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Il dopo-festival

Tensioni, divisioni e controversie al Festival di Sanremo. Meglio così

Stefano Pistolini

Nessuna favoletta sul momento d’armonioso intrattenimento di un paese coeso. La kermesse musicale ha trasmesso l’Italia vera in televisione, con tutte le sue contraddizioni 

Non che il dopo-Sanremo sia stato edificante. Spesso non lo è: ricorderete lo scorso anno il codazzo di polemiche sulla mala educación di Fedez col suo bacio malandrino con Rosa Chemical, a ripensarci adesso marachelle da gita di classe. Quest’anno la questione è un filo più complicata e i fattori in gioco hanno un peso specifico diverso, provocando una strana destabilizzazione, che poco s’accorda con l’atmosfera tutta rose e moltissimi fiori in cui il direttore della manifestazione Amadeus ha cercato d’incartare la settimana di “festa”.

I fatti si conoscono: il discreto pasticcio attorno alle votazioni e nello specifico alla vittoria/non vittoria di Geolier, sostenuto da un’armata di supporter nel televoto, al punto da far supporre a un coordinamento militare, perché sennò si sarebbe di fronte a un paradossale fenomeno di omologazione del gusto nazionale. Per contro la rocciosa ostilità della cosiddetta sala-stampa, il suq degli accreditati che esprimono pareri specialistici, andata invece in direzione completamente contraria, facendosi vettore dell’altro sentimento popolare diffuso, quello della figlia d’arte Angelina Mango, della sua magnetica rivelazione sul palco dell’Ariston e dell’esplosione del fattore-commozione, come se di Mango e della sua musicalità si fosse mai ricordato qualcuno per anni, come se il raccogliere il testimone paterno sia un gesto da premiare a prescindere e non per la qualità espressa da Angelina, grazie al gran pezzo confezionato per lei da Madame e Dardust.

La storia è esplosa male, perché ciò che ne è uscito è un poco edificante quadro “Napoli contro tutti”, un’anti-napoletanità sintonizzata con quella che sovente abita a San Siro e, dall’altra parte, svariati eccessi di sciovinismo campanilistico che hanno trasformato un giovane artista come Geolier in un eroe per caso. A latere sono ripartite le dispute stantie sulla disdicevole estetica del rap, vedi le foto di Geolier col mitra d’oro e quindi le sparate a salve sulle maligne influenze dello stile-Gomorra, sempre da condannare come un cancro, tanto più se messo a confronto con la tragica vicenda di GioGiò, il giovane musicista partenopeo ammazzato  nelle strade del centro e con la crociata di sua madre, la logopedista Daniela Di Maggio, apparsa al festival a perorare la causa di una Napoli buona che si ribella a una Napoli perversa, adombrando perfino la volontà di una discesa in politica. 


Poi c’è stata tutta la malmostosa diatriba sulla libertà di parola, generata dalla scelta di alcuni artisti di usare la ribalta festivaliera per lanciare messaggi più che altro di generico pacifismo, quei “stop alla guerra” e “mettiamo fine al genocidio” che rilanciano la discussione sulla legittimità politica delle popstar e sul valore delle loro prese di posizione – a meno che non siano Taylor Swift. Se è naturale che i cantanti debbano occuparsi prevalentemente di musica, è plausibile che l’artista che abbia un pensiero da esprimere approfitti di una ribalta eccezionale per presentarlo, assumendosene la responsabilità e con quel “corto muso”, quell’elaborazione sommaria che una scena del genere provocherà nel pubblico. Ipocrita prendersi in giro: se Ghali e Dargen D’Amico fanno dichiarazioni di questo tipo, difficile pensare che le si possa considerare qualcosa di più di un volenteroso sconfinamento, ma che lascia il tempo che trova. Che di lì si scateni un caos mediatico con venature etiche, che contemplano gli interventi e i contro-interventi dei vertici Rai, la discesa in campo dell’ambasciatore israeliano, la penosa lettura del comunicato “del Capo” operata senza spirito critico da Mara Venier – dopo aver ribadito, come Amadeus, che la sua trasmissione fosse “una festa”, non un posto per “temi complessi” – insomma tutto questo gonfia/sgonfia del fronteggiamento è culminato nelle manganellate davanti alla sede Rai di Napoli, nella manifestazione di fronte a quella di Torino, nelle accuse all’azienda di Stato d’essere asservita all’ultimo padrone.

A questo punto viene da pensare che il Festival di Sanremo 2024 non sia stato per niente il momento d’armonioso intrattenimento di un paese coeso, ma l’occasione per accendere la miccia di tensioni, divisioni e svariate questioni aperte. Meglio così: meglio che il costoso e trionfalistico carrozzone di Sanremo sia esploso rivelando le contraddizioni che traversano il paese, piuttosto che perpetrare l’atmosfera narcolettica di beata ignoranza che si voleva imporre dal piccolo schermo, tra ammiccamenti buonisti e battute demenziali. Pensate che perfino certe canzoni di questa edizione, qualche testo, gli atteggiamenti dei cantanti, alcune loro moine e certi loro imbarazzi, acquisiscono così un po’ più di credibilità e di umanità, disciogliendo l’atmosfera propagandistica che aleggiava sull’evento. In Italia scorrono vene di razzismo interno, certi comodi slogan riaffiorano tra i guerriglieri da salotto, e comunque prima di proibire è sempre meglio consentire e discutere. E via di questo passo. Ecco: la 74esima edizione di Sanremo, oltre a qualche decente canzonetta, ci dice che l’Italia è un paese lungi dall’essere perfetto. Di non credere a questa favoletta. Ma davvero qualcuno ha mai pensato di crederci?

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