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Il caso Boccia-Sangiuliano e il crollo dell'invincibile armata televisiva

Andrea Minuz

Gli ultimi giorni di Pompei: talk-show, retequattristi e giornali sotto scacco di Instagram. Le Olgettine agognavano la tv, Maria Rosaria Boccia la rifugge. Il ritmo lo danno i social. Così, dopo Mark Caltagirone, è cambiata la comunicazione dello scandalo

Diciamoci la verità, era dai tempi di Mark Caltagirone che non ci divertivamo così. Lì tutto un mondo di oscure agenzie, manipolazioni mentali, profili fake, un mammozzone di influencer-spie, ex-tronisti, bambini finti, ricatti, invidie, tatuaggi dell’amore e sexting con mariti e fidanzati fantasma, come in un vecchio Harmony remixato da David Lynch. Però rispetto alla saga di Pompei, Mark Caltagirone era ancora epica televisiva. Costruito secondo tempi e modi dettati dalla cara vecchia tv, scandito dal palinsesto, officiato da Barbara D’Urso. Tutto quel materiale fantasy si organizzava pur sempre in un feuilleton ancora lineare, con Pamela Prati ingannata e ferita che aggiornava in salsa trash le solite paturnie del bovarismo. E ripensandoci ora, anche nella sua dilatazione mostruosa, che se non ricordo male andò avanti per un paio di mesi, quella storia appartiene già a un altro mondo. Con Boccia ecco quindi un salto di specie. Non è gossip, non è politica, ma una nuova rimescolanza dei due generi narrativi in un ordine superiore che volendo se ne infischia anche della televisione. Un digital hypertext fatto in casa, gestito da lei Maria Rosaria Boccia in prima persona, squadernando a cascata un labirinto italianissimo e postmoderno di tag, post, meme, pellicole-privacy, video in Pov, file audio, chat, gruppi WhatsApp, phishing, caption su Instagram, messaggi alla nazione, fotocopie di ricevute evidenziate col pennarello, mailing list ministeriali, tranche de vie della Pa, “il collega al momento non è in stanza, può dire a me”, e naturalmente molte false piste e plot-twist anche imprevedibili – lei già impupazzata nei camerini di Bianca Berlinguer che all’ultimo non entra in scena, non se la sente, non ci sono le condizioni, e le condizioni, si capisce, oramai le detta Boccia. Anche la gioiosa macchina del retequattrismo s’inceppa. “In trentaquattro anni di carriera non mi era mai successo”, dice BB commentando la sorprendente buca data all’ultimo minuto.
 

Qualcosa in effetti è cambiato. Perché se nei contenuti politici il caso era di rara fuffa (potrebbe aver spifferato i segreti del G7 della cultura! Ha viaggiato coi soldi nostri!) dal punto di vista della comunicazione e del racconto televisivo del melonismo è invece un piccolo trattato da manuale. All’alba dello scandalone, quando ancora Sangiuliano non voleva saperne di dimettersi, Del Debbio esordiva col botto giocandosi come si ricorderà Giorgia Meloni in prime time. Era una lunga intervista a braccio dove tra grandi salamelecchi e apprezzamenti di pettinature (“ho affittato un vestito per intervistarla”, “è splendido Paolo, le dona molto”…) si ribadiva piena e assoluta fiducia al ministro: “Non un euro degli italiani, niente soldi pubblici, niente accesso a documenti riservati”. Senonché mentre Meloni parlava, Boccia smentiva. Arrivavano le stories in diretta con gli screenshot dei suddetti documenti riservati, e lo scarto tra il racconto della tv e quello di Instagram appariva davvero vistoso, spostando tutta l’attenzione sulla consigliera umiliata e tradita forse pure a spese nostre. La premier in primetime faceva un misero 5 per cento. Pochino per Del Debbio. Pochissimo per Giorgia. E così dopo le dimissioni del ministro, anche Del Debbio si innervosiva: “Questa storia mi ha rotto i coglioni in modo totale”, spiegava aprendo la trasmissione tra i “bravoooo!” ululati da Mario Giordano felice come un bambino, “da domani non ce ne occupiamo più”. Ma più che il solito mantra televisivo, “basta gossip, c’è ben altro di cui occuparsi” (e vorrei vedere), si percepiva soprattutto la tensione e la suscettibilità dell’Armada Invencible del melonismo qui messa alle corde da una “signora di Pompei”, usato come compromesso tra la battuta di Paolo Mieli e il “dottoressa” preteso da Boccia.
 

