Ricetta seriale
Nobody wants this, il compromesso tra l'amore e le proprie radici
Adam Brody e Kristen Bell regalano grande chimica nella serie Netflix che esplora il conflitto tra passione e tradizione. Una rom-com frizzante che però sfiora solo le questioni più profonde
Nelle commedie romantiche esiste una regola aurea: il cast è (quasi) tutto. Se si azzeccano i protagonisti, la chimica tra loro, il fatto di essere volti credibili per la storia che stanno raccontando – e l’amore che mettono in scena – tutto il resto è sostanzialmente subordinabile. Non fa eccezione Nobody wants this, serie Netflix in dieci episodi da circa mezz’ora ciascuno che racconta della relazione tra Noah (Adam Brody) e Joanne (Kristen Bell). Siamo a Los Angeles e Noah è un rabbino, in lizza per diventare rabbino capo della propria congregazione, mentre Joanne è una ragazza di mondo a cui piace divertirsi e che cura un podcast sulle relazioni (e il sesso) insieme a sua sorella Morgan. I due si incontrano e si innamorano ma subito la loro relazione è osteggiata e messa in crisi dall’esterno. C’è la famiglia di Noah, tradizionalista, che non vede di buon occhio che il figlio stia con una shiksa (non ebrea), c’è la sorella di Joanne che si sente defraudata della complicità che ha sempre avuto con lei, c’è la famiglia delle ragazze che – seppur decisamente poco ortodossa (il padre di Joanne si è separato dalla moglie poiché gay e ha risposato un uomo) non prende sul serio quel rapporto e c’è la cognata di Noah – nonché migliore amica della ex del rabbino – intenzionata a sabotare la relazione. I due vedono crescere il loro rapporto - tra alti e bassi – ma a un certo punto si presenta il problema dirimente: Noah ha la possibilità reale di un avanzamento di carriera ma il frequentare una ragazza non ebrea (e potenzialmente sposarla) potrebbe essere di cattivo esempio per la sua congregazione. Si prospettano quindi due scenari: che Joanne si converta o che Noah decida di mettere fine a quella relazione.
La serie è una rom-com riuscita, brillante e “intrattenente” soprattutto nella prima parte (che è quella di scoperta e innesto della relazione tra i protagonisti). Appare però più debole sul finale poiché, in qualche modo, rimane troppo in superficie. Pone infatti un quesito narrativo profondo – quello di dover fare i conti con la divaricazione, a volte esistente, tra chi siamo (le nostre origini e ciò in cui crediamo) e chi amiamo. Dell’equilibrio e del bilanciamento tra le due cose, dei compromessi – più o meno accettabili – a cui si deve scendere. Questo aspetto è potenzialmente interessante nel racconto ma totalmente bypassato nel finale. Non è chiara la ragione profonda per cui Noah prende la sua decisione, si rimane in superficie. Non si tratta di una serie introspettiva, quindi lo spettatore non si aspetta certo una disanima psicologica sui protagonisti, ma qualche chiarificazione (o snodo narrativo) in più su questo aspetto avrebbe giovato. È una serie godibile Nobody wants this, a cui però manca uno scatto narrativo in più per esprimere a pieno la sua efficacia. Rimane buon intrattenimento – brillante e ben confezionato (e che mantiene il cuor leggero, cosa di cui spesso abbiamo bisogno) – ma forse è un’occasione (in parte) persa.
Qual è il tono della serie in tre battute?
“Alcuni divorzi vanno festeggiati”.
“Ci sarà qualche candidato interessante per te. Un divorziato con un figlio piccolo, uno che lavora nella finanza e un rabbino – oh, pensavo fosse una brutta barzelletta. Sembrano tutti orribili. Ci sarò”.
“Dì qualcosa di rabbinico”. “C’è un violinista sul tetto”.