fuori dall'Ariston
“Salviamo il Festival da Sanremo”. I grandi discografici italiani lanciano un appello alla Rai
La città che organizza il Festival non è più all’altezza del Festival. Ipotesi: cambiare tutto o addirittura spostarlo. Parlano le major e le etichette indipendenti
“Russell Crowe e John Travolta hanno dormito a Nizza pur di non stare a Sanremo, ci sarà un motivo o no?”. L’industria discografica mette in discussione Sanremo. Non il Festival, attenzione, ma proprio la città di Sanremo. Le sue strade, il suo teatro, i suoi alberghi, il complesso dei suoi servizi inadeguati. “E’ una città che probabilmente pensa di poter vivere di rendita. Ma senza investimenti diventa sempre più fosforescente la distanza tra la modernità di un Festival di grande successo e l’obsolescenza di una città che non vuole crescere”, dice Enzo Mazza, il presidente della Fimi, la federazione delle major discografiche italiane. “La Rai si è modernizzata. Noi discografici ci siamo modernizzati. E Sanremo è ancora lì con le facciate dei palazzi sbreccati, il treno veloce che però è lento, le fognature che si rompono e gli alberghi che non vengono ristrutturati da vent’anni. La cosa più moderna è quell’assurda stazione ferroviaria scavata nella roccia che per raggiungere i due – dico due – binari devi fare quattrocento metri e prendere due ascensori. Manco a New York. Sarà costata miliardi”.
Lo stesso giudizio è condiviso anche da Mario Limongelli, presidente di Pmi, l’associazione che riunisce le etichette indipendenti. Insieme, Mazza e Limongelli, per intenderci, rappresentano circa il 99,9 per cento dell’industria discografica italiana. Insomma: loro due sono l’industria discografica italiana. “Il Festival ha bisogno di spazi, di un teatro adatto a uno spettacolo ormai così grande, ha bisogno di un’offerta ricettiva all’altezza, e di un contesto urbano che garantisca spostamenti certi e rapidi agli artisti. Ma ve lo siete chiesto perché si fanno continuamente collegamenti all’esterno dell’Ariston, con una nave o con una piazza? O con Fiorello per strada?”.
Banca Ifis ha calcolato che il Festival porta a Sanremo 41.000 persone in sei giorni. Circa 18 milioni di euro: 8,8 per gli affitti, 2 milioni di euro per la ristorazione, 2 milioni di euro per lo shopping, oltre ai 5 milioni di euro netti che paga direttamente la Rai all’amministrazione comunale (che poi gira 1,5 milioni di euro a Walter Vacchino proprietario del teatro Ariston). In appena sei giorni.
Secondo altre stime, nel complesso, estendendo il calcolo all’intera provincia e a tutto l’indotto, il guadagno netto sarebbe superiore ai 100 milioni di euro. E però a guardare Sanremo, con la sua aria di Costa Azzurra délabré, con le strade qui e là sconnesse, la puzza di fogna davanti ai ristoranti sul porticciolo, con i ratti che corrono sul lungomare come sulle piste di Formula uno, c’è da chiedersi che ne facciano di tutto questo denaro. Sembra pioggia sul parabrezza di un’automobile. Scivola via e non si sa dove finisce. La cosa che impressiona un osservatore estraneo è che questo genere di osservazioni precipitano a Sanremo, sulla sua politica locale, sui candidati sindaci (tra poco si vota per il comune) e persino sulla Confcommercio come fossero degli insulti. E non un invito a riflettere. A investire. A migliorarsi.
