tra trash e nostalgia
La tv si parla addosso e fa sparire gli spettatori. Solo con gli ultrasessantenni si tira avanti
Conduttori che intervistano conduttori, amarcord infiniti sulle stesse trasmissioni, talk pomeridiani fatti con lo stampino. Una metatelevisione fatta per addetti ai lavori, e sempre meno per gli spettatori che nel frattempo spariscono
Con il palinsesto a pieno regime la tv torna a dare il meglio di sé. Sprazzi di trash al “Grande Fratello”: il water s’intasa, la cacca resta a galla, parte la girandola di accuse e sospetti tra inquilini, “io non pulisco”, “io non so’ stato”, “qui ce poi magna’ da quant’è pulito”, replica a testa alta Jessica Morlacchi, prima indiziata del fattaccio. Limpida metafora della tv che “si fa ma non si guarda”, la cacca scuote dal torpore il format. Nella casa c’è anche Tommaso, single, “ragazzo d’altri tempi”, come recita la scheda, e nella vita idraulico. Potrebbe essere una macchinazione degli autori per metterlo alla prova e dare verve al programma. Potrebbe essere un problema strutturale del “nuovissimo villaggio” dove si fa il “GF”. Quest’anno per la prima volta non più a Cinecittà, ma nel “parco di Veio”, nella wilderness di Roma Nord, fuori dal Gra, tra boschi, foreste, ruscelli, resti di città etrusche, in un reticolo idrografico più impervio. Bisognerà capire se le fognature reggono. Proclamata con grande enfasi da Pier Silvio lo scorso anno, la “bonifica del trash” esce dalla porta e rientra dal cesso di questo “GF “all’insegna della biodiversità. Chi vorrà andare fuori la Casa con megafoni e striscioni e messaggi per i concorrenti, come da consolidata tradizione del programma, dovrà vedersela coi cinghiali.
A “Pomeriggio 5”, invece, un sottopancia da “Minority Report”. “Ultim’ora: uccide la madre e confessa davanti alle nostre telecamere”. L’omicida è stordito, braccato, incalzato dalle telecamere sotto casa. Lo cercano coi droni, lo trovano gli inviati di Myrta Merlino. Farfuglia, piange, è stordito, spiega che sì, l’ha uccisa lui. “Se vuoi chiamiamo i carabinieri”, suggerisce l’inviato. Potrebbe essere una buona idea. “Notizia data con sobrietà” dice la conduttrice che comandava le operazioni in studio. Chissà come se la immagina “scomposta e inappropriata”.
Ci si perdonerà se mettiamo insieme il watergate al “GF” e l’omicida reo-confesso a uso di telecamera, ma danno l’idea dei rantoli di una tv decrepita, costretta a rimestare nella cacca o a giocarsi il delitto in diretta per ricordarci di esistere. Il primo “Tapiro d’oro” della stagione, con occhiali e cicatrici, va intanto a Maria Rosaria Boccia, contentissima naturalmente di riceverlo, sfoggiando per l’occasione unghie acuminate e minacciose, le stesse con cui pare abbia sfregiato in un impeto d’ira la testa del povero Sangiuliano. Un Tapiro meritato. E sa anche un po’ di vendetta della vecchia tv generalista, scavalcata dall’Instagram della mancata consigliera nella gaglioffa e squinternata costruzione dell’affaire Pompei.
“Se vuoi capire la televisione guardala di domenica”, mi diceva un vecchio giornalista con rubrica ben retribuita su un quotidiano locale, quando i giornali vendevano un milione di copie e la tv faceva numeri oggi impensabili. Non che in televisione ci sia granché da capire, ma il “daytime” della domenica, uguale a sé stesso da trent’anni, è sempre illuminante. E’ lì che si misura l’indistruttibilità di una tv spavaldamente vuota di idee, chiamata a traghettare lo spettatore dai postumi del pranzo all’horror vacui della sera. Guardare la tv di domenica è la punizione di ogni critico televisivo. Un annientamento della volontà. Lo scivolamento nel nirvana catodico.
