Dove nasce il Paradiso (delle signore). Una giornata sul set
Prodotto popolare ma con una cura maniacale per i dettagli
La Milano del “Paradiso delle signore”, la serie ambientata negli anni del Boom in onda il pomeriggio su Rai Uno, sorge a Roma tra il tetro cimitero di Prima Porta e il parco di Veio, grande riserva naturale che segna il confine estremo della città: fitta boscaglia, fiumi, torrenti, una cascata, insomma una Roma nord a forma di “Vietnam” (cit.). Siamo qui, negli studi Videa, tirati su da Franco Cristaldi all’alba degli anni Sessanta come simmetrico opposto di Cinecittà. Laggiù Dino De Laurentiis aveva costruito con consueta megalomania la sua “Dinocittà”, i grandi stabilimenti sulla Pontina, verso il mare, oggi parco a tema perlopiù disabitato. Il rivale Cristaldi scelse il punto più distante, dall’altra parte della città. Roma nord contro Roma sud, anche nella golden age del cinema italiano. Qui hanno girato Fellini, Germi, Rosi, Tornatore, Pontecorvo, poi dagli anni Novanta molta fiction tv.
Ho portato anche mia madre e mia suocera, fan sfegatate e innamorate di Vittorio Conti, cioè Alessandro Tersigni, colonna della serie
La produzione del “Paradiso delle signore” mi ha invitato per l’ultimo giorno di riprese prima di una lunga pausa in cui scriveranno il concept della prossima stagione, riprendendo poi a girare in primavera. Naturalmente ho portato anche mia madre e mia suocera, fan sfegatate, fedelissime della prima ora, vestali del “Paradiso delle signore” e innamorate pazze di Vittorio Conti, cioè Alessandro Tersigni, ex Gf, veterano e colonna della serie (l’equilibrio di un matrimonio si fonda su cose del genere: inammissibile venire al “Paradiso” senza dirgli niente, non me l’avrebbero mai perdonato). Fascinoso consulente pubblicitario di questi grandi magazzini, working place dove ruotano vicende, amori, intrighi, il personaggio di Vittorio Conti è modellato un po’ su Don Draper. E sì, “Il paradiso delle signore” è il nostro “Mad Men”. Entrando nei Videa Studios, cioè in questi sessanta ettari di bosco e quindicimila metri quadri di teatri di posa, s’intravedono in lontananza le maestose scenografie dei “Leoni di Sicilia”, la serie sulla dinastia Florio. Sono rimaste ad appassire dopo la fine delle riprese. “Che ci faranno?” domando, “non si sa, forse un’altra fiction, ma bisogna sbrigarsi, qui all’aperto si rovinano”. Mi spiegano che ogni tanto i cinghiali sconfinano sul set. Se ne vanno a spasso nella Palermo in cartongesso dei “Leoni”, o in questa Milano di fantasia, modellata sul tratto Duomo-Cairoli, fatta di grandi magazzini, boutique, stradine eleganti costruite apposta per il “Paradiso”, asfalto, marciapiedi, c’è tutto. Una Milano anche con i cinghiali, come una distopia. C’è anche il Cinema “Corso”, con locandine d’epoca bene in vista, anche se aprendo le porte si finisce davanti a un muro. Truccate e in costume ecco le “veneri” (così si chiamano le commesse del “Paradiso”). Passeggiano davanti lo studio, ripassano le battute, stanno al cellulare. Madre e suocera sono incredule. In estasi. Letteralmente a bocca aperta. Essere qui con loro è come portare i bambini a casa di Babbo Natale. Tutti sono molto gentili e cortesi, come raramente succede con chi viene a scocciare sul set mentre si gira, nel via vai di comparse, macchinisti, truccatori. Non c’è la spocchia che capita a volte sui set cinematografici, l’aura sacra della creazione. La televisione è un lavoro. Non ci sono neanche i tempi morti del cinema, maestranze sbracate che ciondolano in attesa di nuovi ordini dal regista. Qui è tutto velocissimo. Sembra la redazione del New York Times in subbuglio per una notizia appena arrivata. Una factory autosufficiente. Tanti hangar sparsi nel terreno con tutti i reparti. Quindici persone solo per costumi e scenografie. Tutto quello che si vede nel “Paradiso” è infatti home made e non comprato in qualche vintage store: mobili, vestiti, accessori, tutto realizzato a partire da disegni originali ispirati allo stile della Milano del Boom.