E va bene domandarsi come mai si entra con tanta facilità a Palazzo Chigi, ma con la stessa facilità la fino a ieri sconosciuta Boccia teneva sotto scacco i guardiani della rivoluzione meloniana. Come in una battaglia navale con corazzate, cacciatorpedinieri, portaerei schierate e paralizzate da un pedalò. E più i retequattristi alzavano il tiro, facevano quadrato, si passavano la palla tra loro, più quella non mollava, seguiva, duellava a distanza, si taggava anche a Cernobbio, con la premier che tirava fuori la storia dei “modelli di donna”, il mio, il tuo, eccetera. Ed è quindi anche “sintomatico” che proprio nella Rete 4 divenuta ormai fortino e comfort-zone del melonismo, Boccia prenda e se ne vada via all’ultimo minuto, aprendo anche a ulteriori complotti su attriti tra Mediaset e il governo, come all’epoca dei fuorionda-fuoriluogo di Giambruno.  E qui davvero non è facile capire se è Boccia che ci sa fare, o se ormai, nell’epoca della “disintermediation”, è franato proprio tutto e davvero chiunque, con la giusta tigna (che certo a lei non manca), può mandare in tilt il fatidico “sistema dell’informazione”. Nel caso Boccia la forza dei social è stata in effetti decisiva. E non per nutrire, alimentare, mandare avanti la caciara televisiva, come ancora con il fantasmatico Caltagirone, ma per smentirla, sminuirla e all’occorrenza anche percularla. Anche per questo le analisi comparate con gli scandali berlusconiani, come se fosse sempre la solita storia di potere e prevaricazione maschile e donna-amante illusa, non convincono. Anche perché le D’Addario, le Began, le Olgettine cercavano loro i giornalisti o le procure. Offrivano video, soffiate, audio, diari, agognavano la tv, convinte di trarne vantaggio e non immaginando invece che passato il giro di giostra, strapazzate da tutti i talk-show, sarebbero tornate da dove venivano. Le olgettine erano ancora “contenuto televisivo”. Boccia no. E pare aver imparato la lezione. Giornali e talk-show non sono la sua priorità. Il Sangiuliano-gate è  lo scandalo sessuale o “rapporto affettivo” (come dice il ministro), nell’epoca dei content creator: io Boccia sono il contenuto di me stessa. E come dice Bill Gates, “content is king”. Si può andare anche in tv con Telese che gongola, “mamma mia trema la Repubblica”, si può concedere un’intervista a La Stampa, ma il grosso della partita non si gioca più lì. E così la vecchia tv si offende: Vespa si sfila, Del Debbio s’incazza, Berlinguer gliela giura. All Eyes on Boccia.
 

Al fondo dell’Agenda Boccia si intravede insomma anche un nuovo livello di scontro tra la Instagram Society e i vecchi media, giornali, tv, talk-show, che grattano i fondi di barile dello share mentre di là, sul Boccia profilo, crescono follower a grappoli. E se Vespa, anche con valide ragioni, può dire “no all’intervista a Boccia, non voglio essere un suo strumento”, forse vale anche l’inverso per la mancata consigliera di Pompei. E anche l’intervista che voleva essere riparatrice e fugare dubbi e nubi sul governo, col povero Sangiuliano mandato al massacro al Tg1, quando l’attenzione del paese per Pompei era massima, racimolava solo un 18,6 per cento di share. Come una replica di Montalbano, e non delle migliori. Molto meno di una puntata qualsiasi di “Uomini e donne”. E dire che in quella notte della Repubblica Sangiuliano faceva in fondo la cosa più nazionalpopolare del suo mandato, che voleva essere appunto “gramsciano”, regalandoci un pezzo di televisione che resterà memorabile anche se parecchio triste, dove oltre a rilanciare in senso molto letterale l’idea di “privatizzare la Rai”, usandola qui come confessionale, frullava finalmente insieme Croce, Prezzolini, Maria De Filippi e “Temptation Island”. Ma niente. Il pubblico non coglieva.
 

Del resto, le scuse social, con lacrima o meno (ma in genere con lacrima) sono uno dei generi più complicati da manovrare. Sulle scuse pubbliche cadono tutti: da Dolce & Gabbana accusati di razzismo che chiedevano perdono a tutti i cinesi del mondo in un video in cui pareva li stessero per fucilare in diretta, a Chiara Ferragni struccata e piagnucolante che devolve milioni di euro agli ospedali. Dopo vent’anni di grillismo e pulsioni anticasta, nella politica bisogna poi ridursi a mostrare prove, scontrini, ricevute. E quelle mail stampate e sbandierate dal ministro sotto l’occhio severo dell’intervistatore-direttore del Tg1 che sembrava un preside cattivissimo, quelle cifre evidenziate col pennarello che volevano ribadire autorevolezza e ristabilire ruoli e gerarchie, diventavano invece una resa senza condizioni ai più moderni e volatili post-video-audio dell’account Instagram di Boccia. Ipotesi cospirative e “regie occulte” intanto non si contano più: lei e lui al centro di un complotto del cinema italiano ordito da Nanni Moretti in maniche di camicia da Monteverde Vecchio; il “dossier Arianna” che forse era un false-flag per depistare il vero “dossier Genny”; Lollobrigida che non ce la racconta giusta; allusioni di possibili revenge-porn, le fatidiche “persone che hanno avuto delle agevolazioni e che ricattano il ministro”; un’immancabile gravidanza come nel più classico dei romanzoni; il reducismo angosciante dell’ex-marito scappato in Molise che mette in guardia il ministro, “non lo invidio, non ha ancora visto nulla”; Boccia padre intervistato a Pompei come un pentito; un’oscura compravendita di falsi profili Instagram legati a Stefano Bandecchi, forse gestiti in un laboratorio informatico dell’università telematica UniCusano; il filone Beatrice Venezi che ormai entra sempre in gioco con tutto; la possibilità che ci siano “altre donne”, a pioggia, a cascata, tutte cadute ai piedi del ministro, mentre Giorgia manda via la polizia da Palazzo Chigi, forse perché alcuni poliziotti indossavano minacciosi Ray-Ban, va un po’ a capire.
 