La domenica in televisione tutti si celebrano, si premiano, si abbracciano, si baciano, si “mettono a nudo”, si parlano addosso, si confessano in interviste confidenziali o strappalacrime, tra strizzatine d’occhio, sottintesi, complicità. “Da quant’è che non ci vediamo io e te?”, “Ti trovo bene!”, “quante ne abbiamo fatte!” dice a tutti i suoi ospiti-amici Mara Venier, the “Queen of all Domenica In”, la nostra Oprah Winfrey col canone in bolletta, che ormai potrebbe entrare in studio anche in ciabatte, tanto non se ne accorgerebbe nessuno. Programma casalingo, in un senso molto letterale, alla sedicesima edizione condotta da Mara Venier “Domenica In” esplora nuove possibilità e traiettorie dell’autoreferenzialità televisiva, sempre agitando lei lo spettro dell’“ultima edizione”, “basta”, “ho chiuso”, “dopo questa vado via ho altri progetti”, come Putin con l’atomica. “Domenica In” è una festa di metatelevisione svogliata. E proprio come il “Grande Fratello” – un programma che potrebbe andare avanti da solo, senza autori, senza Signorini in studio, senza pubblico a casa – anche “Domenica In” si fa perché si deve fare. La “scenografia completamente rinnovata” di quest’anno è ricalcata su una delle tante “Domenica In” degli anni Ottanta disegnate da Boncompagni: balconata bianca, fondale azzurro, finestrone romano e skyline con Campidoglio e Palazzo Venezia, che potrebbe anche essere la “vista mozzafiato” dal terrazzo di casa Venier, abitando lei proprio da quelle parti. C’è anche la rentrée del “tabellone” per giocare da casa. Un meccanismo un po’ contorto che ha già creato malumori. Mancano solo il telefono fisso, l’urna coi fagioli e la schedina Totip. Nelle “Domenica In” che celebrano “Domenica In”, Mara Venier si trasforma nel repertorio di Mara Venier. E’ la techetechizzazione “live” del conduttore. Le interviste diventano l’occasione per mandare in onda pezzi di qualche vecchia “Domenica In” naturalmente con Mara Venier, in un micidiale effetto mise-en-abyme, con noi che guardiamo Mara Venier che guarda Mara Venier. Come nelle vecchie serate a casa di zii e cugini a immalinconirsi davanti a diapositive, filmini, foto e video delle vacanze degli stessi zii e cugini, però con la strana sensazione qui di non essere stati neanche invitati. Sperimentando nuove varianti del voyeurismo televisivo. Sentendosi di troppo, imbucati a casa di Mara Venier. L’intervista come maratona di ricordi autoriferiti è ormai un classico della sua conduzione.
Lo scorso anno, alla prima puntata, Mara Venier intervistava Sabrina Ferilli. Baci, abbracci, album di famiglia, ricordi e momenti intimi. A un certo punto l’intervista era risucchiata dall’effetto repertorio. Ecco Mara Venier e Sabrina Ferilli che guardano in split-screen un’intervista di Mara Venier a Sabrina Ferilli in una qualche “Domenica In” del passato, mentre lo spettatore a casa confronta zigomi, rughe, interventini, occhiaie, “ah guarda com’era giovane”, “ah come si è mantenuta bene”. Domenica scorsa, intervista al povero Stefano Tacconi. Quaranta minuti estenuanti sulla sua ischemia cerebrale, et voilà: Tacconi e Venier di repertorio, spensierati e felici in una vecchia “Domenica In”. Those were the days. Naturalmente la metatelevisione non è una novità, ma vezzo e cifra stilistica della tv anni Ottanta, che all’improvviso si scopriva più postmoderna e autoreferenziale del cinema, della letteratura, dell’arte. Da Umberto Eco a David Foster Wallace l’autoreferenzialità della tv è almeno da quarant’anni oggetto di indagini e speculazioni teoriche. “Ciò che spiega l’inutilità della maggior parte della critica televisiva scritta”, diceva Foster Wallace in un saggetto illuminante e ormai classico (“E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction”), “è il fatto che la televisione è diventata immune dalle accuse di essere priva di qualsiasi nesso sensato con il mondo esterno”. Dal 1990, l’anno in cui scrive Wallace, la tv è cambiata parecchio e reality come il “GF” nascono già “privi di qualsiasi nesso sensato con il mondo esterno”.
La metatelevisione ormai si è radicalizzata e allo stesso tempo dispersa. Non ci si fa più neanche caso. Ma la posta in gioco sembra diventata più alta. Non ha più a che fare con una fase euforica e propulsiva del mezzo, come trent’anni fa. Si mescola invece con la nostalgia e le stampelle del repertorio. Scaturisce dalla sensazione che la tv abbia più passato alle spalle che futuro davanti. Il dato generale da osservare, infatti, non è il micro su-e-giù dello share, quel rovistare nelle briciole di molti programmi, ma la diminuzione complessiva dell’audience. Una metatelevisione fatta per addetti ai lavori, e sempre meno per gli spettatori che nel frattempo spariscono (ma con la fortuna italiana che gli ultrasessantenni sono il vero “paese reale” e quindi si tira ancora avanti un po’).