Giannandrea Pecorelli, showrunner, “viscontiano di ferro”. “Amo Visconti, amo il gran melò, ‘Senso’ è il nostro ‘Via col vento’”
Mi siedo ai tavoli del “Gran Caffè Amato”, il bar del “Paradiso”. Al bancone vasi di vetro con caramelle, confetti, vassoi vintage con cornetti e un juke box (“abbiamo i diritti per 25 canzoni che usiamo a rotazione”). Alle pareti foto in bianco e nero del Duomo, sui tavoli copie dell’“Eco della sera”, versione fiction del Corriere della sera, per evitare pubblicità e licenze. Ma anche qui un verismo assoluto: titoloni sul Vajont e il congresso del Psi, “gli autonomisti e le possibilità di rilancio del centrosinistra”. Il “Gran Caffè Amato” è meglio del “bar Luce” di Wes Anderson alla Fondazione Prada. Sfoglio alcuni numeri della rivista, “Paradiso Market”, modellata naturalmente sul “Postal Market”. Veri articoli, recensioni, oroscopo, la posta del cuore, editoriali firmati da Vittorio Conti, pubblicità di marchi inventati, “detersivo Blitan”, “latte Miglietta”, “arredi Bitta” (è una creazione di Maurizio Kovacs, scenografo e direttore artistico del “Paradiso”, e da sola dà l’idea della dedizione che c’è dietro questa serie). Mi domando perché riempirla di pagine così dettagliate se è solo un oggetto di scena. “Perché può capitare che il personaggio la sfogli e nell’inquadratura si deve vedere cosa sta leggendo”. Questa precisione filologica, l’accuratezza di costumi, accessori, capigliature, insomma questo piglio viscontiano del “Paradiso delle signore” è uno dei suoi punti di forza. Ciò che lo rende diverso da tutto il resto (l’autista che ci ha accompagnato si era dichiarato fan di “Un posto al sole”, e subito madre e suocera hanno spiegato che “Un posto al sole” se li sogna dei costumi così, “ma ha visto che abiti, che chignon, che tailleur!”). Giannandrea Pecorelli, ideatore, producer, showrunner del “Paradiso delle signore”, si definisce non a caso “viscontiano di ferro”. “Amo Visconti, amo il gran melò, ‘Senso’ è il nostro ‘Via col vento’, Visconti mi rapisce ogni volta che lo rivedo”. Nei primi anni Novanta si appassiona alla serialità televisiva, ma in Italia non se ne parlava. Va all’estero, vede i set in Francia, in Olanda. C’era questa lunga serialità fatta in studio, su base industriale, quando da noi “industriale” neanche si poteva dire. Poi arriva Tinny Andreatta a Rai Fiction e le propone il “Paradiso”. Dieci serate in prime-time. E’ un successo (il “Paradiso” nasce come fiction serale, poi dopo due stagioni passa al daily, il punto debole della Rai, dove più soffriva la concorrenza Mediaset). “Tutti i daily e le soap erano sui venti minuti a puntata. A noi chiesero quaranta minuti per il prime-time. Come unico esempio c’era ‘Il segreto’, una soap spagnola che andava su Canale 5. Abbiamo messo su un sistema misto, con il work-in-progress del daily pomeridiano, ma trattato come una produzione da prime-time”. La distinzione tra pomeridiano e serale non è più così marcata. “Prima quando una cosa non veniva bene nel daily, che so una scena, un dialogo, si diceva: vabbè dai, magari lo spettatore neanche ci fa caso, avrà da fare in cucina, starà sistemando casa. Oggi non sai più quando e come ti vedranno. Il prodotto deve poter funzionare in tutte le fasce. Non è detto che il tuo pubblico sia quello delle quattro del pomeriggio, magari ti vedono la sera su RaiPlay”.
