televisione
In morte del Grande Fratello
Venticinque anni fa esordiva il format oggi agli sgoccioli. Non basta depurarlo dal trash, e nemmeno rifarsi alle glorie di Taricone e Casalino. Nell’epoca dello scrolling infinito sui social, il voyeurismo non eccita più
“Big Brother”, il format di John de Mol che ha cambiato per sempre la storia della televisione e reso milionario il suo inventore, compie venticinque anni. Un’eternità. Oggi è un pezzo di un altro mondo: senza smartphone, senza social, con le Torri Gemelle ancora in piedi, e sembra più vecchio di “Domenica In”. Poche cose in tv si bruciano presto come i “format rivoluzionari”. Chi ha una certa età ricorda bene i timori, le ansie, le apprensioni, il caos, le denunce, le scomuniche, i richiami all’apocalisse di Scalfari o della Conferenza episcopale che accompagnarono l’arrivo del “Grande Fratello” in Italia (e Giorgio Gori, versione Sant’Agostino, che si difendeva: “Il Grande Fratello non viola l’intimità dei partecipanti, ognuno di noi custodisce un’interiorità profonda in cui nulla e nessuno può entrare, l’osservazione esteriore, le telecamere, non possono scardinare l’intimità della sfera personale”, ma ahimè l’anima se n’era andata da quel dì). Ora invece mi sento ripetere spesso, “ma c’è ancora il Grande Fratello? Ma chi se lo guarda?” (qualche dato: età media 53-55 anni, più al sud che al nord, coi giovani che forse lo recuperano a pezzi sui social, chissà). Questa noiosa “crisi del Grande Fratello” si trascina da molti anni.
I puristi sostengono che di “Grande Fratello” ce n’è solo uno: il primo. Noto come “l’esperimento”. Poi una fiacca imitazione, sempre più stanca, insensata, vuota. Concorrenti che imitavano concorrenti di altre edizioni che facevano il verso ai vip della tv, eccetera. Tutto un repertorio di mosse, discorsi, frasi vuote, pettorali, tatuaggi, piercing, indistinguibili tra un’edizione e l’altra. Come dice Aldo Grasso: “Non si capisce più cosa sia diventato” (“ormai gli inquilini, sofferenti di arsura mentale, non sono più persone ma figure da affresco metatelevisivo, pantografie, immagini proiettate sulle nubi del web”). Finisce la prossima settimana una delle edizioni più estenuanti di sempre. Sei mesi di “Grande Fratello”, con la minaccia a un certo punto di scavallare anche dopo Pasqua. Ascolti in calo, come sempre, ma ora un po’ più in calo del solito. In tanti pensavano infatti sarebbe stata la fine del format. L’addio. L’ultima stagione di sempre. Ce ne sarà invece anche un’altra.
Quello di quest’anno doveva essere un “Gf” sperimentale, come l’ormai mitologica prima edizione del Duemila. Un “Gf” “completamente rinnovato”, recita il claim su Mediaset Infinity, dove rivedersi puntate, highlights, dirette dalla casa full time, se proprio non vi bastano i due appuntamenti serali a settimana. Un “Gf” che avrebbe anzitutto messo in atto, per la prima volta, una vasta e risoluta bonifica del trash, a lungo annunciata e sbandierata con grandi pentimenti e pubbliche abiure da Pier Silvio Berlusconi e Alfonso Signorini. Un “Gf” quindi serio, qualunque cosa volesse significare. Per esempio, no botox, no tatuaggioni, no tette gigantissime, no risse, bestemmie, sputi, e commento pacato in studio di Cesara Buonamici, in tailleur e occhiali. Parola d’ordine: dimenticare Barbara D’Urso. Quindi subito un gran ritorno alle professioni e ai mestieri nel cast: meno freak, più “ggente come noi” (il ciabattino, la cuoca, il macellaio, il bidello che si chiama Giuseppe Garibaldi), sempre per ritrovare qualcosa della vecchia anima, quel tocco neorealistico, autentico, addirittura etnografico del primo “Gf”. Anche qualche vip, certo, ma non troppo vistosi. E che riportassero con la mente a quegli anni lì, gli anni ruggenti della prima reality television. Per esempio, dimenticati “Carramba Boys”, per esempio avanzi di soap: la regina sudamericana Grecia Colmenares, la cattiva di “Vivere”, Beatrice Luzzi, subito messe insieme nel “tugurio” a rammendare. Ma dopo neanche un mese, davanti a un calo allarmante degli ascolti, davanti a una noia strutturale che risucchiava tutto il format, ecco che si correva ai ripari. Si evocava lo spettro di un “ritorno al trash”. Si chiamavano i riservisti di “Temptation Island”, eliminati sull’isola, ripresi nella Casa. Questo “Gf” raitreizzato, pieno di drammi, lutti, dolori, silenzi, commentato con piglio professorale in studio, un “Gf” che toglieva il trash ai suoi spettatori, ma tutto insieme e all’improvviso, non come l’analista che cala a piccole dosi le goccine man mano che il paziente sta meglio, diventava quindi un boomerang. Una piena e compiuta dimostrazione che il “Grande Fratello” si guarda per misurare i confini della nostra abiezione consensuale. Mica per dire “ah però che persone educate, che modi, quanta eleganza, che stile!”. Vogliamo i gladiatori del trash, non esempi virtuosi. E neanche un banalotto “rispecchiamento”. Insomma, il “Gf” senza trash misurava il bisogno di trash dei suoi spettatori affezionati. La loro dipendenza. La loro astinenza. Molti spettatori avranno rimpianto i bei “Gf” di Barbara D’Urso. Le risse, gli insulti sessisti, Luigi Favoloso da CasaPound contro il 25 aprile, le querele di Asia Argento, le denunce del Moige e del “Telefono rosa”, un memorabile assalto di scorregge contro Aída Nízar, vip del trash spagnolo in trasferta da noi. Che tempi! Quest’anno invece si è raschiato il fondo con le litigate per lo spazzolino da denti, la festa a tema Far West, il momento “Ballando”, col tango appassionato di Simona Tagli che forse incrina il suo voto di castità.