“Vorremmo ricordare, onde evitare equivoci, che il Festival di Sanremo è un marchio registrato di proprietà esclusiva del comune”, ha detto uno dei candidati sindaci di Sanremo che si chiama Gianni Rolando. Emerge così, con chiarezza, la filosofia della rendita parassitaria. Quella che, per eterogenesi dei fini, un giorno potrebbe anche provocare la morte del Festival. Almeno a Sanremo. Magari non oggi, forse non domani, ma dopodomani chissà. D’altra parte lo ha detto anche Paolo Bonolis: “Potrei un giorno anche tornare al Festival, ma si deve fare in un altro posto. Più adatto. Non all’Ariston”. Lo ha detto pure Fabio Fazio nel 1999: qui non funziona. E lo ha pensato Piero Chiambretti quando è toccato a lui condurre. Insomma non c’è una sola persona che abbia lavorato all’organizzazione del Festival, persino dentro la Rai, che non dica: Sanremo corre a una velocità diversa da quella del Festival. “Casca a pezzi”, dice senza mezzi termini Giovanni Minoli. “Sanremo è un simbolo decadente che una volta all’anno si accende con questo spettacolo di cartapesta che unisce nonni e nipoti”. E la sensazione di tutti è che Sanremo nemmeno voglia migliorarsi. D’altra parte i denari arrivano facilmente, senza sforzo alcuno. Rendita parassitaria, appunto. “Purtroppo Sanremo, come tutte le cose belle, suscita invidie e gelosie. Ma Sanremo è Sanremo. Ci dispiace, ma manco troppo, per i ‘rosiconi’”, è infatti l’incredibile commento della locale Confcommercio. Ecco. Sanremo è Sanremo, sì, ma se nessuno se ne occupa ben presto potrebbe anche diventare una qualsiasi cittadina morta della riviera. A gennaio, per dire, le fogne cittadine, scollegate dal depuratore rotto, sversavano liquami in mare. E noi a febbraio, durante il Festival, sentivamo uno strano odore nella zona del porto. Però va tutto bene. “Ma l’avete mai visto l’hotel Globo dove hanno dormito Amadeus e Fiorello?”, dice un amico e collaboratore dei due conduttori che hanno portato il Festival al record di ascolti. “Quell’hotel sembra una cosa a metà tra la pensione dei preti e il carcere di Rebibbia”.
Racconta Caterina Caselli, che non ha bisogno di presentazioni: “Qualche anno fa per raggiungere il teatro Ariston un cantante dovette salire su un’auto della polizia a sirene spiegate. Perché il traffico è ingestibile. Gli alberghi sono strapieni, troppo pochi, in tanti vanno a dormire a Bordighera. E non basta. Bisognerebbe invitare la città, intesa anche come impresa cittadina e non solo il comune, a investire. Perché Sanremo è un grandissimo marchio. Ed è un posto che ha fatto la storia della musica italiana”. Ma Sanremo sta diventando il freno a mano tirato del Festival. Un ostacolo. “Il problema”, dice Mazza, il presidente dei discografici, “è che mentre noi siamo lì per lavorare, mentre intorno a questo Festival cresce un business enorme, la città di Sanremo è invece interessata soltanto a che Amadeus parli dei fiori e che qualche migliaio di persone passeggi per strada consumando panini di gomma e cocacole”. Provincialismo, miopia, inerzia e ignavia. Trenta artisti in gara, ci spiegano, significano circa 210 persone di staff in totale: discografico, manager, personal manager, parrucchiere, truccatore, videomaker... ogni artista ha una media di otto o dieci persone dietro. E non è un dettaglio. “L’avete mai visto il retropalco dell’Ariston? Non ci si muove nemmeno”, dice Limongelli, il presidente delle etichette indipendenti. “E’ uno spazio strettissimo dove stanno ammassati cantanti, staff, attrezzisti, operatori... Infatti è una specie di miracolo della Rai se si riesce ad andare in onda. L’Ariston scoppia. Ci si dovrà porre il problema. A meno che non facciano sparire la platea del Festival, cancellando il pubblico dal vivo. Ma non mi sembra una grande idea, considerato anche il fatto che oggi il pubblico che guarda il Festival dal vivo è già troppo poco. I talent show sulla musica hanno il doppio o il triplo di pubblico in sala, malgrado facciano soltanto il 2 per cento di share in tv. Mentre Sanremo ha il 70 per cento di ascolti, ma viene girato in un ex cinema con un pubblico ridottissimo”. La cosa sorprendente è che l’imprenditoria e la politica locale, a Sanremo, anziché pretendere il treno ad alta velocità, anziché investire nei servizi, punta soltanto a spremere la sua stessa città. Finché ce n’è. Finché si può. E poi? Boh.