Mi accompagna per i vari set del “Paradiso”, dove girano due o tre scene in contemporanea. Una produzione a catena, un sistema a ciclo integrato che da noi non è la norma. Mi racconta come nasce questo prodotto venduto in cinquanta paesi, una media di oltre 20 per cento di share, da anni il più visto su RaiPlay, appunto. Tanto per cominciare, non è una soap. “Lo chiamano soap ma è un period drama. Ogni episodio racconta una giornata di un anno preciso. Siamo partiti dal 1956, seguiamo giorno per giorno il calendario. Ora siamo nel 1965, alle prese con l’arrivo della minigonna”. Come tutti i period drama, il “Paradiso” è costruito sulla lotta di classe. Una lotta di classe subito visibile nella struttura piramidale dei grandi magazzini: ai piani bassi i magazzinieri che parlano in barese; poi il reparto vendite, con le veneri e le capocommesse; poi i pubblicitari, i quadri dirigenti, i piani alti.
L’iconica scala elicoidale all’ingresso come simbolo plateale dell’ascesa sociale che muove tutta la serie. “Il period drama è sempre aspirazionale”, dice Pecorelli, laureato molti anni fa con Asor Rosa (titolo della tesi: “La poesia sociale in Italia: dalla comune di Parigi a Bava Beccaris”). “Il magazziniere è innamorato della commessa, ma la commessa è innamorata del dirigente o si lega a un cliente, magari facoltoso, tutto ha sempre a che fare col riscatto sociale”. Ma Asor Rosa l’ha mai visto? “Ma no, figuriamoci”.
Mobili, vestiti, accessori originali ma ispirati allo stile della Milano del Boom. Titoloni di giornale sul Vajont e il congresso del Psi
Come i nostri raffinati lettori sanno bene, “Il paradiso delle signore” è il titolo di un romanzo di Émile Zola (“Au bonheur des dames”), undicesima puntata del ciclo “Rougon-Macquart”, monumento al naturalismo letterario con cui Zola rappresentava in modo scientifico le trasformazioni sociali di una famiglia, dal colpo di stato di Napoleone III alla sconfitta di Sedan. Nel “paradiso” di Zola la giovane orfana si trasferisce coi fratelli dallo zio, a Parigi. Qui scopre che il suo piccolo negozio di abbigliamento è sull’orlo della rovina, minacciato dai nuovi grandi magazzini di prêt-à-porter. È la Parigi delle Galeries Lafayette e dei nuovi “formicai” della modernità che spazzano via la piccola vendita al dettaglio. Lei si fa assumere. Inizia la sua scalata sociale. Mettere insieme Zola e Visconti, ecco l’idea: “Abbiamo immaginato i personaggi di ‘Rocco e i suoi fratelli’ che arrivano a Milano, lo stupore, le luci, la metropoli, poi una che si stacca dal gruppo e finisce alla Rinascente. Da Zola abbiamo preso lo zio col piccolo negozio di tessuti che sta fallendo. Quindi c’è questa ragazza che arriva a Milano da Partanna, non sa niente di moda, ma è tenace, determinata, viene assunta al ‘Paradiso delle signore’… tutta la serie è guidata dal suo stupore per Milano, la moda, il design”.
