L'analisi

Lo streaming on demand della Rai passa da Amazon, ma avrà vita dura

Marco Gambaro

Il nuovo servizio è venduto su Amazon Prime a 7 euro al mese e include 150 film prevalentemente italiani di cui la Rai ha i diritti. Si tratta della prima incursione della televisione pubblica nel mare periglioso delle piattaforme di streaming e possiamo già immaginare che non andrà benissimo

Nei giorni scorsi ha debuttato un canale Rai on demand venduto su Amazon Prime a 7 euro al mese. Per ora include 150 film prevalentemente italiani di cui la Rai ha i diritti. Si tratta della prima incursione della televisione pubblica nel mare periglioso delle piattaforme di streaming ed è possibile dire già da ora che non avrà vita facile. Non si conoscono i dettagli dell’accordo con Amazon, in particolare come vengono divisi i ricavi, chi abbia pagato gli investimenti iniziali, chi gestisca la piattaforme tecnologica e con quali investimenti, anche se a prima vista sembrerebbe sostanzialmente  un accordo di revenue sharing.
 

Quando dopo il 2018, seguendo il crescente successo di Netflix, sono nate molte piattaforme di streaming create soprattutto dalle major cinematografiche che vedevano la possibilità di controllare direttamente un canale distributivo che si stava rivelando importante, i consumatori statunitensi e poi quelli degli altri paesi si sono trovati di fronte a una moltiplicazione dell’offerta e non era raro in quegli anni trovare famiglie abbonate anche a 4-5 piattaforme  per provare la novità.
 

Da allora il mercato si è fatto molto più selettivo e la media di abbonamenti per famiglia è scesa a due, e dunque la vita per le piattaforme minori si è fatta più difficile, con un aumento degli abbandoni. Molti utenti si abbonano pochi mesi per vedere particolari prodotti e poi lasciano. Le piattaforme leader si sono rapidamente posizionate su prezzi attorno ai 10 euro mensili, che hanno ovviamente impensierito le tradizionali pay tv mediamente 3-4 volte più care.
 

Anche Disney+, che si è affermata stabilmente come la terza piattaforma, globalmente come in Italia, e che è figlia della major più potente con in catalogo delle cannoniere come i cartoni omonimi e la saga completa di “Guerre stellari”, per anni non è riuscita a schiodarsi da un ricavo medio per abbonato  (Arpu) di 5 dollari per riuscire a infilarsi con sconti  e promozioni tra le selezioni dei consumatori. Solo recentemente ha aumentato i prezzi in Europa a meno di 9 euro (anche se ha un Arpu più basso), e nonostante un catalogo di quasi 2 mila titoli  rimanga con un tasso di abbandono (churn rate) di oltre il 4 per cento mensile quasi doppio di quello del migliore, che è comunque vicino  al 2 per cento. Le altre piattaforme delle major stanno tutte peggio, per sopravvivere devono tenere i prezzi bassi raggiungere la soglia dei 2-3 mila titoli e, se pure hanno consolidato basi di qualche decina di milioni di abbonati, sono ossessionate dai tassi di abbandono elevati e dalla difficoltà di consolidare nuovi abbonati.
 

Il mercato è globale, le economie di scala sono molto elevate e la concorrenza è molto forte, fatta con investimenti crescenti, continui flussi di nuovi contenuti, combattuta sul piano dell’eccellenza tecnologica, sia con l’uso crescente di intelligenza artificiale, sia con messa a punto di piattaforme tecnologiche dove tutti i dettagli contano. In questo contesto i 150 film della Rai offerti a 7 euro al mese sembrano destinati a una vita complicata perché non è facile  che il canale sia tra le prime tre scelte paganti di consumatori che mediamente stanno riducendo le piattaforme a due. Del resto non è la prima volta che il settore pubblico si illude che lo streaming sia una facile opportunità. ItsArt promossa da Franceschini doveva essere lo streaming della cultura italiana e si è risolta nel devolvere una decina di milioni al partner privato, sottovalutando completamente l’economia di produzione dei contenuti e accumulando 7,5 milioni di perdita nel primo esercizio.
 

Questa volta sembra meno pericoloso, ma nelle chiacchiere nei corridoi della  Rai già si mormora sul perché l’iniziativa non sia stata fatta all’interno, per essere protagonisti dell’innovazione tecnologica e non lasciare a pericolosi partner stranieri accessi all’audiovisivo e ai consumatori italiani. Il problema è che per gestire un servizio Vod occorre saper fare e saper gestire una piattaforma digitale, cosa meno scontata di quello che appare a prima vista, fatta di grandi investimenti nei contenuti e  di molti dettagli tecnologici e non. Inoltre si tratta di un settore dove esistono rilevanti economie di scala e dove c’è un forte first mover advantage. Netflix adesso, nonostante un rallentamento della crescita, è un’azienda di grande successo e nel 2023 ha realizzato 5 miliardi di profitto su 33 di fatturato, ma per tanti anni ha vivacchiato con pochi profitti a differenza dell’unica piattaforma europea Spotify che ha sempre chiuso bilanci in perdita. I profitti veri sono iniziati dopo il 2018 più o meno quando ha raggiunto la soglia dei 150 milioni di abbonati e i prodotti interni hanno cominciato a ripagarsi su una base sufficiente di abbonati. Lo streaming Svod insomma è fatto per quelli che ribaltano il tavolo; non è un gioco da vecchie aziende attorcigliate dove nel nuovo consiglio di amministrazione 5 membri su 7 sono dipendenti o ex dipendenti.
 

Marco Gambaro è professore all'Università Statale di Milano

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