, ma per un po’ è stato così”. Nel documentario vengono fatti sfilare i meglio nomi delle patrie lettere, è tutto uno sfumare di tweed in tweed passando a una camicia-sahariana di lino di Gad Lerner, e tutti in una specie di Norimberga televisiva ammettono che Drive In era fichissimo; Guglielmi, l’inventore di Rai 3 con l’occhiale tondo, ammette che lo guardava e lo invidiava. C’è pure Veltroni.
Qualcuno l’ha vituperato, qualcuno l’ha confuso con “Colpo grosso”. E a chi dice che le “ragazze Fast Food” (si era in tempi di paninari), molto scollacciate, fossero puro patriarcato Ricci ribatte così: “Non avevamo mai avuto proteste da parte delle femministe. Era la prima volta, in un varietà, che le ballerine di fila prendevano la parola e facevano battute, tra l’altro le Fast Food interpretavano testi di ElleKappa, la vignettista di Repubblica. Non erano donne sottomesse, recitavano la parte di quelle toste, schiaffeggiando chi le importunava e schiavizzando i loro colleghi maschi. Mai si era vista, prima di allora, una concentrazione così vasta di donne comiche”. Certo, oggi si potrebbe obiettare che le Fast Food erano nude, e i paninari vestiti, ma erano altri tempi.
Il volto principale era Tinì Cansino, pseudonimo di Photina Lappa, greca naturalizzata italiana. Nata a Volos, studi di danza classica, a diciannove anni, durante una vacanza in Italia, era stata notata da Alberto Tarallo, aruspice del camp nostrano (“L’onore e il rispetto”, “Il Bello delle donne”, “Il Peccato e la Vergogna”). Lui le suggerì di adottare il nome d’arte di Tinì Cansino, notando una sua somiglianza con Rita Hayworth, il cui vero cognome era appunto Cansino. L’effetto surreale con Tinì Cansino era ottenuto facendole pronunciare piccole frasi di politica estera: “certo che senza una patria è difficile vivere”. Le risponde un’altra ragazza: “Soprattutto se gli israeliani continuano ad ammazzarli”, il tutto seminude tra le macchine. “Eravamo anti americani, filo palestinesi, anti nuclearisti, pacifisti, libertari”, ha ricordato ancora Ricci, e davvero sembra incredibile che ex post Drive In sia diventato il manifesto del berlusconismo.
“A Berlusconi poi non piaceva Drive In”, dice Ricci. “Non lo capiva, Berlusconi poi puntava tutto su Canale 5, la rete ammiraglia, quella coi grandi nomi”. Anche l’estetica, del Drive In, non è un’estetica berlusconiana. A un certo punto però il Cav., una volta capito che è un successo pazzesco, ne vuole fare una versione “sua”. Nasce così “Grand Hotel”, che pochissimi ricordano, perché invece è un flop totale, è una versione deluxe del Drive In, tirata a lucido come una confezione di Ferrero Rocher. All’originale rubano il regista Giancarlo Nicotra, le soubrette Cristina Moffa e Carmen Russo ma rinforzano il tutto con grandi firme, Alain Delon, Sidney Rome, Eleonora Giorgi. “Manca lo spirito corsaro”, dirà Ricci.
Invece a un certo punto a Drive In irrompe Pier Silvio (momento cult che TikTok ripropone di tanto in tanto). Giovane, palestrato, biondissimo, spalline da mezzo metro, erano quegli anni. Ma come andò? Era stato lei Ricci a chiederlo, o lui a proporsi? “Io? Ma scherza? Persi una scommessa. Berlusconi, per fare il ganassa, mi dice: ti mando Sylvester Stallone, che viene a Milano a fare il Telegatto. Io dico: va bene, ma se non viene mi mandi tuo figlio. Così va a finire. Arriva Pier Silvio, anche se Confalonieri era contrarissimo. Pier Silvio fa uno sketch in cui fa finta di non essere lui, bensì un fan del Drive In, e fa firmare una serie di fogli alle ragazze, fingendo che siano autografi. Poi telefona al padre da un telefono a gettoni e rivela di aver strappato con l’inganno contratti a stipendi ridotti. Il tutto è costellato da battute figlie dei tempi, Berlusconi è alle prese con la creazione dell’impero; appena comprata Italia 1 da Rusconi, non si è ancora accaparrata Rete4. “Non avrò la diretta ma il diretto ce l’ho”, dice il rampollo. “Pier Silvio lì farà quello che poi sarebbe stato destinato a fare anni dopo, far quadrare i conti”, dice Ricci.
Drive In era fatto poi di tormentoni che diventavano proverbiali. C’era l’Asta tosta, in cui Ezio Greggio, specie di venditore-sòla da televendita, piazzava degli oggetti improbabili tra cui un micidiale quadro raffigurante un vecchietto in una taverna, il fantomatico “Bevitore” di un immaginario pittore Teomondo Scrofalo. Il quadro, che di volta in volta veniva presentato come cubista, iperrealista, impressionista, divenne un’antonomasia, il Teomondo Scrofalo ora e per sempre identifica il quadraccio da bancarella. “In corso Buenos Aires a Milano c’era questo spiazzo vicino alla fermata della metropolitana in cui vendevano quel tipo di opere… il Pierrot Lunaire, la Zingara, il Cavallo del Gitano… e avevo visto questo bevitore. Mandai qualcuno della produzione a cercarlo ma arrivò con un quadro simile e ugualmente orrendo ma che non era quello”, racconta Ricci. “Disperati, alla fine scoprimmo che il genero del proprietario degli studi in cui registravamo ne aveva uno in casa, tutto orgoglioso. Allora lo usammo una prima volta, ma dopo lui ce lo tolse perché diceva che glielo rovinavamo. Allora ne abbiamo fatto fare una copia… poi adesso d Teomondo Scrofalo, che poi il vero nome, è un pittore napoletano, credo, se ne trovano su eBay, in tutto il mondo…”. Ne possiede qualcuno? “Io no, ho tanta robaccia in casa ma quello no, forse Ezio”. Domanda scontata: ma come avete fatto ad avere tanta libertà? Oggi sarebbe impensabile. “Il primo anno fummo assolutamente marginali e sperimentali, e nessuno si accorse di noi”, dice Ricci. “Neanche mia moglie capiva bene cosa stessimo facendo. Quando ingranammo, poi, era troppo tardi per fermarci”.