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Le luci spente del varietà e dei tempi che non torneranno mai più
Nemmeno la bravissima Virginia Raffaele e il suo "Colpo di Luna" riescono a riportare in voga il vecchio format. È un incantesimo televisivo che sembra vivere solo nel rimpianto del passato e di quello che sarebbe potuto essere
È una parola che apre mondi fantastici, lontani, irraggiungibili. È la chimera, il miraggio, il sogno proibito della prima serata di Viale Mazzini. Sarà per questo che a un certo punto in Rai, più o meno ciclicamente, in ogni Cda, in tutte le lottizzazioni possibili, qualcuno si mette in testa che “bisogna rifare il vecchio varietà”. E allora fitte riunioni di direttori e capi-struttura, estenuanti brainstorming tra produttori e funzionari, passando per prima cosa in rassegna i nomi. Chi può farlo questo varietà? Fiorello non ci viene, non gli va, non se la sente, sono anni che lo imploriamo in ginocchio, basta. Massimo Ranieri l’abbiamo già fatto. Panariello pure. Carlo Conti non canta. Amadeus fa Sanremo. Con Brignano viene fuori “Rugantino”. Stefano De Martino è ancora giovane, vedremo più in là, sennò finisce come Cattelan. E poi casomai ci vorrebbe una donna. Ci vorrebbe una “soubrette”, anche se oggi non si può neanche più dire “soubrette”. Laura Pausini e Paola Cortellesi erano andate bene, ma non era un varietà, più una cosa da serata-evento. “Celebration” con Serena Rossi ha fatto la metà di “Tu sì que vales” e costava il triplo. Si dovrebbe sperimentare. Una Drusilla Foer? Elodie? Si inizia a sudare freddo: Elodie, in prima serata, su Rai Uno, magari chiappe all’aria col palo della lap-dance? No, no, non va bene. Restiamo sui classici. Ci vorrebbe una come Loretta Goggi. E c’è poco da fare, la Loretta Goggi di oggi è Virginia Raffaele.
Ecco allora questo "Colpo di luna", in tre puntate, di venerdì, senza rischiare troppo col sabato sera, scommettendo tutto sul talento, indubbio, puro, cristallino di Virginia Raffaele. Lei sembra in effetti tagliata su misura per il varietà: c’è la prosecuzione delle sue origini circensi, la nonna acrobata amazzone, il nonno fondatore del Luna Park dell’Eur, a Roma (la “luna” del titolo è infatti quella). Ma ancora una volta l’obiettivo di "rifare il vecchio varietà" sembra mancato. Siamo semmai dalle parti del "one-woman-show", che è appunto un’altra cosa. Le imitazioni di Virginia Raffaele sono naturalmente formidabili. La Bianca Berlinguer di "Aridaje Cartabianca", acida, biascicata, romanamente inferocita, era più vera del vero. Il problema è che Virginia Raffaele è brava, bravissima, ma come ha detto Aldo Grasso, "non è una soubrette". Anziché costruire il programma intorno a lei e alle sue abilità, si è tentato di infilarla nel vecchio canone del varietà, quello della Rai anni Sessanta-Settanta, custodito gelosamente nelle teche, scomodando peraltro un modello preciso, il "Teatro 10" con Alberto Lupo, regia di Antonello Falqui, sigla di Mina, “Parole, parole”. Mai richiamarsi a modelli inarrivabili. Il varietà non è un genere come gli altri, ma una specie di sortilegio, un incantesimo televisivo che sembra vivere solo nel rimpianto e nel ricordo di un passato che non tornerà più. Era stata più scaltra Paola Cortellesi, quando presentando "Laura & Paola", ennesimo “omaggio al grande varietà”, metteva invece subito le mani avanti: "Rifare ‘Milleluci’ non è possibile. Ora i format si prendono dall’estero e sono più vantaggiosi economicamente. Già è tanto che la Rai ci abbia concesso queste tre serate". Giusto.
L’idea di "Colpo di luna" è "stravolgere il varietà": boicottarlo, scherzarci sopra, decostruirlo, smontarlo, prendendo in giro gli ospiti. Una cosa che alla prima gag funziona, alla seconda meno, alla terza non ci si arriva. Insomma, questa "unica novità dell’espediente dell’inciampo" (sempre Grasso) non basta. Perché se c’è una cosa che il varietà tollera poco è proprio l’ironia postmoderna, il cinismo, l’effetto cornice con strizzatina d’occhio, “guardateci mentre facciamo finta di essere in un vecchio varietà anni Sessanta”. Al varietà invece bisogna crederci. Ha le sue leggi. Il suo canone antico, Wanda Osiris coi suoi boys, Macario, Billi e Riva, la sua reinvenzione televisiva, “Studio Uno”, “Canzonissima”, “Milleluci”, “Al Paradise”, eccetera. Il varietà è come una religione. Quando nel 1973 la Rai spostò “Canzonissima” dal sabato sera alla domenica pomeriggio fu subissata di telefonate di protesta. Una profanazione. Un insulto alla tradizione. La Rai doveva ridimensionare il programma, c’era la crisi petrolifera, l’austerity, le domeniche in bicicletta. Il varietà doveva adeguarsi alla “stagflazione”. Ma non si può “ridimensionare” un varietà. La crisi non gli si addice. Alla fine degli anni Settanta il varietà era già un oggetto nostalgico. Andava in onda ancora Macario, con un varietà-omaggio alla sua carriera (“Macario più”). Ho qualche sbiadito ricordo televisivo di Macario, forse tra i primi insieme a “Goldrake”. Sembrava catapultato in tv dall’Ottocento, un reperto della Belle Époque, però perfetto come fantasma, con quella faccia da Pierrot Lunaire. Lo spettacolo era un tributo alla rivista che fu, le soubrette, le grandi gag, “Carlin Cerutti sarto per tutti”, “Che quarantotto in casa Ciabotto”. Ricordo che Macario mi metteva addosso una gran malinconia, a casa non rideva nessuno.
