Dopo Sanremo
Fratelli di fiction. La storia torna in Rai ed è subito autocoscienza nazionale
Mameli infilato nel pantheon di Giorgia Meloni ma è pure un “ragazzo di oggi”. Da noi è sempre il contesto, cioè la maggioranza che si prende la tv pubblica, a dare la cornice ideologica della messa in onda, e la stessa fiction può essere di lotta e di governo
Ma sarà più racconto del paese un Sanremo che ormai si prende tre settimane della nostra vita, tra attesa, indiscrezioni, canzoni, polemiche, Codacons e ora anche presìdi davanti la Rai con tafferugli, oppure questa nuova ondata di fiction chiamate a rafforzare l’identità nazionale e all’occorrenza sparigliare un po’ le carte dell’egemonia? In un paese così casinaro tutto si muove sul filo della musica. Dopo il Sanremo casamatta queer della sinistra, dopo la trap napoletana di Geolier e la salsa di Angelina Mango, ecco la pronta risposta della fiction: gli struggimenti patriottici di Mameli, la saudade, la mascolinità old-fashioned di Califano. Mameli e Califano insieme, come in un after hours.
Subito bollata come fiction “di destra”, Mameli è un progetto immaginato e approvato assai prima che Meloni arrivasse a Palazzo Chigi (e bisogna capire davvero poco di televisione anche solo per ipotizzare che una fiction Rai si metta su in pochi mesi, neanche nella Silicon Valley). Da noi però è sempre il contesto, cioè la maggioranza che si prende la Rai, a dare la cornice ideologica della messa in onda, e la stessa fiction può essere di lotta e di governo. Così, Mameli che dice “i bimbi d’Italia si chiaman balilla” con Fratelli d’Italia primo partito fa subito controegemonia e esempio purissimo di “nuovo storytelling” del direttore generale Giampaolo Rossi.
Ma se, per esempio, la serie su D’Annunzio che sta preparando Federico Palmaroli in arte Osho andasse in tv col Pd al governo, dopo un ribaltone o elezioni anticipate, eccoci allora davanti a un Vate finalmente raccontato in chiave antifascista e in tutta la sua complessità, con gli italiani di Fiume vittime di “un infernale intrigo finanziario”, come diceva l’Orbo Veggente.
La fiction su Mameli l’avevamo praticamente già vista durante Sanremo. Due promo ogni mezz’ora, per tutte le serate, con effetti anche di puro détournement situazionista. Ghali, per esempio, che in un climax multiculturalista canta “Un italiano vero” sul palco dell’Ariston, tra brividi e lacrimoni in sala stampa per questo momento toccante, davvero bello, davvero politico, davvero progressista. Poi stacco, spot, mano sul cuore, coro patriottico per le strade di Genova, “Mameli, il giovane che sognò l’Italia, prossimamente su Rai Uno”, come un brusco ritorno alla bianchezza, al sangue e al suolo e a Fratelli d’Italia, inno e partito insieme.
Vista lunedì e martedì in prima serata, questa fiction ha ridestato antichi ricordi scolastici e gite pranzo al sacco a vedere i busti dei patrioti sul Gianicolo. La maestra che legge i nomi nelle incisioni: Nino Bixio, Luciano Manara, Pietro Pietramellara… morti giovani o giovanissimi per fare l’Italia, spiegava, lasciandoci però a noi scolaretti sempre un po’ freddi e annoiati (come ci si può emozionare per dei busti anche severi e inquietanti e in alcuni casi proprio brutti? Vuoi mettere i marines? Lincoln? Il generale Custer?). L’amore per il Risorgimento a scuola non è mai scoccato, a parte un po’ di simpatia per la marcetta e le piume da burlesque dei Bersaglieri, sforzandosi magari di immaginare una “breccia di Porta Pia” un po’ più eroica di quel che è stata. Come già il Leopardi di Mario Martone, in quel “Giovane favoloso” che aveva come modelli Kurt Cobain e Pasolini, ecco allora un Mameli pop. Mameli come una rockstar, spiegano i registi della miniserie. Come un trapper della generazione zeta che però nel cuore ha la patria e la poesia, anziché Rolex e Lamborghini, e invece dei selfie firma autografi per le strade alle giovani mazziniane e garibaldine, in estasi per quel suo “Canto degli italiani” che va subito fortissimo. Un Mameli che già a vederlo nei promo sembrava Timothée Chalamet in “Wonka”, patriota e metrosexual (l’attore è Riccardo De Rinaldis Santorelli, tante pubblicità, qualche serie, un po’ di “Don Matteo”, e un nome in effetti da eroe risorgimentale).