Non si capisce dove inizino e finiscano la pigrizia degli autori, la mancanza di idee, l’ego dei conduttori che usano i format per celebrare sé stessi, ma ormai parecchia televisione si fa tutta così. Faccio zapping, vado su “Verissimo”, l’alternativa Mediaset a “Domenica In”. C’è Silvia Toffanin che intervista i conduttori di “Tu si que vales”. D’accordo, bisogna fare il lancio promozionale del programma. Ma a furia di lanciare programmi della stessa rete, a furia di trafficare e rimescolare ospiti e conduttori che si scambiano di posto (Barbara D’Urso a “Ballando con le stelle”, Mario Giordano da Berlinguer, Alfonso Signorini da Myrta Merlino, ecc…) al povero spettatore sembra di essere intrappolato nella “casa degli specchi” del Luna Park. Il pubblico di “Verissimo” è diverso naturalmente da quello di “Domenica In”. Con la palpebra meno calata, meno annichilito dalla digestione del pranzo, con più smania di news e gossip di prima mano. Quindi anche meno repertorio in trasmissione, ma comunque grande spazio all’autoreferenzialità senza tracce di ironia, sciorinando a getto continuo matrimoni della galassia Mediaset scaturiti dalla factory di Maria De Filippi, per esempio “Tony & Jenny”, che sembra un cartone animato ma è invece la coppia più amata di “Temptation Island”, “in esclusiva a ‘Verissimo’ per un racconto a cuore aperto”. Il rotocalcone di Toffanin, che dura oltre tre ore come “Domenica In”, è una versione presentabile, educata della D’Urso television. Per intenderci, non c’è l’intervista all’Uomo Gatto, il Ken umano, la donna con sei tette. E’ un programma vuoto, come “Domenica In”, ma con verniciatura frizzante e colorata. L’estetica di “Domenica In” è quella del realismo ministeriale, stanzoni vuoti, macchinette del caffè nei corridoi (rotte), quell’atmosfera pigra da uffici pubblici, sale d’attesa col numeretto, anziani che fissano il pavimento (e con Mara Venier, non a caso, testimonial perfetta di una nota pubblicità). A queste tonalità da pennica stravaccati sul divano, “Verissimo” oppone una macchina spettacolare più muscolare, state-of-mind neon-viola-blu elettrico, i colori della televisione. Tutto è più ritmato, tonico, col muscoletto in vista della silhouette scattante di Toffanin. Non c’è quel “buttarla in caciara” tutto romano e vialemazziniano, ma l’ansia da prestazione atletica tipica delle soldatesse di Cologno. Se Mara Venier ha nostalgia di sé stessa, Silvia Toffanin insegue l’attualità. Ovviamente un’attualità che inizia e finisce dentro l’universo espanso di Mediaset, col suo stardom autarchico, confezionato per un pubblico soprattutto femminile, 25-50enni, a dieta, col tatuaggetto, un filo di botox, non intercambiabili con le anziane correntiste di “Domenica In”. Ma l’effetto specchio, la tv che celebra la tv in un rito sempre più stanco, vale però per entrambe le domeniche.
Se è vero, come diceva Flaubert, che “scrivere è riscrivere”, vedere la televisione è ormai incontrare vecchi pezzi di televisione, conduttori televisivi che intervistano conduttori televisivi o mash-up e remix, come il ciclo “Amici-Verissimo” con Maria De Filippi e Silvia Toffanin, un Frankenstein autocelebrativo del gossip televisivo, in arrivo a breve. Si salvano i grandi eventi: la copertura in diretta di un attentato, le Olimpiadi, Sanremo, che ormai tra attesa e postumi nutre quasi tutto l’anno televisivo della Rai.
Del resto, novità e piccoli smottamenti in televisione sono sempre rischiosi. Il mondo e il business delle repliche offre, a cominciare da Montalbano, lezioni esemplari. E il caso Amadeus, per ora a picco sul Nove, ci ricorda che quando un format va bene funziona in automatico. Più o meno con qualsiasi conduttore ci si metta dentro. A differenza di Fazio, che contava e conta su un pubblico feltrinellizzato, e cioè quel vasto segmento midcult di “ceto medio riflessivo” che si vanta di non vedere la tv a parte “Che tempo che fa” e poco altro, e che ora si sente ancora più cool per il fatto di vederlo sul Nove, il pubblico di Amadeus era proprio il pubblico dei “Soliti ignoti”. Soprattutto anziani, incollati alla tv, affezionati alla Rai, col telecomando scivolato sotto il cuscino del divano, e che con grande difficoltà cambiano canale. Non schiodano. Restano lì aspettando che arrivi qualcun altro a mandare avanti il programma. E se a presentarlo ci mettono un ologramma di Corrado o Mike Bongiorno non è detto che si accorgano del trucco.
Politicamente corretto e panettone