Il varietà della mia generazione è stato il “Fantastico” degli anni Ottanta, lo show del sabato sera rilanciato da quel poeta maledetto della tv che era Enzo Trapani. “Fantastico” radunava tutta la famiglia davanti al televisore, come all’epoca d’oro di “Canzonissima”. Antonello Falqui e Enzo Trapani erano l’apollineo e il dionisiaco del varietà. Da un lato l’eleganza da sophisticated comedy americana, la sottrazione delle scene, lo stile, l’armonia, quella precisione misurata e essenziale fino all’astrazione del bianco e nero di “Milleluci” e “Studio Uno”. Dall’altro la follia scenografica, i chromakey, le inquadrature del basso à la Orson Welles, gli specchi, i décadrage, i trip visivi dei “Fantastico” di Enzo Trapani. Certo all’epoca non me ne rendevo conto. Mi mettevo a canticchiare “Cicale” davanti la tv, come tutti i bambini, ipnotizzato dalle tutine glitterate, i leggings in lycra turchese, gli stivaletti con lo strass di Heather Parisi che sembrava in preda all’anfetamina. Ma quei primi “Fantastico” di Enzo Trapani erano davvero pazzeschi. Una versione nazional-popolare delle cose che aveva sperimentato poco prima in “Stryx”, varietà satanico sui culti paneuropei, luci stroboscopiche, fumi, scimpanzé, galli da combattimento, leoni, anatre, mimi giapponesi, Patty Pravo con la camicia di forza, Mia Martini bruciata al rogo come una strega. Avanguardia pura. Col suo “Fantastico” Trapani non ci provava nemmeno a inseguire il canone fissato da Falqui. Lo spettacolo nasceva dalle ceneri di “Canzonissima”, ma andava a parare da altre parti. La regia di Trapani lo trasformava in un caleidoscopio ultrapop, coloratissimo, abbagliante, ipnotico. C’era l’orchestra di una volta, ma come appollaiata per aria, coi suoni synth, e i classici della canzone italiana rifatti in salsa “disco” e le marching band, le majorettes, i cavalli in scena.
Ricordo soprattutto l’edizione condotta da Gigi Proietti, Teresa De Sio e Heather Parisi (che ora cantava “Ceralacca”), la quarta e ultima dell’era Trapani. Un’edizione passata alla storia soprattutto perché fu incredibilmente battuta da “Premiatissima”, in onda su canale 5. Per la prima volta una tv privata superava lo show del sabato sera della Rai. Una cosa inaudita. L’inizio di un’altra era. Esiste infatti una “via Fininvest” al varietà, che era un vecchio pallino di Berlusconi: rifare la Rai elegante e charmant dei suoi grandi spettacoli del sabato sera, ma su Canale 5, con più brio, più ritmo, più tette, più America. E questo “Premiatissima” faceva sin dal titolo il verso a “Canzonissima”, però col “Dixan” al posto della Lotteria Italia. Dopo una prima edizione condotta da Cecchetto, passò a Johnny Dorelli che dava un tocco più “old fashion”. “Premiatissima” era una gara canora con intermezzi comici, l’orchestra diretta da Augusto Martelli, le coreografie di Gino Landi. La prova che Berlusconi faceva sul serio, pensava in grande, smontava i pezzi della Rai, portandosi intanto dietro Gigi Sabani che era venuto su con “Fantastico”, facendo anche una corte spietata a Mario Maffucci, o almeno così dicevano i giornali, capo-struttura di Viale Mazzini e show-runner del sabato sera della Rai. Nei piani di Berlusconi, Maffucci avrebbe dovuto dirigere il settore varietà di Fininvest. Nonostante i tanti soldi messi sul piatto se ne resterà in Rai. Sua, cioè di Maffucci, l’idea di affidare la conduzione di “Fantastico 8” a Adriano Celentano, imbarcato per sostituire Pippo Baudo, finito appunto nelle grinfie del Cav. Quel “Fantastico” come si sa è un capitolo a parte della storia della tv, un anno zero, ma anche una pietra tombale sul varietà, negato e annichilito in tutti i suoi elementi: ritmo, gioia, chiasso, divertimento, leggerezza. Addio tutto. L’era del post-varietà (e la fine di “Fantastico”) inizia da lì. Tra i tentativi più disastrosi per ravvivare il genere si segnala, alla fine degli anni Novanta, “Crociera” di Gianni Boncompagni. Era un musical-varietà modello “Love Boat” con Nancy Brilli. Un baraccone senza capo né coda, già in quota trash, naufragato dopo la prima puntata, con indagine della Corte dei Conti a seguire per