Mameli inizia un po’ à la “Salvate il soldato Ryan”. La tensione silenziosa prima della battaglia. Sguardi impauriti. Mani tremolanti. Adrenalina. Si capisce subito che vuole essere molto cinematografica, modelli alti, “Noi credevamo”, “Allonsanfàn”, “Senso”. Una ricostruzione dettagliata, ma che “guarda al presente”. Quindi parata di filologici baffoni e favoriti, poi però altri personaggi con inspiegabili acconciature hipster. Nino Bixio è ricalcato su Johnny Depp nei “Pirati dei Caraibi”, fa un po’ il matto, beve il rum e “parla come Beppe Grillo” (Aldo Grasso). Ricky Memphis fa Ciceruacchio e dice “Viva ‘a Repubblica” con quattro “b”, Mazzini pare Moni Ovadia e Maurizio Lastrico, conciato da Garibaldi, sembra il “Folagra”, l’impiegato comunista di “Fantozzi”. In un’inquadratura enigmatica ecco i rappresentanti delle potenze europee. Tramano incappucciati contro l’Italia, radunati in circolo, tipo “caso Scafroglia”. Luca Ward, severo padre gesuita, è cattivissimo ma sembra uscito da una puntata di “Voyager” sui Templari. Subito lo strazio di una morte atroce, come vuole il gran mélo: la marchesina Geronima Ferretti, innamorata di Mameli, si trafigge con un coltello all’altare, rifiutandosi con gesto estremo di andare in sposa al ricco vedovo Marchese Giustiniani. Spleen alle stelle.
Ma anche qui si attualizza. Nonostante il gesto retrò, Geronima Ferretti, dice l’attrice Barbara Venturato, “è da prendere a modello, perché è una donna che si smarca dai preconcetti, lotta per l’autodeterminazione e per poter dire no”. Altra eroina del #MeToo. Da prendere a modello anche Mameli, spiega invece l’attore, “un modello per noi giovani troppo concentrati sui social e sull’ego. Dobbiamo unirci per nuovi ideali, ci vuole coraggio”, avanti, sulle barricate, al Gianicolo! Però insomma a parte queste cose che vanno sempre dette in questi casi, a parte la solita recitazione mucciniana, col tipico impasto di sussurri e grida, sempre in overacting, la fiction è visivamente molto elegante e ce la mette davvero tutta per finire in quota “quality tv”(ma troppo ralenti, troppa enfasi, troppa fotografia “pittorica”, come un “Barry Lyndon” di Rai Fiction). Qualche bella scena di regia: la prima esecuzione del “Canto degli italiani”, in “mute”, solo i volti in estasi dei patrioti, mentre cantano in un’osteria e tutti scattano in piedi, come con la Marsigliese in “Casablanca”. Del resto, “Mameli” è realizzata da Pepito (appalto esterno), la casa di produzione di Agostino Saccà, molto attiva nel cinema, con film di Gianni Amelio e dei Fratelli d’Innocenzo. E’ comprensibile voglia darsi un tono. Come già per “La storia” di Elsa Morante è insomma una fiction che vuole essere cinema. E’ anche molto disinvolta nei confronti del passato, come ormai ogni dramma in costume, dalla Maria Antonietta di Sofia Coppola a “Bridgerton”. Riletture giocose, invenzioni libere, fluide, giovanilistiche. Anche Mameli è giovane e bello, crede in un sogno, lotta con tutto sé stesso per inseguirlo. Potrebbe essere un ballerino di “Amici”.
E per quanto lo si voglia infilare nel pantheon di Giorgia, tra Tolkien e “Il piccolo Principe”, è anche – soprattutto – un Mameli qui agguantato da sinistra, strappato alla destra, ricondotto allo spirito ribelle e puro della gioventù protestataria che si batte per i suoi ideali. Mameli e i suoi fratelli sono “come i ragazzi di oggi”, dicono gli autori della serie, “hanno rapporti burrascosi tra loro, si oppongono al potere ufficiale, si oppongono all’autorità costituita, e cercano una loro via, fatta di parole e canzoni, di scherzi e flashmob, di iniziative provocatorie e interventi sul campo”. Un Mameli che “crede nell’uguaglianza e nella libertà”, purgato degli elementi sacrificali, dei tratti etnico-nazionalisti-identitari della “sublime madre nostra”, proseguendo così l’operazione di democratizzazione avviata da Benigni a Sanremo 2011 con la “lezione sull’inno di Mameli”, oltre il 50 per cento di share, tredici milioni di spettatori, un successo. La scoperta che c’era un patriottismo sereno, accogliente, rassicurante.Da rispolverare in chiave antileghista, separando patriottismo e nazionalismo, come il colesterolo buono da quello cattivo. E in fondo anche questo Califano rifatto in salsa “Romanzo Criminale” prosegue casomai la riappropriazione da sinistra iniziata già anni fa, quando Fulvio Abbate su l’Unità ritrovava nell’autore di “Minuetto” il “germe della storia antica” di Pasolini, e i comunisti italiani sceglievano “Tutto il resto è noia” come slogan della Festa nazionale della cultura (commentò Califano: “Se penso a ‘sti communisti che manco me facevano canta’ alle feste loro e mo se rubbano la canzona mia…”). Un Califfo poeta maledetto, de borgata, popolare. Il Jacques Prévert di Trastevere a lungo emarginato e passato poi anche dai reality, che avrebbe tanto voluto cantare alle Feste dell’Unità ma non lo invitavano mai. Ora finalmente nel pantheon anche lui. Con Alda Merini, Margherita Hack, Guglielmo Marconi, i “prossimamente” di Rai Fiction.