Perdersi nelle trame e sottotrame della casa è diventato insostenibile, anche per lo spettatore più tenace (tra le cose da salvare di questa edizione: Giampiero Mughini che molla dopo neanche un mese, saluta tutti, esce, “scusate, devo consegnare un libro per contratto, non posso rinunciare”). Tutte le dinamiche della Casa sono ormai orientate sulle modalità seduttive, il cincischio, mi piaci, non lo so, fammici riflettere, aspetta, stiamo correndo troppo, ecc. Il “Grande Fratello” è diventato un “Temptation Island” d’interni, un “Uomini e donne” versione “Angelo sterminatore”, vampirizzando a più non posso i format di Maria De Filippi. Nei nostri primi ricordi gli inquilini stavano quasi sempre in casa, gruppo di famiglia in un interno. Poi sempre più spa, piscina, prato, giardinetto, sdraio, iniziando anche qui a copiare le “esterne” di Maria. Da anni anche il “Grande Fratello” vive per lo più di “tradimenti”. Grandi classici che diventano meme: Antonella Elia basita, bocca aperta, sguardo pietrificato, mano nella mano con Adriana Volpe, che scopre in diretta il fidanzato paparazzato con la ex. “Se Pietro mi lascia… io lo capisco… sono più vecchia di lui di undici anni”. Adriana Volpe l’abbraccia, la consola. Lei subito ringalluzzisce, “me la paga! Mi fidanzo con Aristide!”. Le corna, si sa, sono l’unico congegno romanzesco che non muore mai. E dopo l’esperimento sociale, dopo lo studio etnografico e comportamentale, dopo la noia, la stanchezza, la dilatazione oltre misura del format, sempre lì si torna. All’alba del primo “Grande Fratello” capitava che Pietro Taricone, “O’ Guerriero”, e Rocco Casalino da Ceglie Messapica, promettente ingegnere gestionale fresco di laurea a Bologna, si perdessero invece in meditazioni e divagazioni notturne, intrecciando dinamiche della casa e vicende politiche: “Caro Rocco, quando da fuori ti urlano ‘a frocio’ ti incavoli perché sospettano di come cammini, poi però a proposito di Andreotti ti basta il sospetto. Ma allora tu ‘ssi frocio!”. Il programma era stato lanciato come una “brillante metafora sociale”, uno specchio puntato sulle “trasformazioni in atto nella società”. In effetti, Rocco Casalino le avrebbe incarnate meglio di tutti. Alla voce “ambizione” della scheda di presentazione dei concorrenti aveva scritto: “Diventare primo ministro o amministratore delegato di una multinazionale”. Nella Casa, il giovane Rocco smentiva qualsiasi ipotesi di omosessualità, trincerandosi dietro un’infanzia difficile, la timidezza, l’odio per un padre violento, poi traslati in biopic editoriale. Una notte si infilò tra le lenzuola di Taricone. Si giustificò immediatamente parlando di un “attacco di nottambulismo” (come quando disse che Padre Pio aveva “il dono dell’ubicazione”).
In un mondo senza smartphone e senza social, l’idea di vedere qualcuno che fa la cacca poteva anche essere eccitante. Sicuramente nuova, elettrizzante. Ma al voyeurismo televisivo, ancora tardo novecentesco, si sostituì presto lo scrolling sul telefono. Nell’epoca di OnlyFans la prima scopata del primo “Grande Fratello”, quella tra Pietro e Cristina, con un separé improvvisato dietro il divano, fa tenerezza come i filmini porno amatoriali della belle époque.