i costi esorbitanti del programma. “È incomprensibile come si sia arrivati alla messa in scena di un prodotto del genere”, diceva inorridito Antonello Falqui intervistato sul Corriere. “Boncompagni è cinico, crede che lo spettatore vada preso in giro”. E qui aveva ragione Falqui, c’è poco da fare, il varietà non si può fare disprezzando il pubblico a cui ci si rivolge. Il varietà non può essere “cinico”. Il varietà deve rimandare a una dimensione di sogno, lo spettatore deve essere coccolato, stupito, rapito. “La Rai dovrebbe distinguersi, puntare in alto”, proseguiva Falqui, “noi producevamo il miglior intrattenimento del mondo. Eravamo i re del varietà, come siamo finiti da Walter Chiari a Magalli?”. Forse c’era anche un po’ di rancore, ma l’amarezza di Falqui davanti alla marea montante del trash era comprensibile. Il varietà sarebbe stato succhiato dai format, talent, reality, persino i quiz. Ha nutrito tutti. E più scompariva più cresceva “la grande nostalgia del varietà”. C’entra parecchio l’arrivo di “Techetechetè” che ripropone in loop ormai da anni le grandi gesta, le imprese, l’epica del nostro miglior varietà. Guardando “Techetechetè” ci si è anche resi conto di quanti soldi giravano una volta in televisione, soprattutto nel varietà. Però non è solo un problema di budget. Il varietà è una costruzione televisiva costosa, forse la più costosa, questo è ovvio, ed è l’argomento che vi sentirete ripetere sempre per spiegare la sua decadenza o il suo inabissamento: sono finiti i soldi. In una tv che deve ridimensionare i suoi budget, il varietà è il primo genere che viene sacrificato. Tutto il budget o quasi oggi se lo succhia Sanremo, ed è lì che si trovano le ceneri del varietà. Però a Sanremo non ci sono coreografie, l’orchestra sembra imbalsamata, la messa in scena delle canzoni è sempre la stessa, la regia è piatta, impalpabile, statica. Canzoni a parte, lo spettacolo è affidato a monologhi dolenti e due o tre lazzi comici tirati via. E il budget spiega e non spiega. Il fatto è che quello del varietà è un tempo televisivo che non abbiamo più, che non concediamo più.
Bisogna coinvolgere continuamente il pubblico in una sorpresa rinnovata. Il varietà era una cornice di puro entertainment che si staccava da tutto il resto, ma oggi tutto è intrattenimento. Il varietà nell’epoca di Tik-Tok è complicato. Problemi di budget è parte, era e resta il genere più difficile. Uno spettacolo che si regge molto sulla regia, sull’esaltazione dello studio, della scenotecnica. Mesi e mesi di prove, scrittura, la creazione di una scaletta che deve funzionare al millimetro, e poi la regia che tiene insieme con gran ritmo e invenzioni visive tutta la baracca. Non basta avere un bravo attore-attrice-comico-comica. È una gioiosa macchina da guerra che costa tantissimo (soldi, sacrificio, tempo, pazienza, idee) e deve saper parlare a tutti, nonni, zii, mamme, papà, bambini, e proprio per questo si trascina addosso una angoscia dell’auditel che non tutti reggono. Vent’anni fa, i grandi spettacoli di Fiorello sulla Rai fecero gridare al “ritorno del varietà”. Lui che duettava con Dustin Hoffman e a disposizione cachet per ospiti con cui oggi si fanno cinque programmi. Era il post-varietà, ma c’era lo sfarzo, il ritmo, la gioia di quello di un tempo. Però Fiorello per primo non ne ha voluto sapere di insistere, di tirare troppo la corda. Alle serate in paillettes e lustrini preferisce l’alba. E poi la mattina televisiva va meglio del prime-time, è meno rischioso, diventa un gioco, un esperimento, un cazzeggio tra amici. Se in passato hai fatto il 40 per cento di share oggi sei terrorizzato. È comprensibile. Oggi poi le battute sono in competizione coi social, il sabato sera televisivo non esiste più, il varietà è un’incognita. Meglio RaiPlay. Tutti i dirigenti lo coccolano, lo implorano, lo guardano come la scialuppa di salvataggio del Titanic. E il successo di Fiorello vive un po’ anche di questa sua solitudine, al riparo dalla prima serata. Schivo, ritratto, all’alba in edicola, senza prime-time. È il fantasma del varietà.
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