Nel mondo delle fiction storiche esistono solo due paradigmi: l’eroe-martire o personaggio esemplare, e le vittime, gli ultimi, i perseguitati. Dopo la grande sbornia del biopic religioso, dopo il diluvio di santi e beati dei primi anni Duemila, vittime e martiri iniziarono a farsi largo nella rielaborazione del nostro passato. La fiction diventava un momento di autocoscienza nazionale. E’ in quegli anni che si trasforma in un affare anche politico. Contesa, contestata, tirata per la giacchetta da governi e opposizioni. Soprattutto nel caso dei grandi drammoni storici, delle biografie, del racconto del passato e delle vicende nazionali più travagliate. La fiction si fece politicamente incandescente soprattutto durante la gestione Rai del centrodestra, dopo lo sdoganamento del Cav., la svolta di Fiuggi, con l’eterno dibattito sulla Resistenza e i ragazzi di Salò. L’arma più forte del revisionismo storico, secondo alcuni. Anche la Lega voleva la sua parte, con quel tragico “Barbarossa” di Renzo Martinelli, con micidiale cameo di Umberto Rossi.
Sono gli anni delle polemiche per “Perlasca” e il commissario Palatucci in “Senza confini”, eroi buoni ma pur sempre fascisti. Sono gli anni delle diatribe storiche sui militari della brigata Acqui di “Cefalonia”; di Beppe Fiorello “Salvo D’Acquisto”; del clamore e dell’indignazione che accompagnarono “Il cuore nel pozzo”, prima fiction sulle foibe, “la vendetta cinematografica di Berlusconi contro Tito”, come si scrisse all’epoca. Anche se in nessuna delle puntate di pronunciava mai la parola “comunisti”. Poco dopo la messa in onda, il povero Leo Gullotta, protagonista della fiction, fu invitato a un congresso di Rifondazione per leggere le lettere dei partigiani in occasione del 25 aprile. Subito fu subissato di fischi e insulti dai militanti. Provarono a cacciarlo via. Fu però difeso da Bertinotti che prese le distanze, condannò la contestazione e parlò di un “insopportabile grado di intolleranza in questo partito” (sempre attuale, peraltro). Vent’anni dopo, “La caduta del duce” o “La rosa dell’Istria”, altra fiction sulle foibe trasmessa qualche settimana fa, fanno un po’ meno paura (e anche quest’altra sulle foibe precede l’arrivo di Meloni, ma arriva in effetti con un tempismo perfetto).
“La rosa dell’Istria”, dice Maria Pia Ammirati, “non ha nulla di politico perché ripercorre il dramma di una famiglia che si trova senza casa, né paese. In primo piano c’è il mondo degli esuli, tragicamente attuale in questo periodo”. Il mondo di Rai Fiction supera le distinzioni tra destra e sinistra. Si autodetermina. Le sue regole sono quelle del melodramma. Però, ancora una volta, gli attori alle prese con le foibe devono quasi giustificarsi. Andrea Pennacchi, protagonista della fiction, spesso ospite di “Propaganda Live”, attore di teatro, drammaturgo e “uomo di sinistra”, deve precisare che è “sempre stato un simpatizzante dell’Anpi”, e racconta di chi sui social gli scrive “vergogna, mi piacevi, adesso sei l’organo dei fascisti!”.
Ma le linee guida delle polemiche di oggi le dettano più che altro l’odio anticasta e la sensibilità “woke”, o quel che diventa trasferita dai campus americani alle nostre assemblee d’istituto. In tanti su Twitter scrivono che “il vero Mameli oggi è Ghali che si scaglia contro Israele”, oppure che “è morto a vent’anni per un’Italia ridotta più schiava di ieri”, o che “era a libro paga della massoneria anglo-francese”, la start-up di Bilderberg. Si rivendica il ruolo di Michele Novaro, autore della musica del “Canto degli italiani”, messo un po’ in disparte nella fiction, gridando anche qui al complotto. Soprattutto, ci si indigna per il “beauty privilege” di questo Mameli, troppo bello, con troppi capelli, e che non somiglia per niente a quello del Pincio. E’ la storia siamo noi, preso un po’ troppo alla lettera.