Lo scorso anno, quegli stessi Ray-Ban Stories sfoggiati da Boccia nei corridoi di Palazzo Chigi erano in caduta libera, un flop, un passo falso di Meta. Secondo il “Wall Street Journal” il 90 per cento degli acquirenti non li utilizzava più. Si erano già stufati. Ora le vendite sono in crescita. Maria Rosaria Boccia meglio di Tom Cruise, che a metà anni Ottanta con “Top Gun” rilanciò i Ray-Ban Aviator 3025 e salvò il marchio dal fallimento. Boccia ridesta anche l’incubo hollywoodiano di ogni fedifrago: una Glenn Close amante tradita con Ray-Ban Stories e smartphone sarebbe oggi imbattibile. Subito un’“Attrazione ministeriale” con Sangiuliano al posto di Michael Douglas.
 

Ma questa è anche una storia in cui – come sempre – tutti sono “vittime”. Sangiuliano vittima del cinema italiano. Meloni vittima di macchinazione. Boccia vittima del “capriccio di una donna” e anche un po’ del patriarcato, anche se il campo di battaglia è tutto per Giorgia, Arianna e Maria Rosaria, e l’unico uomo finisce in lacrime al Tg1. Di “endemico” qui non c’è il patriarcato ma l’agognato posto fisso. L’investitura di consulente “a titolo gratuito” come primo passo versa la meta. Me la meritavo! Quella nomina era mia! E’ saltato tutto per il “capriccio di una donna”! E questo “capriccio di una donna” pare davvero di sentirlo in bocca a Vittorio De Sica vestito da avvocato che svolazza in qualche tribunale dei nostri film neorealisti, l’aula ammaliata dalle sue prodezze lessicali, nell’ubriacante arringa finale. In un bel pezzo su Rivista Studio Francesco Gerardi ha scritto che quello di Maria Rosaria Boccia è un “metodo multimediale non così facile da apprezzare per il grande pubblico di un paese ancora tanto analogico”, che la sua distanza tecnologica e “anche linguistica” da quell’apparato ministeriale a cui mirava non dovrebbe colmarla, rimarcando casomai la sua differenza, il nuovo e il vecchio, il “digital divide”.
 

Ma anche Maria Rosaria Boccia è un eterno fantasma italiano. Tolti gli occhiali smart, grattata la patina social, le caption, i meme, inabissandosi nel suo Instagram “a spasso con Genny”, affiora il grande inconscio nazionale, il solito paese arcaico e indistruttibile: i Faraglioni, Claudio Baglioni, foto con vip imbarazzati, sindaci, assessori, backstage di Sanremo, compleanni con gigantografie di Boccia e feste, partite del Napoli, matrimoni, spritz, presentazioni di libri, défilé di provincia taggando tutti i brand del mondo, autoproclamandosi di volta in volta fashion ambassador, food influencer, docente di chirurgia estetica “che non ha mai insegnato”. C’è l’ossessione notarile e italianissima per la laurea, il titolo, il “dottoressa”. C’è la prosa immortale da paese del liceo classico che vanifica e ingolfa la fulminante rapidità dei meme, “è mio diritto tutelare la verità della mia dignità e onorabilità, macchiate dalle offese”; “intendo provare che la mia virtù è stata brutalmente offesa in mondovisione e che il ruolo di consigliera del ministro, che ho svolto, mi è stato tolto ingiustamente” ma con sferzate a volte anche pasoliniane, la postura che sempre si assume quando si deve svelare la Verità  e quindi ecco “il Palazzo”, “il Potere”, la “strategia cinica che tiene in ostaggio la cultura italiana”, mescolati a “per amore della democrazia e della Repubblica, devo difendere con fermezza”. C’è Italia ogni volta che leggiamo “faceva ritorno presso la propria abitazione” al posto di “tornava a casa”. E anche quella di Maria Rosaria Boccia, con tutta la sua tumultuosa “convergence culture”, è pur sempre una grande storia italiana.