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Il caso Yara dimostra che in Italia la voglia di manette non è mai passata

Nicola Mirenzi

"Io non so se Massimo Bossetti sia innocente oppure colpevole. So che in Italia si dimentica spesso l’articolo 533 del codice di procedura penale, secondo il quale è meglio avere un colpevole fuori che un innocente in galera". Parla Gianluca Neri, l'ideatore della docuserie Netflix

Ci voleva Netflix per dare una scossa al discorso pubblico sulla giustizia: “Io non so se Massimo Bossetti sia innocente oppure colpevole”, dice Gianluca Neri, ideatore e direttore della docuserie “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio”. “Quello che so è che in Italia si dimentica spesso l’articolo 533 del codice di procedura penale, secondo il quale è meglio avere un colpevole fuori che un innocente in galera. E’ il principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio. E vale anche di fronte ad Hannibal Lecter. Farebbero bene a rileggerselo un po’ tutti i politici, a destra e a sinistra, a partire da quelli che oggi manifestano a Genova a favore della carcerazione preventiva, in questo caso di Giovanni Toti, ma vale per chiunque”. 

Le cinque puntate della serie (realizzata dallo stesso gruppo di lavoro che ha fatto “SanPa, luci e ombre”) raccontano la scomparsa della tredicenne Yara Gambirasio e ciò che ne è seguito. “Un attacco diretto alla malapratica della malagiustizia”, ha scritto ieri Giuliano Ferrara. C’è l’angoscia dei genitori, le ricerche infruttuose, lo smarrimento degli inquirenti, le false piste, il ritrovamento del cadavere dopo tre mesi, il dna, ma anche il can can che intorno al caso è montato sui giornali e le televisioni. “Partecipando alle udienze del processo d’appello, ho avuto fin da subito l’impressione di trovarmi in un circo nel quale ognuno recitava la sua parte, con magistrati e media impegnati a costruire l’immagine del mostro”. 

E’ sconcertante scoprire che le immagini del furgone di Bossetti, trasmesse a reti unificate, erano state montate dalla procura appositamente per la stampa, al fine di mostrare che l’uomo girava ossessivamente intorno alla palestra in cui per l’ultima volta venne vista la bambina. “Peccato che fossero false, cioè ottenute tagliando e cucendo le riprese di diverse telecamere”. Colpi di scena, figli illegittimi, bugie, relazioni extraconiugali, incredibili errori investigativi, ufficiali che tentato di estorcere confessioni: già di per sé l’inchiesta e il processo del caso Yara sono pieni di fatti notevoli, ma scavando sotto la cronaca ci si accorge che c’è anche una questione personale. “Quando cominciai a studiare la vicenda, ero appena uscito da un caso giudiziario”. Neri era accusato di aver rubato e tentato di diffondere delle foto private di vip. “Mi vidi sbattuto in prima pagina. Additato come un delinquente. Persi il lavoro di autore e conduttore a Radio 2. Ci vollero sette anni per uscirne completamente assolto”.

Nasce qui il desiderio di immergersi nella cronaca nera con la fiammella del ragionevole dubbio, consapevole che la cultura del sospetto è una questione più generale, politica. “Quando Bossetti venne arrestato, il clima era così esagitato che l’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, scrisse che era stato ‘preso l’assassinio di Yara’ ancor prima che arrivasse in caserma per l’identificazione”. Ma Neri pensa che una più grossa responsabilità – nel quadro complessivo – l’abbia l’altra parte politica. “Io sono un uomo di sinistra. Eppure credo che, con la caccia giudiziaria contro Silvio Berlusconi, la sinistra abbia consegnato alle procure le chiavi del paese, aprendo uno spazio enorme all’arbitrio dei magistrati, e alimentando il desiderio di manette del paese”. 

L’apice della serie è l’intervista a Bossetti, condannato in primo, secondo e terzo grado, dichiarandosi sempre innocente. “Appena si è seduto davanti alla telecamera, nel carcere di Bollate, è stato travolto da un attacco di panico. Tremava. Era come uno scolaro che per dieci anni si era preparato a un esame e arrivato davanti alla commissione non riusciva più ad aprire bocca”. Per calmarlo ci sono volute diverse ore e due giorni di riprese. “Incontrandolo ho pensato che nessuno ci autorizza a fare dei carcerati quello che vogliamo. Anche quando sono stati condannati per delitti atroci”. L’obiezione è che se fare un processo in tv è deplorevole, altrettanto dovrebbe esserlo rifarlo su Netflix. “Certo. Ma non è quello che volevamo fare”. Allora cosa volevate fare? “Raccontare un paese che si è dato delle regole per affrontare civilmente la giustizia e poi, quando si trova di fronte a un caso concreto, non ci pensa due volte a mettersele sotto i piedi”.

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