Parte così una controstoria d’Italia vista da questi grandi magazzini, con le vicende che s’intrecciano sullo sfondo degli eventi. “Nel ‘56 le veneri raccolgono vestiti e giocattoli per mandarli in Ungheria, appena invasa dai russi. Abbiamo fatto puntate sul Vajont, l’uccisione di Kennedy, il 25 aprile, il primo maggio, naturalmente Sanremo, o la prima della Scala, il 7 dicembre, con la famiglia Guarneri (la famiglia ricca del ‘Paradiso’) che il giorno dopo commenta l’opera. Spesso citiamo chi vince lo Strega, i libri che escono in quegli anni, Pasolini, Eco, Arbasino. Cerchiamo di infarcire i dialoghi di situazioni reali. Abbiamo raccontato la morte di Coppi con Vittorio Conti che allestisce uno spazio nei grandi magazzini con la bici e la maglia in omaggio al campione” (e anche qui puntiglio viscontiano: la produzione fa venire la vera “Legnano dei record”, custodita nel Museo del Ghisallo, però è troppo malmessa, allora la rifanno uguale ma più scintillante).
Entriamo in una saletta dove si sta montando una puntata che andrà in onda l’8 marzo. C’è un maestro Manzi molto somigliante che parla alle commesse radunate davanti alla lavagna, fa un bel discorso sull’emancipazione femminile e l’importanza di studiare e lavorare. Il momento “Cortellesi” del “Paradiso”. “Naturalmente a volte ci prendiamo anche delle libertà. Per esempio, che Carosello è nato da un’idea di Vittorio Conti. Oppure che Marcello Barbieri abbia avuto l’intuizione dell’Autogrill, che nel ‘Paradiso’ si chiamano ‘punti ristoro’, perché non possiamo nominare il marchio (Barbieri è un altro personaggio molto amato, barista fascinoso dal passato oscuro che tenta la scalata come toy-boy della contessa Adelaide di Sant’Erasmo, cioè Vanessa Gravina). Poi però i nostri fan si fermano sull’A1 e ci mandano foto scattate ‘davanti all’Autogrill che ha aperto Marcello Barbieri’”. E’ la vita che si mescola alla fiction. Personaggi che vediamo ogni giorno, che diventano un’abitudine, prendono vita. Salta il filtro tra personaggio e attore, come una volta col cinema popolare, i film di Matarazzo, “Tormento”, “Catene”, “I figli di nessuno”. Qui però “non muore nessuno”, mi dicono. “Si lascia sempre una porta aperta”. Un piano B. Un ritorno incredibile dopo anni di latitanza in Australia o in Sudamerica.
Da noi l’unico divismo che funziona è quello televisivo. Il pubblico del “Paradiso” è davvero trasversale, pieno di insospettabili
Per avere un’idea del fandom del “Paradiso” basta farsi un giro nelle pagine Facebook e nei gruppi dedicati alla serie. “Quando veniamo invitati in varie situazioni: festival, premi, eventi, soprattutto al sud, com’è capitato a Bari, Matera, Messina, ci sono scene incredibili. La folla che chiama gli attori solo coi nomi dei loro personaggi, li braccano, chiedono perché hanno fatto questo o quello nell’ultima puntata. Per loro personaggio e attore sono la stessa cosa”. Da noi l’unico divismo che funziona è quello televisivo. Ma il pubblico del “Paradiso” è davvero trasversale, pieno di insospettabili. Saputo che venivo sul set, stimati professori universitari mi hanno pregato di chiedere come andrà a finire tra Flora e Umberto. “E’ come il fight-club”, mi dicono qui, “per le persone più raffinate è un segreto, sono fan sotto copertura, però parlando viene fuori che hanno visto tutte le stagioni”. Non solo quindi l’improbabile casalinga di Voghera che stira davanti la tv, ma anche “gente dell’entourage di Mattarella”. Chissà forse lo stesso Mattarella. Le riprese finiscono verso sera. Ci dispiace andare via. Soprattutto è impossibile rimettere in macchina madre e suocera. Ormai sognano un cameo, vestite di tutto punto, con spille e chignon, sedute ai tavolini del “Gran Caffè Amato”, sfogliando “L’Eco della sera”.
Politicamente corretto e panettone