Premi televisivi
Il labirinto di Emmy 2024 tra categorie e sottocategorie
Sfide splatter tra indigenti, combattimenti in costume, premi a chef disperati e storie di stalker: agli Oscar del piccolo schermo trionfano i racconti più eterogenei, in un miscuglio di categorie più complesse che utili
Gli Emmy 2024, gli Oscar della tv, come ancora sentiamo dire: cerimonia la notte tra domenica e lunedì, per noi che viviamo lontani da Hollywood – hanno preso la via dell’oriente. Non la Corea, come tendiamo a pensare in materia di nuova serialità che in questi anni ci ha fatto conoscere, oltre al K-pop, serie a presa rapida come “Squid Game”. Pochi episodi, e abbiamo sperimentato cosa vuol dire “soft power”: Europa e Stati Uniti conquistati con un’idea geniale sostenuta da una sceneggiatura all’altezza, con uno sguardo ai miserabili e uno sguardo di disprezzo per ricchi che se ne servono come pedine in un gioco all’ultimo sangue. Tanti hanno solo la loro vita da perdere; il fortunato vincitore incasserà un mucchio di miliardi. In fondo, un ben congegnato schema Ponzi: i pochi soldi del biglietto vanno nel montepremi.
Dal Giappone – inteso come cultura e attori, la produzione è americana perché “lo fanno meglio” – a portarsi via il premio per la migliore mini-serie è arrivata “Shogun”. La trama è tratta dal romanzo di James Clavell (parte di una saga asiatica da 15 milioni di lettori nel mondo, già all’origine di una serie tv anni 80 con Toshiro Mifune). Siamo nel 1600, una nave carica d’armi arriva malconcia sulle coste del Giappone. Mentre infuria la guerra tra due signori feudali, entrambi decisi a conquistare il titolo di Shogun. Combattimenti in antichi costumi, con la forza della storia vera, e senza quei fastidiosi hobbit, elfi, e altre creature fantastiche che ormai sappiamo dove trovare, ma non appassionano granché.
Gli Emmy distinguono tra serie drammatiche e comiche – giusto, lo dovrebbero fare anche per i film candidati agli Oscar: i professionisti dovrebbero sapere meglio di noi che far piangere è molto più facile che far ridere. Consideriamo una promozione il fatto che “The Bear” abbia vinto tra le serie comiche – ma vi pare di vedere qualcosa di spassoso nella vita dei grandi chef? Anni di devozione alla cucina, la più capricciosa tra le amanti? Roba da suicidio, il primo fu François Vatel, per un ritardo nella consegna del pesce ordinato per allietare una cena di gala alla corte di Luigi XIV.
Il delizioso Jeremy Allen White, tenero e cocciuto, vince come attore protagonista in “The Bear”. Mentre come attrice protagonista in una serie comica ha vince Jean Smart per “Hacks”. Le serie proseguono a oltranza, forse troppo. Una delle poche eccezioni è la magnifica “Slow Horses”: Gary Oldman era nominato, ma come attore non ce l’ha fatta. Strepitoso, ma con una sceneggiatura così raffinata l’attore ha un compito meno arduo.
Categorie, sottocategorie, miniserie e serie antologiche: il distinguo è ormai più complicato che utile. La serie rivelazione di quest’anno, “Baby Reindeer”, ha fatto subito scattare il passaparola – e ha scatenato anche gli attaccabrighe in materia di privacy nel caso di storie vere, immagine della donna, consensi, comico e tragico che nella vita si intrecciano. “Piccola renna”, il nomignolo affettuoso con cui la stalker chiama la sua vittima, quando ancora la faccenda già ambigua non prende una svolta tragica – è una storia vera, vissuta dallo showrunner Richard Gadd che per la prima volta l’ha messa in scena in un spettacolo off off a Edimburgo. Se volete scrivere una storia vera, un consiglio: negate tutto.
La fanciulla al bancone del bar – tutti gli aspiranti attori fanno i baristi o i camerieri, a Edimburgo o a Los Angeles – ha l’aria sperduta, neppure il soldi per comprarsi una Coca-Cola. Il barista gliela offre. Basta la piccola gentilezza per trovarsi invischiato. Lei lo segue dappertutto, con intenzioni non proprio pacifiche.
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