Resta però indiscutibile il fatto che il “Gf” produsse allora metafore a perdita d’occhio davvero perfette per i nostri tempi. Un “Grande Fratello” metafora del tracollo della privacy, della sorveglianza, della “democrazia orizzontale”, degli esperimenti sociali di Gianroberto Casaleggio in Webegg, dei “meet-up” di Beppe Grillo e dell’uno-vale-uno, delle logiche del consenso in un mondo senza intellettuali, della fine della vergogna, dell’ansia tossica da visibilità, della fame di celebrità, e un po’ anche della sinistra e del Pd, con la formidabile parabola di Fabrizio Rondolino: prima alla Direzione nazionale della Fgci, poi all’Unità, poi responsabile della comunicazione di Massimo D’Alema fino a Palazzo Chigi, quindi “consulente speciale” per la prima edizione del “Grande Fratello”, scomodando imbellettamenti intellettuali roboanti, il neorealismo, Visconti, gli attori presi dalla strada. Soprattutto non va dimenticato il grande contributo del “Grande Fratello” all’immaginario immobiliare degli italiani. Il “Gf” che trascinò con sé tutta una nuova filosofia dell’arredamento minimal, tema caldo in un paese di proprietari di case. Il concetto stesso di “casa del Grande Fratello” è del resto tutto italiano.
Nell’originale format olandese si viveva nei container (sono un popolo di campeggiatori, si adattano, i nostri ottennero subito anche il bidet). La casa del “Grande Fratello” la arreda e la progetta sin dalla prima edizione Emanuela Trixie Zitkowsky, figlia del grande scenografo Rai, Tullio Zitkowsky (“Rischiatutto”, “Canzonissima”, ecc…). Si potrebbe scrivere una storia del “Gf” tutta dal punto di vista dell’interior design. La prima “casa” non poteva che essere Ikea. Mobilio posticcio, replicabile, noioso, “minimal”. Non rubava la scena, lasciava in primo piano l’esperimento sociale. “Gf” e Ikea seguono due parabole simili: arredare casa senza soldi, diventare famosi in tv senza uno specifico talento. Due format della globalizzazione: quella della reality television e quella dell’arredamento componibile. Entrambi modulari, entrambi replicabili in tutto il mondo con piccoli aggiustamenti. Si diffondono nello stesso periodo, anche. E forse non è un caso che Ikea celebri i suoi primi venticinque anni in Spagna lanciando un suo reality, “Atrapados en los 90s”, in cui ragazzi nati dopo i Novanta devono sperimentare una serie di restrizioni tra cui, appunto, una casa in un mondo senza mobili Ikea. E così, mentre seguivano le trame annoiate dei reclusi, gli italiani si addestravano anche al nuovo culto dell’“open-space” che di lì a breve avrebbe folleggiato negli annunci immobiliari, trasformando cantine, tuguri e capannoni in “splendidi loft”. Nella prima edizione, Ikea era sinonimo di arredo democratico, orizzontale, come la nuova reality television. Poi arrivarono le personalizzazioni. Via via un design più ricercato, vistoso, colorato. Arrivarono la suite, pacchianissima, o il penitenziale “tugurio”. Dalla terza edizione si passò a una fase più “Luigi XVI” rivisitato in bianco lucido, tipo finale di “2001: Odissea nello spazio”. E poi stoffe di Damasco, tappeti persiani. La casa nel frattempo si allargava. Sempre più metri quadri, sempre più neoclassica e cafona, tipo “Trump Tower”. Il tugurio diventava una miniera con stufa a legno, poi una discarica stile favelas. Poi la fase “condominio da risistemare”, grande anticipazione del “Superbonus” (“Gf” del 2008). Quindi la casa “green”, il trip per la “bioarchitettura”, il rispetto dell’ambiente, mobilio di legno. Con la crisi economica, di nuovo via il lusso, una casa più da studente. Mobili semplici, arredi spogli. Un “Gf” per fuorisede. Da qualche anno, una fase più “Maison du Monde”, l’Ikea per quelli con il Phd. I muri coi finti ciottoli, il verde acido, i motivi optical e déco, il divanone colorato di diciotto metri, la vasca per la cromoterapia. L’arredo non si nasconde più come nei primi “Gf” sperimentali. Ora c’è il tavolone di design del “Gf Vip”, pezzo unico progettato apposta: “Resina cristallina di altissima qualità che si fonde con il legno brasiliano di Carapanauba, effetti tridimensionali, giochi di texture, con la natura in primo piano”. Un “Gf” da Salone del Mobile.
“Nella sua ragione più profonda, la casa è una proiezione dell’Io”, diceva Mario Praz nel suo impareggiabile “Filosofia dell’arredamento”, “l’arredamento non è che una forma indiretta del culto dell’io”. Forse non gli sarebbe dispiaciuto studiare gli italiani, e i loro mutamenti nel gusto nell’epoca della globalizzazione, attraverso venticinque anni di interior design della casa del “Grande Fratello”.
Politicamente corretto e panettone